UN MARE DI ISOLEE DIVERSI PUNTI DI VISTA

L’Oceania è il più piccolo continente al mondo per terre emerse, distribuite nella più estesa massa d’acqua del nostro pianeta

- quasi centottanta milioni di chilometri quadrati - pressappoco un terzo della superficie totale del globo. 

Ma è soprattutto un mare di isole. Oltre venticinquemila. Le più piccole, i motu (isolotti sabbiosi o vulcanici), si elevano dal mare per pochi metri. Altre, assai estese, hanno montagne vulcaniche come il monte Wilhelm (Papua Nuova Guinea) alto 4509 metri, o il Manua Kea nell’isola di Hawaii (4205 metri), la vetta più elevata del pianeta, se si considera la sua estensione per 5761 metri sotto il livello del mare.


Cranio rimodellato di un defunto d’alto rango (1865 circa), particolare, dalla Nuova Georgia (isole Salomone); Roma, Museo nazionale preistorico etnografico Luigi Pigorini.


Scultura lignea con il volto di un antenato (1932 circa), da un tambaran (casa degli uomini iniziati e degli spiriti), area centrale del Sepik (Papua Nuova Guinea); Londra, Entwistle Gallery.

Alcune sono densamente popolate, altre sono atolli con immense lagune circondate da lunghe strisce coralline, larghe poche decine di metri. È impressionante vederle dall’alto e ancora di più percorrerle a piedi, col mare da ambedue i lati della strada, spesso poco più di un sentiero tracciato sui frammenti bianchissimi di corallo, quasi a pelo dell’acqua. Qui, prima dell’epoca coloniale, la terra per coltivare veniva trasportata a sacchi, negli spazi angusti delle piroghe, dopo esser stata prelevata dalle isole più ricche di vegetazione, distanti centinaia di miglia. Va poi considerata la furia dei cicloni. Dopo la tempesta, sotto una luce tornata abbagliante, restano bassi arbusti, qualche palma e gli scheletri dei falé costruiti ancora come secoli fa, lievemente rialzati, senza pareti e col tetto di foglie di palma o pandano intrecciate, sorretto da pali. 

Com’è possibile vivere in ambienti tanto scarni di risorse, alcuni ancora così isolati che col cattivo tempo lo spaccio dell’isola resta senza provviste? Eppure qui si abita da secoli, forse millenni, e vi si sono sviluppate culture artistiche di formidabile vitalità. Perfino nelle più piccole isole, con materiali poveri ma con spiccato senso estetico, ignoti artefici - chissà se dedicati in modo esclusivo a quest’attività - rievocarono nelle forme più disparate le proteiformi sembianze delle divinità del loro pantheon, la pluralità di miti e leggende sugli spiriti del cielo, della terra, del mare, tramandate dai recitanti maori, senza testimonianze scritte: un’arte fortemente sacrale, legata a riti e credenze che affondano le radici anche nel culto dei morti, tradizione ancora molto sentita. In diverse isole della Polinesia, fino al divieto di pochi anni fa, i morti si tenevano presso la propria casa, sepolti in giardino. Specie nelle isole più piccole si vedono ancora tombe di questo genere, curate con fiori sempre freschi. 

Su di noi occidentali i volti terrificanti delle divinità hawaiane, le maschere dei guerrieri, i crani rimodellati delle Marchesi e delle Salomone, gli idoli antropomorfi con doppia testa, possono creare un senso di surreale spaesamento. I surrealisti, non a caso, affascinati da quest’arte nota in Europa sin dalla fine del Settecento, pubblicarono nel 1929 una personalissima carta geografica - Le monde au temps des surréalistes - con l’oceano Pacifico al centro del mondo. Questa però è un’altra storia, che confluisce nella sempre più controversa vicenda del “primitivismo” nelle avanguardie del primo Novecento, la cui portata sui giovani artisti, per non dire la sua stessa esistenza, fu smentita con decisione già da Picasso, che pur collezionava statuette e altri oggetti provenienti dal Pacifico. 

Oggi nei musei di tutto il mondo le opere antropomorfe o teriomorfe dell’Oceania sembrano guardarci dalle vetrine con espressioni poco rassicuranti.


Un motu (isolotto) di formazione vulcanica; Upolu, baia del Seabreeze, costa sudest (Stato indipendente di Samoa).


I motu sabbiosi di Oneroa e Koromiri; Rarotonga, laguna di Muri (isole Cook).


Un falé (capanna aperta) abbandonato; Savai’i, costa sudest (Stato indipendente di Samoa).

John Webber, Uomo delle isole Sandwich con maschera (fine del XVIII secolo). Le isole Hawaii furono chiamate isole Sandwich al momento della loro scoperta nel 1778 da James Cook. Furono così nominate in onore di lord Sandwich (Jonh Montague), quarto conte di Sandwich e diplomatico britannico.


Arte delle Hawaii, Ki’i Hulu Manu, dio piumato (1778-1779 circa); Göttingen, Georg-August Universität, Institut für Ethnologie und Ethnologische Sammlung, Cook/Forster-Sammlung. Donato al capitano Cook da Kalianopu’u, capo supremo delle Hawaii, forse rappresenta Kuka’ilimoku, che significa Ku – il dio della guerra – che si impadronisce della terra.


Ti’i, idolo divino a due teste (prima del gennaio 1882) da Tahiti; Londra, British Museum. L’idolo è stato recuperato da Sampson Jervois, capitano della HMS Dauntless

Osservando un teschio rimodellato vien subito alla mente che alle Marchesi come alle Salomone si praticavano sacrifici umani e cannibalismo, e si andava a caccia di teste dei nemici. Talvolta si trattava di un trofeo di guerra, come nel caso del cranio qui sopra illustrato, i cui disegni sulla fronte (hiku-pona) raffigurano una teoria di pesci, simbolo delle vittime che si andavano a cacciare. 

La testa era ritenuta il fulcro della forza fisica, mentale e spirituale, la parte più sacra del corpo. Riportare nel villaggio il teschio di un nemico significava accrescere prestigio e questo accade in molte altre culture. Qui però si credeva potesse anche scongiurare i pericoli e dissuadere il nemico da eventuali attacchi. Inoltre, per trarre tutto il potere (mana) dall’anima del nemico ucciso, i guerrieri marchesani portavano sempre con loro uno dei teschi conquistati e rimodellati, che legavano in vita tramite una corda intrecciata passata in una conchiglia applicata al naso del macabro trofeo. Non sempre però è questa la corretta interpretazione di tali oggetti inquietanti, che pure sono circondati da un’aura sacrale ma possono essere recepiti in modi molto diversi. 

Una delle opere più impressionanti è il Cranio della Nuova Georgia (isole Salomone), ora al Museo Pigorini di Roma. Il teschio, con i lobi divaricati per far posto ai grandi cerchi azzurri degli orecchini, fu dapprima scarnificato, poi rimodellato con mastice nero e intarsi di madreperla. Dal bianco dell’occhio spicca una perlina azzurra a indicare la pupilla. Le sopracciglia sono strisce bianche traforate, con disegni a losanghe e zigrinature che rievocano le pitture facciali in uso in alcune isole della Melanesia, a indicarne l’appartenenza a un familiare defunto o a un antenato del clan. Ai nostri occhi quest’opera assume la valenza di una vanitas secentesca. Ma è il nostro punto di vista. Per gli abitanti delle Salomone “rilavorare” un cranio significava in primo luogo possedere l’anima, l’essenza stessa del morto. Nel caso di un antenato, era come mantenerlo in vita, e ravvivarne la memoria dopo avergli restituito un aspetto “reale”. 

Una medesima funzione “apotropaica” hanno gli nguzunguzu (o musumusu), la tipica prua di canoa delle Salomone, con la testa antropomorfa di uno spirito (debbledebbleum) o con il muso del cane mitico che insegnò agli umani a costruire la prima canoa. Queste sculture di legno, dipinte di nero con intarsi di madreperla, erano poste sulla prua delle grandi canoe tómako, nella laguna di Marovo in Nuova Georgia (Salomone occidentali). Ancora se ne vedono alcune, decorate anche con teorie di conchiglie della specie ovulum. Come si vedrà, queste figure avevano diversi significati e forse anche la funzione di scacciare i késoko, temibili spiriti dell’acqua.


Cranio rimodellato del nemico (XVIII secolo), dalle isole Marchesi.

Cranio rimodellato con mastice nero e intarsi di madreperla (fine del XIX - inizio del XX secolo), da Ronongo, Nuova Georgia (isole Salomone); Roma, Museo nazionale preistorico etnografico Luigi Pigorini.


Cranio rimodellato con mastice nero e intarsi di madreperla (fine del XIX - inizio del XX secolo), da Ronongo, Nuova Georgia (isole Salomone); Roma, Museo nazionale preistorico etnografico Luigi Pigorini.

Sulle rive del Sepik, in Papua Nuova Guinea, i crani rimodellati si tenevano all’interno delle “case degli uomini”, luoghi di riunione esclusivamente maschili dove si prendevano importanti decisioni per la comunità. Sulle coste del golfo di Papua era consuetudine mostrare tutte insieme le teste degli antenati, quelle dei nemici, dei coccodrilli, dei maialini uccisi nei riti sacrificali ma anche sculture che ne rappresentavano le sembianze. 

Osserviamo adesso una delle prodigiose divinità piumate delle Hawaii, Akua Hulu manu, o Ki’i Hulu manu (immagini di piume d’uccello), vere e proprie sculture alte fin quasi un metro, composte di piume, fibre vegetali, denti di cane, capelli, semi, madreperla ricavata da conchiglie. 

Questi oggetti, realizzati con maestria e spiccato senso espressivo, avevano diversi ruoli. Il primo, a quanto sembra, era proteggere il defunto durante le cerimonie di sepoltura. I Kuka’ilimoku (Ku che s’impadronisce della terra), cioè le teste raffiguranti il dio della guerra, dovevano invece trasmettere ai guerrieri forza e aggressività. Avevano un collo piuttosto lungo, e alcune anche un toupet di capelli umani. L’anima interna, che dava forma e sostegno all’oggetto, era composta da radici aeree di una pianta rampicante, ‘ie’ie (Freycinetia arborea), intrecciate e ricoperte da una rete lavorata col filo di olona (Touchardia latifolia). I Kuka’ilimoku venivano portati in processione, infilati in un lungo bastone, in occasione della partenza dei guerrieri per una battaglia. 

Le piume rosse, materiale primario, vengono, almeno nel caso di quelle prodotte alle Hawaii, da un uccellino endemico che raschia il miele, lo ‘i’iwi (Drepanis coccinea), oggi specie protetta. In altre isole, lo racconta James Cook, le piume rosse (più pregiate) e quelle gialle le fornivano i pappagalli o gli amokura (Phaetum rubricauda), uccelli con coda e lunghi filamenti rossi. Queste piume, usate per maschere, caschi cerimoniali e mantelli (‘ahu’ula), venivano intrecciate con fibre di olona. Valevano perfino come moneta, erano attributo divino, segno di prestigio e ornamento per i più alti ranghi di una società spiccatamente gerarchizzata. 

Mantelli e caschi piumati erano la tenuta spettacolare indossata dai capi durante le cerimonie e quando si prospettavano assalti di tribù rivali. Per i grandi mantelli venivano usate anche le penne dei galli. Il rivestimento interno era intrecciato con fibre vegetali dai sacerdoti, mentre recitavano una litania continua. Fare arte era un rito, un atto sacro quanto l’oggetto che si stava realizzando. Appoggiato sulle spalle (‘ahu’ula significa coprispalle), il mantello svelava sul dorso e lungo le braccia simboliche simmetrie di motivi geometrici, attributi del proprietario. 

Si comprende allora perché, ai tempi dei primi incontri con gli europei alla fine del XVIII secolo, gli oggetti di scambio più agognati dai nativi, più dei chiodi e dei metalli di cui erano sprovvisti, furono le piume rosse degli uccelli. I polinesiani erano capaci di barattarle con oggetti e cibo di valore immensamente superiore. Questa però era la valutazione di James Cook, non il punto di vista dei tahitiani. 

Nel corso dei suoi tre viaggi nel Pacifico (1768-1779) l’esploratore inglese, con al seguito scienziati come il naturalista Joseph Bank e il tedesco Georg Forster (autore di un resoconto del secondo viaggio di Cook, interessante quanto quello del suo capitano), s’intrattennero in lunghe conversazioni con gli indigeni, fecero molte domande per cercare di capire i loro costumi, e vollero assistere perfino, seppure con raccapriccio, a sacrifici umani rituali.


Sacrificio umano in un marae (recinto sacro) di Tahiti (che si svolse alla presenza del capitano Cook e dei suoi ufficiali), in Le Costume ancien et moderne di Giulio Ferrario, Parigi 1827, da un’incisione di John Webber (fine del XVIII secolo).

Ki’i, scultura templare, raffigurante Ku, dio della guerra (1790-1810); Londra, British Museum.


Akua hulu manu, dio piumato (fine del XVIII secolo), dalle isole Hawaii; Londra, British Museum.


Ahu ula (coprispalle di piume) (inizi del XIX secolo); Cambridge, Museum of Archaeology and Anthropology, University of Cambridge. Appartenuto a Liholoho, Kamehameha II, re delle isole Hawaii.

Furono accolti spesso con danze, canti, musiche ritmate, incontri di lotta e pugilato che nulla avevano da invidiare per coreografia, costumi, talento, ai migliori spettacoli londinesi del tempo. 

Nella piccolissima isola di Lifuka, nell’arcipelago di Ha’apai (Tonga), siamo andati sulle tracce di uno di questi eventi, avvenuto nel maggio 1777 (terzo viaggio di Cook). Qui, i pochi abitanti si concentrano nel villaggio di Pangai. Prima che il ciclone Ian nel 2017 ne spazzasse via l’intera vegetazione, potemmo fotografare il luogo descritto da Cook e illustrato da un acquerello di John Webber, artista al suo seguito. La realtà superava la fantasia del disegnatore, come già notò Foster commentando il disegno. Webber ritrasse i tongani come antichi romani paludati e occidentalizzò il paesaggio, tranne alcuni alberi giganteschi, dei quali oggi restano solo le fotografie prima del ciclone (qui tutti sapevano che erano centenari). 

Questo per far capire, come ribadiscono Thomas e Brunt alla più importante mostra di questi anni sull’arte oceanica (Londra, Royal Academy, 29 settembre-10 dicembre 2018; Parigi, Musée du Quai Branly, 1° febbraio- 1° maggio 2019), che non c’è niente di “naturale” nel contesto ambientale di queste popolazioni, perlomeno non nel senso che si interpretò in Europa, dopo i primi viaggi nel Pacifico. Se Louis de Bougainville, lo “scopritore” di Tahiti, nel 1768 aveva definito quell’isola «la Nouvelle Cythère», ispirato all’idea elegiaca di una natura benevola e al mito illuminista del beau sauvage, in realtà, come dichiara Thomas, «tutto in questi ambienti è stato ottenuto con grandi sforzi umani». 

Un’esperienza efficace, per comprendere i più aggiornati orientamenti di etnologi e storici dell’arte, è visitare i luoghi dai quali provengono le opere portate in Europa dal capitano Cook e poi da altri naviganti, mercanti, missionari. 

Consideriamo, fra le tante, la paradisiaca isola di Aitutaki (duemila persone per diciotto chilometri quadrati), nell’arcipelago delle Cook, con il mare più cristallino che si possa immaginare. Sulla costa, seminascosti dalle piantagioni, i pochi resti di un marae, il recinto sacro delle religioni polinesiane. In una grande spianata, la chiesa cattolica, costruita nel XIX secolo, è ancora l’edificio più grande dell’isola.


John Webber, Spettacoli a Lifuka (arcipelago di Ha’apai, regno di Tonga) all’arrivo del capitano Cook (1777); Londra, British Library.

Chiesa cristiana di Arutanga; Aitutaki (isole Cook).


Motu Papau; laguna di Aitutaki (isole Cook).

Tutte le sculture realizzate nella minuscola Aitutaki fra XVIII e XIX secolo sono però nei musei europei: mazze scolpite, sculture antropomorfe per canoe, bastoni con figurine intagliate “a pettine”, come vertebre di un corpo umano, piccoli idoli. 

Molti oggetti di grande finezza, tutti con caratteristiche ben definite a seconda del luogo di esecuzione, provengono da altre piccole isole, come Rarotonga nelle Cook (la cui strada costiera si percorre in auto in poco più di un’ora); o come, più a sudest, la selvaggia Rurutu nelle Australi (duemila nativi), oltre cinquecento miglia a sudovest di Tahiti, visitata soprattutto per l’impressionante spettacolo della migrazione delle balene(1)

O ancora come Mangareva nelle Gambier, più di mille miglia a sudest di Tahiti, dove, oltre a importanti idoli scolpiti (raffiguranti le divinità primigenie) pare sia stato inventato, tre secoli prima che in Europa, un sistema di numerazione binario. 

Sarebbe come se dall’isola del Giglio o da Stromboli provenissero sculture e altri oggetti d’arte eseguiti in tempi antichi, ciascuno con particolari connotati, e come se i pescatori di quelle stesse isole avessero escogitato un complesso sistema di calcolo matematico prima ancora dei filosofi di Madrid o dei matematici di Lipsia. Pare improbabile anche se non impossibile. Diversi punti di vista, certo.


Mangareva dall’alto (isole Gambier).


Statuetta antropomorfa (fine del XVIII secolo), da Aitutaki (isole Cook); Glasgow, Kelvingrove Art Gallery and Museum.

Il dio Rongo (prima del 1832), da Mangareva (isole Gambier); Cahors, Musée Henri-Martin.


Figura divina nota come A’a, (prima del 1821, forse fine XVI-XVII secolo), da Rurutu (isole Australi); Londra, British Museum.

(1) G. Fossi, L’idolo e il pappagallo, in “Art e Dossier”, n. 359, novembre 2018, pp. 80-81.

ARTE DELL'OCEANIA
ARTE DELL'OCEANIA
Gloria Fossi
Le culture dell’oceano Pacifico si sono sviluppate per millenni in assoluta autonomia rispetto al resto del mondo. Fino a quando, alla fine del XVIII secolo, i viaggi di Cook non hanno rotto quell’incantesimo e aperto la strada alla colonizzazione occidentale. Una galassia di isole che va dalle Hawaii all’isola di Pasqua – con i suoi grandi moai monolitici –, alla Polinesia e alla Nuova Zelanda. Una cultura affascinante che rivela tratti comuni nonostante le distanze apparentemente incolmabili tra isola e isola. Un popolo che elabora in autonomia una produzione artistica dai caratteri originali, nell’uso dei materiali (legno, stoffa, pietra), nella destinazione d’uso, prevalentemente magico-rituale, nel simbolismo di base dei soggetti.