IL PRIMO "JAPONARD"
DEL MONDO OCCIDENTALE

Straordinario comunque è l’ingresso del nostro artista nel continente del giapponismo, nettamente superiorea quanto stavano facendo i suoi compagni di via.

In fondo, il documento più significativo in tal senso è il Ritratto di Zola, redatto da Manet nel 1868, in cui il gabinetto di lavoro del grande romanziere risulta appunto tappezzato dalle stampe giapponesi, a dimostrazione che in quel momento erano divenute di gran moda. Ma il ritratto di per sé era risolto in termini di un mimetismo abbastanza consueto alla nostra vecchia tradizione occidentale, seppure con i segni di quello schiacciamento sulla superficie che in definitiva è pur sempre una qualche eco, da parte del pittore francese, di accoglimento del messaggio estremo-orientale, rivolto a mettere un freno a esibizioni eccessive della prospettiva. Ma Whistler fa ben di più, obbliga le sue modelle a entrare proprio nei panni di qualche nobildonna o geisha giapponese, come dimostra il dipinto La principessa del paese di porcellana (1863- 1864, Washington, Smithsonian Institution, Freer Gallery of Art). A dire il vero al momento è solo un’opera premonitoria, in quanto non vi entrano le preziose porcellane di gusto estremo-orientale, ma oltre ai fastosi ricami dell’abito indossato dalla modella, promossa al rango di principessa, dominano un ancor più fastoso tappeto ai suoi piedi, col solito compito di far scivolare sul piano l’intera visione, e alle spalle un ugualmente elegante paravento, anch’esso aperto “a libretto”, o per meglio dire “a soffietto”, con estroflessioni subito compensate da pronti rientri. Il tutto poi risulta ulteriormente appianato dal ventaglio che la donna agita, col compito di ridurre ancor più la profondità spaziale. Un altro momento di attesa è nel Capriccio in porpora e oro n. 2, dove, se non bastassero le due note cromatiche annunciate al primo posto nel titolo, si para subito nelle retrovie un paravento dorato (1864, Washington, Smithsonian Institution, Freer Gallery of Art). La geisha-nobile principessa si dispone per il lungo, proprio per consentire che i vari formati rettangolari (ci sono anche delle immagini sciorinate sul pavimento) dominino l’intera scena, e infatti si può proprio parlare di un effetto domino, di tante pedine che si incastrano felicemente le une nelle altre. Ma infine le porcellane già invocate entrano davvero in scena, in un dipinto dove la solita fanciulla in costume si dispone di buon grado a un ruolo umile d'inserviente, sorpresa mentre contempla con ammirazione, tenendola tra le mani, proprio una favolosa porcellana di Delft, detta di “Lange Leizen”, con cui una nota ditta olandese strizzava l’occhio all’esempio autorevole proveniente dall’altro capo del mondo. E quella non è la sola comparsa del prodotto raffinato, in quanto una porcellana ancor più capace domina il primo piano con le sue forme panciute, e altre fanno capolino dovunque sia possibile, su mensole e tavolini, in buona compagnia con vasi che tentano di tornare a imporre la solita dimensione dell’“à plat”. Quasi per rispondere alla sinfonia di corpi tondeggianti anche la figura umana, in quella fase, rinuncia quasi allo scheletro, a una nascosta struttura ossea, preferendo presentarsi secondo una consistenza, o inconsistenza, molle, cedevole, quasi pronta a essere risucchiata da un accogliente divano che la assorbe, determinando una Sinfonia in bianco cui conviene dare un numero di serie, n. 3, come si fa proprio con le “pièces” musicali (1865-1867, Birmingham, University of Birmingham, Barber Institute of Fine Arts). Per accedere a tanta mollezza, a tanta indeterminazione, l’artista sente di dover fare un passo indietro, e dunque pone il suo autoritratto, ma esile, simile a una fumata sbucante da una lampada di Aladino, accanto alle sue creature trattate allo stesso modo, in un ambiente che si fa aereo, sfumato, evanescente (Whistler nel suo studio, 1865, Chicago, Art Institute of Chicago).


La principessa del paese di porcellana (1863-1864); Washington, Smithsonian Institution, Freer Gallery of Art.

Capriccio in porpora e oro n. 2, il paravento dorato (1864); Washington, Smithsonian Institution, Freer Gallery of Art.

Capriccio in porpora e oro n. 2, il paravento dorato (1864); Washington, Smithsonian Institution, Freer Gallery of Art.


Whistler nel suo studio (1865); Chicago, Art Institute of Chicago.

Per assecondare meglio questo ingresso nell’universo dell’indefinito, dello sfumato, risulta opportuno valersi di supporti in cartone, da rapido bozzetto, come avviene in una ennesima Sinfonia in bianco, animata da Tre ragazze (1868, Washington, Smithsonian Institution, Freer Gallery of Art), e in una figura che apre, come un pavone pronto a fare la ruota, la sua veste deliziosamente drappeggiata in strascichi. In questo caso il pensiero del pittore va a una eroina letteraria, la Annabel Lee, musa ispiratrice di Edgar Allan Poe (1870, Washington, Smithsonian Institution, Freer Gallery of Art).
Ma corriamo ormai verso l’esito ultimo di questa marcia forte e sicura di Whistler verso un giapponismo che osa sfidare la stessa fonte di quel gusto, quasi applicando il detto del “portare vasi a Samo”, ovvero di praticare stilizzazioni ancor più audaci di quante si possano trovare nel cuore delle isole nipponiche. Siamo ormai agli inizi degli anni Settanta, e nelle sue incessanti puntate e permanenze a Londra l’artista ha incontrato una coppia di ricchi borghesi del luogo, i coniugi Leyland, cui dedica un ritratto ciascuno, come è ormai diventato suo costume, e anche fonte di reddito. Il ritratto di Mrs Frances Leyland non si discosta molto dai precedenti omaggi in costume “japonard”, dando luogo a una Sinfonia color carne e rosa (1871-1874, New York, Frick Collection). Più rari, fino a quel momento, i cimenti col ritratto maschile per il quale evidentemente bisogna lasciare da parte le vestizioni di gusto estremo-orientale, ma non per questo l’artista rinuncia alle sue propensioni per una terminologia musicale, e dunque anche per Mr Leyland si tratterà di un Arrangiamento in nero, con relativa acquiescenza alle imposizioni della moda. Nelle occasioni di gala, e i ritratti stesi dal nostro pittore appartengono a questa categoria, l’abito scuro è di rigore, sarà questa una regola cui raramente rinuncerà anche nella successiva lunga serie di ritratti di personaggi virili.


Sinfonia in bianco, tre ragazze (1868); Washington, Smithsonian Institution, Freer Gallery of Art.

Annabel Lee (1870); Washington, Smithsonian Institution, Freer Gallery of Art.


Sinfonia color carne e rosa (Mrs Frances Leyland) (1871-1874);
New York, Frick Collection.
È la solita figura femminile slanciata in verticale, avvolta in un prezioso manto in cui compaiono motivi decorativi che fanno già pensare agli occhi della coda del pavone, il tutto nobilitato da un tralcio di pianta che sta a indicare la volontà di stringere la presenza umana in un unico abbraccio col mondo vegetale. Da notare anche il prezioso ghirigoro che cinge in basso la parete della stanza, già di gusto giapponese.

La figura ritratta svetta, lunga, estenuata, occupando l’asse centrale del dipinto, e soltanto il volto, lo sparato della camicia, una mano dinoccolata osano uscir fuori dall’armonia in scuro rigorosamente dominante, adottando una tipologia che poi ritroveremo in altri cultori della ritrattistica virile, dal nostro Giovanni Boldini fino a un altro straordinario esponente della scuola statunitense quale John Singer Sargent. In fondo fin qui nulla di eccezionale, di eccedente rispetto all’ormai stabilita linea di navigazione del nostro pittore, senonché il signor Leyland ha l’infelice idea di fidarsi troppo del suo cantore, fino a lasciargli le chiavi della sua casa londinese, in occasione di una sua assenza prolungata. Whistler, credendo di far bene, di rendere un favore al padrone della dimora, penetra nel salotto buono dove fra l’altro Leyland tiene una superba collezione di preziose porcellane, e dunque, “nomen omen”, ci sta bene piazzare su una parete la Principessa del paese di porcellana, dominatrice cioè proprio in quel paese in cui il nostro artista si crede felicemente approdato, avendo sortito dall’ospitante una specie di “licenza di uccidere”. Quindi perché non procedere a un “arrangement” strepitoso, cui egli stesso non era ancora giunto? A ispirarlo entra il tema dei pavoni, la cui ruota vale assai più di qualsivoglia manto o strascico di geishe o principesse, vale a esercitare un effetto frusciante nell’aria, appianante, come di tanti ventagli agitati in simultanea. Ne viene una stilizzazione superba, mai vista dalle nostre parti, con cui l’Occidente riscatta secoli, per non dire millenni, spesi nel disprezzo o nell’accantonamento dei motivi decorativi. Il nostro prodigioso decoratore non si nega nulla, in un pannello i pavoni dispongono per il lungo i loro manti, pare di udirne lo starnazzare, ovvero l’emettere note non proprio sinfoniche, in questo caso, che comunque valgono a ricamare lo spazio, a ricoprirlo di una fastosa epidermide, pulsante, reattiva. Su una parete attigua i pavoni restringono invece le code portentose, come farebbero le fanciulle che devono raccogliere i manti per uscire di scena. A questo modo Whistler conduce un’impresa epica, che in quel momento nessun altro occidentale era in grado di compiere, si proietta in avanti, raggiunge le magiche soglie del simbolismo, di Gauguin, dei Nabis, o meglio ancora del più brillante esponente inglese di quell’età, Aubrey Beardsley. L’artista, giustamente compiaciuto del suo lavoro, attende di ricevere il plauso di Mr Leyland al suo ritorno, ma invece l’arcigno borghese non apprezza affatto quell’intervento, che non è in grado di comprendere nel suo valore inusitato, anzi minaccia l’artefice di ritorsioni, anche giudiziarie, e comunque non intende pagargli per intero il compenso che l’esecutore pretende. Forse, in margine a questo capitolo vale pure la pena di osservare che Whistler, con una totale coerenza degna proprio dei futuri artefici della congiuntura simbolista-Art Nouveau, ragiona in misura totalizzante, concependo un universo armonico, dal mini al maxi. Infatti decide di stilizzare anche la propria firma adottando l’icona felicemente attorta di una farfalla, alla maniera di un gioiello degno di Tiffany. Quell’esile stilema è l’unico che si addice alla cartografia del mobile e dell’eccentrico prodotta sulle pareti del salotto prodigioso. Fosse stato per Leyland, si sarebbe proceduto alla demolizione della Peacock Room (Stanza dei pavoni), ma in seguito se ne è riconosciuta tutta l’importanza, e i pannelli sono stati salvati e trasferiti allo Smithsonian Institution di Washington (Freer Gallery of Art) dove si possono ammirare tuttora. È quasi la vicenda su cui tanto tempo dopo il regista francese René Clair imbastirà il suo Fantasma galante, storia del riccone yankee che acquista un castello scozzese non sapendo che vi è incluso anche lo spirito vendicativo di un avo in cerca di vendetta. A dire il vero, Whistler non avrebbe mai accettato il trasferimento del suo capolavoro di estro decorativo in una patria non amata.


Arrangiamento in nero (Mr Leyland), (1870-1873); Washington, Smithsonian Institution, Freer Gallery of Art.

Peacock Room (1876-1877);
Washington, Smithsonian Institution, Freer Gallery of Art.

Magnifica visione della Stanza dei pavoni, realizzata da Whistler nella casa privata di Mr Leyland di cui l’artista americano aveva fatto il ritratto pochi anni prima. In occasione di una sua assenza, Mr Leyland aveva imprudentemente lasciato le chiavi della sua casa a Whistler che ne aveva approfittato per dare libero corso alla sua fantasia ornamentale, tracciando sulle pareti immagini monumentali di pavoni, scelti per i loro preziosi strascichi, imitando i quali l’arte gareggia con la spontanea capacità creativa della natura. Un’opera che però il proprietario non apprezzò e che rischiò addirittura di essere distrutta.


Peacock Room (1876-1877);
Washington, Smithsonian Institution, Freer Gallery of Art.

WHISTLER
WHISTLER
Renato Barilli
James Abbot McNeill Whistler (Lowell, Mass., 1834 - Londra 1903) è figlio di un ingegnere, pioniere della costruzione di linee ferroviarie negli Stati Uniti che, su richiesta dello zar Nicola I, si trasferisce a San Pietroburgo nel 1842. È quindi in Russia che James, ancora bambino, si appassiona al disegno e alla pittura. Si trasferisce poi a Londra e poi di nuovo negli Stati Uniti. Nel 1855 lascia per sempre la sua patria e sceglie la bohème parigina. Entra nel mondo dei caffè, degli artisti e dei poeti. Il suo carattere difficile, i toni spavaldi, lo stile libero da accademismi e centrato sul colore gli attirano consensi e critiche; si lega a Courbet, Monet, Lautrec, a Oscar Wilde. Sostiene un'arte che vive solo dei propri valori estetici, libera da intenti morali o pedagogici come dall'imitazione della natura. I suoi quadri sono come impressioni musicali, armonie cromatiche, improvvise esplosioni di luce.