GGià a metà del Cinquecento uno storico fiammingo, Marcus van Vaernewijck, si chiedeva come fosse stato possibile che attorno al 1430 due pittori nati in un paesino come Maaseyck avessero potuto inventare un nuovo modo di dipingere «quasi dal nulla» e lo avessero portato immediatamente «al più alto livello». I due pittori erano Hubert e Jan van Eyck; in particolare quest’ultimo, attivo soprattutto a Gand e a L’ALTRO RINASCIMENTO Bruges, e la cui fama aveva valicato i confini di Fiandra per la magistrale padronanza della pittura a olio, al punto che proprio a Jan ne veniva attribuita l’invenzione. In realtà la tecnica era già in uso nel Nord Europa da qualche decennio(2), ma Van Eyck l’aveva condotta a risultati tali che, come scrive Vasari nella Vita di Antonello da Messina (1568), «mise in disiderio grandissimo gl’artefici di sapere in che modo egli desse all’opere sua tanta perfezzione ». Desiderio in breve tempo esaudito: «Egli già divenuto vechio, ne fece grazia a Ruggieri da Bruggia suo creato [Rogier van der Weyden], che la insegnò ad Ausse [Hugo van der Goes] suo discepolo»; in breve, nel corso del XV secolo tutti i centri artistici italiani, in particolare quelli che avevano dimestichezza con la produzione fiamminga, avevano adottato la tecnica a olio poiché, come scrive ancora Vasari nel capitolo XXI della prima edizione delle Vite (1550), rispetto all’opacità della tempera in uso in Italia, «questa maniera di colorire accende più i colori, né altro bisogna che diligenza et amore, perché l’olio in sé si reca il colorito più morbido, più dolce e delicato e di unione e sfumata maniera più facile che li altri, e mentre che fresco si lavora, i colori si mescolano e si uniscono l’uno con l’altro più facilmente. Et insomma gli artefici danno in questo modo bellissima grazia e vivacità e gagliardezza alle figure loro, talmente che spesso ci fanno parere di rilievo le loro figure e che elle eschino de la tavola». Lo scopo del dipingere a olio era quindi esplicito: rendere il soggetto rappresentato il più naturale possibile. La ricerca dell’illusione - la capacità di ingannare l’occhio di chi guarda simulando un oggetto con una raffigurazione bidimensionale, e questo grazie al talento sostenuto da una tecnica sopraffina - riconduceva al mito di Apelle tramandato da Plinio il Vecchio e recuperato dagli studi umanistici.
L’ALTRO
RINASCIMENTO
L’autunno del Medioevo, nelle Fiandre, si chiuse lasciando il campo a un’imprevista primavera(1).
(1) Sull’interpretazione del periodo in esame come estremo esito del Medioevo e, al contrario, come nascita di una stagione nuova cfr. J. Huizinga, L’autunno del Medioevo, 1919, da un lato e M. Meiss, French Painting in the Time of Jean de Berry, New York 1968-1974, dall’altro.
(2) Cfr. T.-H. Borchert, P. Huvenne, Jan van Eyck et la peinture à l’huile, in Le Siècle de Van Eyck 1430-1530, catalogo della mostra (Bruges, Groeningemuseum, 15 marzo - 30 giugno 2002), a cura di T.-H. Borchert, Gand-Amsterdam 2002, pp. 220-225.
L’interesse critico per l’arte fiamminga nacque e si sviluppò in area italiana, con Bartolomeo Facio, Ciriaco d’Ancona, Antonio Filarete, Giovanni Santi, Pietro Summonte, Marcantonio Michiel, Vespasiano da Bisticci e infine, appunto, con Vasari e Lodovico Guicciardini, autore nel 1567 di una Descrittione di tutti i Paesi Bassi. Facio, nel suo De viris illustribus (1455- 1477) inserisce tra le biografie dei suoi contemporanei più significativi solo quattro artisti: Pisanello, Gentile da Fabriano, Jan van Eyck e Rogier van der Weyden. L’accoglienza da parte italiana delle novità d’oltralpe fu favorevole e duratura, con episodi di collezionismo come quello Renato d’Angiò, re di Napoli, e poi del suo successore Alfonso d’Aragona (al quale Facio dedica proprio il De viris illustribus), di mecenatismo come quello della corte dei Montefeltro a Urbino, di apprezzamento e committenza nel caso per esempio di alcuni mercanti e finanzieri toscani o veneti. Lorenzo de’ Medici possedeva un San Gerolamo nello studio di Jan van Eyck, ma nell’inventario compilato alla sua morte, nel 1492, dei centoquarantadue dipinti della sua collezione ben quarantadue erano di mano fiamminga. Gli artisti nordici ebbero un influsso evidente su Botticelli, Piero della Francesca, Ghirlandaio, Antonello da Messina, Colantonio, Piero di Cosimo e molti altri.
Lo stesso Vasari - l’iniziatore della storiografia artistica europea - sostiene però ed esemplifica il successivo superamento di quei modelli da parte della «maniera italiana»: per la nobiltà dei soggetti rappresentati, per la sua maggiore aderenza a un ideale di bellezza universale; al contesto nordico viene così riconosciuta solo una primogenitura “tecnica” nel generale rinnovamento delle arti, buona per soggetti per così dire di contorno, per generi pittorici apprezzabili ma gerarchicamente inferiori rispetto a quelli praticati dalla grande pittura italiana. Questo schema fu accolto ovunque a partire dalla seconda metà del Cinquecento, anche in area fiamminga. Lo storico olandese Carel van Mander, nel suo Schilderboek (1604), modellò sull’impianto evoluzionistico vasariano la propria descrizione dell’arte del tempo nei Paesi Bassi e articolò per la prima volta la definizione di “primitivo” riferendosi a Hieronymus Bosch, rappresentante di un periodo arcaico e ormai superato. Vasari aveva in qualche modo preparato, parlando però di architettura, un contenitore e un’etichetta adeguati per quell’arte ritenuta grezza, dura e inquinata da barbarismi: era la «maniera tedesca», tipica dei «Gotti», era gotica insomma. Il termine ebbe successo e finì per definire stabilmente uno stile e un periodo legati a una definita area geografica. Roger de Piles nel 1684 (Les élémens de peinture pratique) attribuisce ai pittori di quel contesto culturale l’attitudine a riprodurre «la natura concepita così come la si vede normalmente, con tutti i suoi difetti e non già come sarebbe nella sua purezza»(3). La riabilitazione del Gotico in ambito romantico, nell’Ottocento, portò con sé anche il recupero dei “primitivi” fiamminghi, e di Jan van Eyck su tutti. Al punto che la definizione di primitivo assunse un carattere tutt’altro che dispregiativo ed è rimasta a lungo nell’uso, soprattutto negli studi di specialisti francesi e in particolare dopo la rivalutazione della cosiddetta “arte primitiva” intesa in senso etnoantropologico.
(3) Cit. in F. Elsig, L’arte del Quattrocento a Nord delle Alpi, Torino 2011, p. XVIII.
(4) Cfr. H. Vliege, Flemish Art, Does it Really Exists?, in “Simiolus”, vol. 26, n. 3, 1998, pp. 187-200.
(5) F. Elsig, op. cit., p. XXI.
Questa breve introduzione di carattere generale era necessaria per fornire un punto di partenza a un esame della pittura fiamminga del Quattrocento articolato per temi e per esemplificazioni, senza scendere sul terreno di una distinzione ed esposizione dettagliata per scuole o singoli artisti. Le pagine che seguono saranno quindi basate sui tratti caratterizzanti di quella esperienza artistica (a volte in parallelo a quella italiana) in modo da fare emergere le peculiarità del percorso di quello che possiamo considerare un “altro” Rinascimento: il naturalismo, il ritratto, il nuovo interesse per l’individuo in quanto tale.
Sullo sfondo, la convinzione che l’area culturale di cui stiamo parlando fosse nel secolo XV un terreno dove tracciare dei confini così come oggi li concepiamo non avrebbe molto senso: né quelli politici né quelli tra scuole nazionali e nemmeno, spesso, quelli tra diverse discipline. Si trattava di una comunità, quella degli artisti attivi nel Quattrocento in Europa, che viveva un paradosso: una grande mobilità di persone, opere e idee da un lato, e la difesa di interessi campanilistici, segreti e gelosie dall’altro. Con il risultato che a essere importante è il contesto generale, all’interno del quale, in ambito europeo, al di là delle varianti locali si può parlare di un linguaggio comune, di una «geografia artistica» e di «scambi culturali» (per tornare alla citazione da Elsig) in cui il contatto sviluppa idee.
PITTURA FIAMMINGA DEL QUATTROCENTO
Claudio Pescio
Agli inizi del XV secolo, due diversi 'rinascimenti' prendono forma in Europa: il Rinascimento di riscoperta della classicità, e della scienza prospettica italiano, e il rinnovamento naturalistico fiammingo, fondato sul realismo e sulla luce. Il dossier affronta il periodo di formazione e affermazione di quest'ultimo in area borgognona-franco-fiamminga, dalle prime prove nell'ambito della miniatura fino all'ultimo decennio, attraverso artisti come i Limbourg, Robert Campin, Van Eyck, Van der Weyden, Petrus Christus, Van der Goes, Memling. Si assiste così alla nascita di una pittura ammirata al tempo nell'intero continente, soprattutto in Italia, votata alla riproduzione meticolosa del dato visivo, alla prima definizione dei generi pittorici, al miracolo della luce naturale che dà forma allo spazio.