UN ULISSE SENZA
ITACA

«Sono nato al Pireo, il porto di Atene, nel 1936, ed ero, più o meno, un bambino come tutti gli altri».

Così Jannis Kounellis amava raccontare la sua infanzia, trascorsa in quel grande porto dove la Grecia incontra il mondo, nel quale aleggiava un profumo di caffè. Genitori comunisti e impegnati: il padre faceva parte del movimento di resistenza contro gli invasori stranieri, tedeschi e italiani, e si occupava soprattutto di facilitare la fuga degli ebrei, che venivano imbarcati dal Pireo verso l’Asia Minore. Tra i primissimi ricordi il terrore della guerra, i bombardamenti sul porto, la confusione della guerra civile, cominciata alla fine della seconda guerra mondiale e durata fino ai primi anni Cinquanta. Da ragazzo Jannis frequenta un istituto artistico di preparazione per entrare all’Accademia di Belle arti: ama Van Gogh e studia molto, anche perché la scuola è di impostazione tradizionale, e gli studenti passano il tempo a disegnare ritratti a carboncino. «Io facevo altro, ma non ho conservato nulla di quei tempi. Ero alla ricerca di qualcos’altro, mentre loro tentavano solo di perfezionarsi nelle cose che stavano facendo», confessa.

L’idea di lasciare quel mondo culturale chiuso e provinciale arriva molto presto, e a vent’anni Jannis taglia i ponti col suo paese natale per trasferirsi a Roma con sua moglie Efi che aveva sposato a 17 anni. Non è un arrivederci ma un addio: per vent’anni Jannis non mette più piede in Grecia, e ama definirsi come una persona greca ma un artista italiano. Si iscrivono entrambi all’Accademia di Belle arti in via Ripetta, dove frequentano il corso di scenografia tenuto da Toti Scialoja, vanno a vivere in una casa-studio a piazza di Firenze, in pieno centro storico, e scoprono il clima dei giovani artisti, tra i tavolini del caffè Rosati e l’obelisco di piazza del Popolo. «Efi definì la situazione romana il dopo-dopoguerra. Scoprii che c’era una sensibilità contemporanea, che ovviamente non esisteva in Grecia». Il primo anno Kounellis passa molto tempo a pensare, si avvicina all’arte di Alberto Burri e Lucio Fontana, incontra Renato Guttuso ma si lega soprattutto a Pino Pascali, Francesco Lo Savio, Giulio Paolini, Piero Manzoni, Luciano Fabro, Enrico Castellani.

Il suo sguardo si focalizza su alcuni artisti internazionali: Franz Kline per il rapporto tra segno e tela, Jackson Pollock per l’invenzione di un nuovo spazio, ma anche i costruttivisti russi come Malevicˇ e Tatlin. Per uscire dall’Informale cerca nei maestri la radicalità, e con i giovani condivide la volontà di costruire una nuova storia. «Eravamo tutti nella stessa condizione storica: l’Italia era appena uscita da una guerra disastrosa: era così che avevamo raggiunto una visione critica». Una visione che porta l’artista a realizzare le sue prime opere: una serie di dipinti su fondo bianco con parole, lettere, numeri o segnali stradali disseminati sulla tela senza un ordine apparente. Alcuni sono insegne, come Olio, Vino o Tabacchi: «Erano le insegne della strada dove vivevo. Le rifacevo e rappresentavano l’oggettività ambientale. Erano dipinte ma non stampate. Era il fascino di una pittura cittadina, ma è anche una pittura non rappresentativa né gestuale». Anche gli intervalli tra una lettera e un’altra hanno un senso, perché l’artista canta le lettere presenti in ogni dipinto e nel 1960 compie un’azione all’interno dello studio dove si avvolge in un dipinto come l’abito di un antico prelato, probabilmente ispirato dal costume indossato da Hugo Ball al Cabaret Voltaire di Zurigo nel 1916. È una pittura, quella di Kounellis, che da una parte tende verso la terza dimensione, e dall’altra si pone come linguaggio autonomo e fondativo di una poetica complessa e consapevole. Come suggerisce Germano Celant: «Le lettere che lo compongono [il suo linguaggio] diventano segni che accennano un mondo linguistico che si esprime con le proprie origini e i propri segnali.


Azione di Jannis Kounellis nel suo studio, Roma 1960.

Vederli e leggerli è un atto neutrale e constatativo che rivela in Kounellis una tensione interrogante e scrutatrice sulla struttura linguistica, pubblica e universale». Nel 1960, a soli ventiquattro anni, l’artista presenta a Roma la prima personale presso la Galleria La Tartaruga, diretta da Plinio de Martis, dove lavora anche un altro straniero, l’americano Cy Twombly, arrivato a Roma dagli Stati Uniti nel 1957.

Presenta quattro smalti su tela con lettere, introdotti da un testo di Mario Diacono, L’alfabeto di Kounellis, pubblicato sui “Quaderni della Tartaruga”, che descrive la tela come «il foglio su cui un ragazzo fa i compiti a scuola, e l’ingegnere i suoi progetti». Per tre anni l’artista si dedica a questa ricerca, con alcune varianti: nel 1961 dipinge le lettere J e Z su due fogli di giornale e nel 1963 realizza un dipinto con i nomi dei giorni della settimana, e altri con le parole Notte, Vieni e Giallo, oltre alla parola Petite accompagnata con alcune note musicali, tratte dalla canzone di Sydney Bechet Petite fleur, che doveva essere suonata al pianoforte per accompagnare il quadro. Sono tutti riferiti a situazioni personali vissute a quell’epoca dall’artista e trasformate in immagini simboliche sobrie ed essenziali. Le reazioni della critica sono incoraggianti: Cesare Vivaldi assegna a Kounellis, nell’ambito della giovane pittura italiana, «un posto tutto suo e di notevolissimo rilievo»; Germano Celant parla di «un tentativo di mantenere raccolto e unito un linguaggio comune, sconvolto dall’impatto della produzione di massa», e suggerisce un parallelo con la poetica di Pier Paolo Pasolini, che nel 1957 pubblica Le ceneri di Gramsci, interrogandosi sul ruolo dell’intellettuale nella società dell’epoca. «La posizione di Kounellis è dialettica, il suo è un muoversi all’interno del linguaggio, come entità privata e pubblica al tempo stesso», sottolinea Celant.


Senza titolo (1960).

KOUNELLIS
KOUNELLIS
Ludovico Pratesi
Jannis Kounellis (Pireo 1936-Roma 2017) si trasferisce dalla Grecia a Roma non ancora ventenne. Alla fine degli anni Sessanta lega il suo lavoro creativo e il suo nome all’Arte povera, con l’uso di materiali presi dalla quotidianità e un coinvolgimento del pubblico in allestimenti sempre più allusivi allo scontro fra vita reale e contesto socioeconomico. Le sue installazioni si concentrano sempre più sulla critica al sistema globale di produzione/fruizione dell'arte; si popolano di animali - vivi, macellati, imbalsamati -, di materiali come pietre, mattoni, ferro, carbone, legno. Partecipa alla Biennale di Venezia per la prima volta nel 1972. A partire dagli anni Ottanta realizzerà grandi installazioni in Messico, in Argentina, a Roma, a Firenze, a Palermo.