COMMITTENZE REALIE NON SOLO

Il re Francesco I aveva molto apprezzato le opere di Andrea che gli erano state inviate da intermediari e lo invitò a recarsi in Francia.

Il pittore si mise in viaggio insieme ad «Andrea Sguazzella suo creato» e giunto a corte, nel giugno del 1518, gli vennero riservate grandi attenzioni. Tra le opere eseguite è La Carità, firmata e datata sul cartiglio in basso a sinistra: «ANDREAS. SARTUS. FLORENTINUS. ME PINXIT MDXVIII». 

La Virtù siede allattando un bambino, ne tiene uno presso di sé, mentre il terzo è addormentato in primo piano disteso sul manto; il centro del dipinto è segnato da un melograno e sulla destra arde una lampada, tutti consueti attributi della Carità. La complessa iconografia è espressione del raffinato e colto ambiente di corte e cela un’allegoria della famiglia reale: sebbene il volto della Virtù non sia quello della regina Claudia, il dipinto sembra celebrare la nascita del Delfino Francesco, primo maschio dopo due femmine, nato il 28 febbraio del 1518. Quella che, a motivo dell’acconciatura sembra una bambina, e potrebbe essere la secondogenita Charlotte, stringe un rametto di nocciole, simbolo di prosperità e fecondità, ancora rivestite dell’infiorescenza verde che ne copre il guscio. In primo piano è addormentato tranquillamente il terzo piccolo, interpretato come la Francia che riposa nella pace.


La Carità (1518); Parigi, Musée du Louvre.


San Giovanni Battista (1521-1523); Firenze, palazzo Pitti, Galleria palatina.

Andrea si è ispirato per la composizione piramidale alla Sant’Anna di Leonardo, prediletta dal sovrano, ma ha certamente guardato anche alle due ammiratissime opere di Raffaello, la Sacra famiglia e il Gran san Michele, che erano giunte a corte in quel giugno 1518. 

Il re apprezzava particolarmente «la prestezza dell’operare di Andrea et un certo modo di bassezza che si contentava d’ogni cosa che gli fussi data», ma - lo narra Vasari - mentre era impegnato a dipingere un San Girolamo per la regina madre, il pittore ricevette lettere dalla moglie Lucrezia «rimasa in Fiorenza sconsolata per la partita sua», in cui lo spaventò facendo intendere che, se avesse ancora tardato a tornare, forse non l’avrebbe trovata viva. Preoccupato, innamorato, Andrea chiese al re di potersi allontanare da corte, promettendo non solo di tornare presto, ma anche di portare con sé, oltre alla moglie, opere di pittura e scultura. Per acquistarle ricevette da Francesco dei denari e prima di partire Andrea, entro il settembre del 1519, «giurò sopra il Vangelo di ritornare a lui fra pochi mesi». Tuttavia, giunto a Firenze e ripresa la vita consueta, spese la somma e non fece ritorno in Francia, con grande sdegno del sovrano, che si era fidato di lui.


Compianto su Cristo morto (Pietà di Luco) (1523-1524); Firenze, palazzo Pitti, Galleria palatina.

Probabilmente una parte dei soldi fu assorbita dall’acquisto, il 15 ottobre 1520, del terreno destinato alla casa e alla bottega da costruirsi all’angolo tra via del Mandorlo (oggi via Giusti), e via San Sebastiano (l’attuale via Gino Capponi). In quell’edificio, corredato anche di orto, Andrea passò gli ultimi anni della vita, in una zona abitata, allora e anche in seguito, da numerosi artisti: la sua stessa abitazione fu poi rinnovata da Federico Zuccari. 

Al ritorno dalla Francia, oltre a riprendere il lavoro al chiostro dello Scalzo che durante la sua assenza era stato portato avanti dal Franciabigio, affrescò il ricordato Tributo a Cesare nella villa di Poggio a Caiano. Analoga grandiosità di forme, simili ampie panneggiature, affine richiamo all’antico persistono nel San Giovanni Battista di Andrea della Galleria palatina, fulcro del “fornimento” per l’anticamera di Giovanni Maria Benintendi, emergente banchiere legato ai Medici. Il coordinamento degli artisti fu affidato intorno al 1523 a Baccio d’Agnolo, che assegnò i pannelli - legati da un complesso tema iconologico sul tema del battesimo - al Pontormo, al Bachiacca e al Franciabigio. 

Il possente torso nudo guarda a modelli classici come il Doriforo di Policleto a cui sembra ispirato il portamento della testa, la posizione delle braccia anche se un cartiglio, una semplice ciotola, una pelle malamente annodata, la croce di canne scheggiate, introducono elementi desunti dalla realtà quotidiana, riproposti con sensibile adesione al dato naturale. 

L’imponenza delle forme caratterizza anche il Compianto su Cristo morto, noto come Pietà di Luco dalla località per cui il dipinto fu eseguito. Diffusasi infatti nel 1523 una terribile epidemia pestilenziale, lentamente Firenze si svuotò e anche gli artisti cercarono riparo nel contado per evitare il contagio: Andrea del Sarto, invitato dall’amico Antonio Brancacci, raggiunse con moglie, figliastra, cognata e il garzone Raffaello, Luco in Mugello dove, per il monastero camaldolese di San Pietro retto dalla badessa Caterina della Casa, fra il 1523 e il 1524 dipinse la tavola. L’opera precede di quarant’anni la fine del Concilio di Trento, ma in essa sono già presenti gli elementi di chiarezza dottrinale, decoro e dignità delle figure, coinvolgimento emotivo dei fedeli, dimostrazione degli affetti, che saranno richiesti espressamente dall’arte della Controriforma. Nella pala viene sottolineato infatti quanto messo in discussione da Lutero: reale presenza di Cristo nell’ostia consacrata, centralità della figura della Madonna, ruolo della Chiesa, importanza dei santi. Al centro Cristo è sostenuto da Giovanni sulla pietra dell’unzione, rivestita non dal sudario, ma da una vera e propria tovaglia dell’Ultima cena, candida e con le pieghe stirate. Il mistero eucaristico è espresso in modo limpido dal calice con la patena, sovrastato da una particola che reca - bianco su bianco - l’immagine della Crocifissione. A tutti i fedeli doveva essere evidente, anche in una zona rurale appartata come il Mugello, la reale presenza di Cristo nell’eucarestia. 

La Madonna rappresenta il punto focale della composizione, Pietro e Paolo alludono alla Chiesa, mentre la Maddalena e Caterina d’Alessandria confermano il culto dovuto ai santi. Tutto con evidenza immediata, linearità compositiva, limpido disegno. 

I volti femminili, come attestano i disegni preparatori, sono dei ritratti, forse della cognata o della figliastra Maria del Berrettaio. Viene dunque confermata la pratica secondo cui Andrea elaborava la composizione nelle sue linee generali e lavorava in seguito su modelli reali, ritraendo aiutanti di bottega o, per le figure femminili, mettendo in posa le amate donne della famiglia. 

Un particolare, quello dell’ostia irrealisticamente elevata sulla patena, che Andrea aveva già utilizzato nella Fede del chiostro dello Scalzo, figura di ieratica gravità che si ispira a modelli antichi.


Compianto su Cristo morto (Pietà di Luco) (1523-1524); particolare; Firenze, palazzo Pitti, Galleria palatina.


Studio per la testa della Maddalena nella Pietà di Luco (1523-1524); Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei disegni e delle stampe.

La figura delle Fede sorregge un calice chiuso da una patena, su cui è elevata un’ostia, analogamente a quella presente nella Pietà di Luco. Fede (1521-1523 circa); Firenze, chiostro dello Scalzo.


Decollazione del Battista (1523); Firenze, chiostro dello Scalzo. Se la composizione guarda alla stessa scena realizzata da Verrocchio per l’altare del battistero fiorentino, e sono presenti derivazioni dalle incisioni di Cranach e di Luca di Leida, Andrea mostra anche reminiscenze della volta della Cappella sistina e delle Stanze vaticane.

Tornato dal Mugello, Andrea operò ancora alla Santissima Annunziata: il servita frate Jacopo aveva imposto a una donna, per scioglierla da un voto fatto alla venerata immagine dell’Annunciazione, di pagare per l’esecuzione di una Madonna sopra la porta posta tra il chiostro e la chiesa. Il frate offrì il lavoro ad Andrea che, nonostante l’esigua somma prevista come compenso, accettò volentieri. 

L’affresco, la cui conservazione risente dell’esposizione all’aperto, mostra la Madonna seduta in terra con Gesù sulle ginocchia mentre Giuseppe è appoggiato di profilo a un grande sacco (da cui l’opera ha tratto il nome) e indica con la destra un libro tenuto aperto con la sinistra. La visione monumentale di sottinsù, in ardito scorcio, introduce in un’aulica architettura - con la data 1525 in uno dei basamenti laterali - dai cui limiti fuoriescono le pieghe della veste di Maria e l’ombra di un piccolo libro, che aggetta oltre la cornice, quasi raffinato trompe l’oeil. 

Opera che «da se stessa, senza che altri la lodi, si fa conoscere per stupenda e rarissima » secondo Vasari, con reminiscenze del Tondo Doni di Michelangelo e della stanza della Segnatura di Raffaello, in un coerente equilibrio tra affabile naturalismo e salda e grandiosa impaginazione.


Madonna del sacco (1525); Firenze, Santissima Annunziata, chiostro dei Morti (o grande).

Ultima cena (1526), particolari del sottarco; Firenze, Museo del cenacolo di Andrea del Sarto. Trinità.


Ultima cena (1526), particolari del sottarco; Firenze, Museo del cenacolo di Andrea del Sarto. San Salvi e San Giovanni Gualberto.

Andrea operò per un unico ordine monastico, quello vallombrosano, per il cui monastero di San Salvi nel 1511 fu chiamato dal monaco e benefattore Ilario Panichi ad affrescare l’Ultima cena nel refettorio. 

In quell’anno Andrea eseguì in diciotto giornate solo il sottarco con la Trinità e i santi Benedetto, Giovanni Gualberto, Salvi e Bernardo degli Uberti, con l’intervento di Andrea Feltrini per le grottesche. I lavori ripresero dopo una lunga interruzione e nel 1526 il Sarto iniziò la scena centrale, per la quale aveva elaborato almeno quindici disegni: un intervento per il quale occorsero quarantasei giornate. La grandiosa impostazione, che vuole essere una risposta alla Cena di Leonardo, ma anche a Raffaello, vede la lunga tavola inserita in un’aulica architettura a cui dall’alto si affacciano due servitori colti al tramonto mentre sono in procinto di servire la cena. Il piano del tavolo è spoglio, pochi piatti, nessun bicchiere, manca persino il vino: i gesti seppur pacati, sono eloquenti, con Cristo che accusa Giuda alla sua destra offrendogli un boccone di pane, ma rassicura Giovanni afferrandogli la mano. Variate le posture e le reazioni degli apostoli, grandi al naturale.


Studio per gli apostoli dell’Ultima cena (1526); Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei disegni e delle stampe.

studio per un apostolo dell’Ultima cena (1526); Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei disegni e delle stampe.


Ultima cena (1526); Firenze, Museo del cenacolo di Andrea del Sarto.

Nel 1528, ancora per un ambiente vallombrosano, la chiesa del romitorio delle Celle di Vallombrosa (nei pressi di Firenze) richiesto dall’allora generale dell’ordine Giovanni Maria Canigiani, dipinse I santi Michele, Giovanni Gualberto, Giovanni Battista, Bernardo degli Uberti, storie della loro vita e due angeli (Pala vallombrosana). Le tavole, oggi agli Uffizi, dovevano incorniciare una tavoletta oggetto di particolare venerazione ed essere racchiuse da una monumentale cornice, forse di Baccio d’Agnolo. 

Andrea fu legato a quattro confraternite: fu membro e operò per lo Scalzo, lavorò per San Jacopo detta del Nicchio e per Santa Maria della Neve, e alla fine della vita si iscrisse anche a quella di San Sebastiano. Per il gruppo laicale di fanciulli dedicato a San Jacopo e detto “del Nicchio” (la conchiglia simbolo del santo), Andrea eseguì lo stendardo processionale che raffigura San Jacopo e due fanciulli membri della compagnia del Nicchio oggi agli Uffizi. La confraternita si adunava all’epoca vicinissima alla casa del Sarto (non sotto l’Arcone dello spedale degli Innocenti, dove si trasferirono solo nel 1595), poiché dal 1525- 1526, in seguito ai lavori di rinnovamento architettonico, il gruppo utilizzò la sede della «compagnia de’ tessitori de’ panni lini intitulata in Santo Salvadore che si ragunano al dirimpetto all’orto de’ frati di Santa Maria de’ Servi». Ancora un legame con i tessitori, dunque, e ancora una stretta contiguità con la casa del pittore. 

Lo stendardo, datato generalmente al 1528-1529, mostra il santo che accarezza teneramente uno dei due bambini inginocchiati ai suoi piedi, mentre l’altro fanciullo regge un grande libro. Ha sollevato sul capo la buffa, cioè il cappuccio della veste, mentre quella dell’altro pende sulla schiena. Consapevoli dell’importanza del dipinto, a inizio Seicento i confratelli fecero eseguire una copia da portare in processione, per non sottoporre ulteriormente la preziosa tela alle intemperie e a possibili danneggiamenti.


I santi Michele, Giovanni Gualberto, Giovanni Battista, Bernardo degli Uberti, storie della loro vita e due angeli (Pala vallombrosana) (1528); Firenze, Gallerie degli Uffizi.

San Jacopo e due fanciulli membri della compagnia del Nicchio (1528-1529); Firenze, Gallerie degli Uffizi. La tela era lo stendardo portato in processione dalla compagnia di fanciulli di San Jacopo del Nicchio. Due bambini membri della confraternita ne indossano la veste bianca.

La capacità di disegnare dal naturale di Andrea è attestata dalla sua capacità di ritrattista: non solo volti di familiari chiamati a evocare figure sacre, ma anche dipinti autonomi, il più noto dei quali è forse il Ritratto di donna con un "petrarchino" degli Uffizi, databile intorno al 1528. Resta controversa l’identità della fanciulla, forse Maria del Berrettaio, oppure una giovane il cui ritratto era stato commissionato dall’innamorato. Certamente la figliastra di Andrea avrebbe potuto possedere e leggere il Canzoniere di Petrarca, anche perché il pittore era colto e in contatto con personaggi del mondo letterario. Uno dei due sonetti marcati dal dito tratta di un innamorato trepidante, l’altro esalta la bellezza della donna amata, soprattutto dei suoi occhi. Il termine “petrarchino”, coniato da Pietro Bembo e usato per la prima volta nel 1507, indica un’edizione a stampa tascabile del Canzoniere, ma in questo caso il testo è manoscritto, sebbene, come accertato da Giuseppe Patota, corrisponda quasi perfettamente all’edizione a stampa pubblicata a Firenze nel 1522 dagli eredi di Filippo di Giunta, da cui differisce però per il formato allungato. 

Ricercato l’abbigliamento della giovane, la sua acconciatura, vivace l’espressione, la posa, studiatissimi il bianco su bianco della camicia, l’abito color genziana con la manica marezzata del ritratto, che presenta assonanze con i grandi esempi della pittura veneziana, da Lotto a Palma il Giovane. 

Andrea ritrasse anche carissimi amici come “Becuccio Bicchieraio” soprannome del benestante vetraio Domenico di Jacopo di Matteo da Gambassi, nel dipinto oggi a Edimburgo alla National Gallery of Scotland, che è stato lungamente ritenuto un autoritratto del pittore stesso per la vicinanza dei tratti. Il pittore enfatizza con giochi di luci e ombre la caraffa e la ciotola certamente prodotti dalla sua vetreria, ma anche la frutta appoggiata sul tavolo posto davanti all’uomo corpulento raffigurato di tre quarti. Vasari cita un doppio ritratto di Becuccio e della moglie, nella predella della pala che l’amico gli commissionò, identificato da Alessandro Conti in quello dell’Art Institute di Chicago.


Ritratto di “Becuccio Bicchieraio”, dalla predella della Pala di Gambassi (1526-1527); Chicago, Art Institute.


Ritratto della moglie di “Becuccio Bicchieraio”, dalla predella della Pala di Gambassi (1526-1527); Chicago, Art Institute.


Ritratto di donna con un “petrarchino” (1528 circa); Firenze, Gallerie degli Uffizi.


Ritratto di “Becuccio Bicchieraio” (1526-1527); Edimburgo, National Galleries of Scotland.

La Madonna col Bambino e i santi Onofrio, Lorenzo, Giovanni Battista, Maddalena, Rocco e Sebastiano (Pala di Gambassi) della Galleria palatina fu commissionata da Becuccio nel 1524, probabile ringraziamento per essere scampato all’epidemia pestilenziale, come farebbe pensare la presenza dei santi Rocco e Sebastiano. All’attività di Becuccio allude Lorenzo, patrono dei vetrai, ma anche titolare, nel paese del committente, della chiesa del convento dei Santi Lorenzo e Onofrio già delle monache benedettine dette “le romite”. Nella pala, da datare entro il 1527 quando Becuccio morì probabilmente di peste, Andrea utilizza uno schema di cui si era già avvalso nella Disputa della Trinità per la posizione dei santi inginocchiati, o nella Madonna della scala, ma la composizione piramidale è altresì inserita in una struttura circolare. 

Come notato anche da Vasari, e accertato da Alessandro Cecchi nelle sue ricerche archivistiche, nella vita di Andrea a committenti di origini modeste, spesso suoi affezionati amici, si affiancarono appartenenti ai ceti più elevati, come il banchiere Lorenzo di Bernardo Jacopi, che gli affidò la Madonna col Bambino tra san Matteo e un angelo, nota come Madonna della scala, oggi a Madrid al museo del Prado. Matteo, patrono della fiorentina Arte del cambio, è rappresentato insieme all’angelo, suo attributo iconografico abituale, mentre in lontananza santa Elisabetta e il piccolo Giovanni Battista si allontanano per sfuggire alla “strage degli innocenti”. Andrea, che utilizza la sperimentata composizione piramidale, è memore della Madonna di Foligno di Raffaello nel gesto di Maria e cita le pose dei michelangioleschi Ignudi della Sistina.


Madonna col Bambino tra san Matteo e un angelo (Madonna della scala) (1522); Madrid, Museo Nacional del Prado.


Madonna col Bambino e i santi Onofrio, Lorenzo, Giovanni Battista, Maddalena, Rocco e Sebastiano (Pala di Gambassi) (1526-1527); Firenze, palazzo Pitti, Galleria palatina.

Un’ulteriore committenza di prestigio fu affidata al pittore, attraverso Baccio d’Agnolo, da Bartolomeo Panciatichi, commerciante toscano di stanza a Lione. Risaliva al 1517 la sua richiesta di un’Assunzione della Vergine e santi (Assunta Panciatichi) per la cappella della chiesa di Notre Dame du Confort. Ma a causa della non corretta stagionatura del legno la tavola richiese reiterati interventi e la grande pala - iniziata nel 1522-1525 - rimase incompiuta alla morte di Andrea, non giungendo mai a destinazione a Lione. Fu poi venduta dalla vedova del pittore a Bartolomeo Panciatichi il Giovane, che la cedette ai Salviati ma, confiscata dal duca Cosimo I, entrò poi a far parte delle collezioni medicee. 
Il cartone per l’Assunta Panciatichi è stato riutilizzato per l’Assunta Passerini, famiglia di rilievo a Firenze, che affidò ad Andrea anche parte dei cartoni per i ricami di un sontuoso parato. Il cardinale Silvio Passerini fu amicissimo di Giovanni de’ Medici, poi papa Leone X, che lo nominò cardinale nel 1517 e vescovo di Cortona nel 1521.

Assunzione della Vergine e santi (Assunta Panciatichi) (iniziata nel 1522-1525); Firenze, palazzo Pitti, Galleria palatina.


Assunzione della Vergine (Assunta Passerini) (1526-1528); Firenze, palazzo Pitti, Galleria palatina.

Il ritratto originale era stato richiesto dal duca di Mantova a Clemente VII ma Ottaviano de’ Medici, desiderando che il dipinto originale restasse a Firenze, ne fece fare segretamente una copia da Andrea, senza che i destinatari del dono si rendessero conto della contraffazione. Ritratto di papa Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de Rossi (1525), copia da Raffaello; Napoli, Museo nazionale di Capodimonte.


Il Sacrificio, di cui esistono altre due versioni, fu commissionato ad Andrea da Giovan Battista della Palla per Francesco I ma non giunse mai nelle mani del sovrano francese perché confiscato da Alfonso d’Avalos. Sacrificio di Isacco (1527-1529); Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister.

ANDREA DEL SARTO
ANDREA DEL SARTO
Ludovica Sebregondi
Un dossier dedicato ad Andrea del Sarto (Firenze, 1486 - 1530). In sommario: Pittore senza errori in un'età tumultuosa; Primi committenti: confraternite e ordini religiosi; Mondo profano; Committenze reali e non solo; L'assedio di Firenze e l'epilogo. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.