E va sottolineato come proprio Breton nel 1953 voleva precisare la differenza tra la “scrittura automatica” del surrealismo, secondo lui «automatismo psichico puro», e il “monologo interiore” di James Joyce. Breton considerava Joyce ricadente «nell’illusione romanzesca» come uno scrittore che «finisce per prendere posto nella lunga progenie dei naturalisti e degli espressionisti». E Breton, richiamandosi anche al Primo manifesto e sottolineando il significato della rivoluzione surrealista sul piano del linguaggio, riaffermava di voler «squarciare il tamburo della ragione raziocinante e contemplarne il buco»(9). Queste idee, e soprattutto i loro riflessi nell’arte, forse avranno sortito effetto sul giovane Lucian più della psicoanalisi di nonno Sigmund.
Ora, pur che la folata surrealista sia stata, in quegli anni della guerra, di breve durata, va detto che certi effetti, come la “messa in scena” del dipinto simile alla sospensione temporale dei sogni, si manterrà anche nelle opere della successiva svolta realista del pittore, come si vede in Interno a Paddington, 1951, e in Camera d’albergo, 1954. In Camera d’albergo, forse un autoritratto del pittore con la seconda moglie Caroline Blackwood sposata l’anno prima, lo spazio fisico non è reale; la costruzione prospettica risulta alterata e la disposizione delle figure corrisponde a un ordine che ricorda più la struttura di un racconto che non una ripresa fotografica.
Il primo piano è costituito dal guanciale e dal ritratto della donna bionda, giacente sul letto e fortemente illuminata dalla luce; in secondo piano si trova l’autoritratto pensoso del pittore, a figura quasi intera e controluce, tutto in toni scuri, che si staglia contro la finestra ampia, aperta su di uno sfondo che è la facciata dirimpetto della strada, un palazzo con finestre aperte e chiuse. La finestra corrispondente al guanciale in primo piano mostra una stanza con un tavolo, un vaso, una lampada spenta e una porta. Nulla nel dipinto appare reale; la disposizione prospettica, si è detto, è alterata e impossibile, poiché qualora fossero rispettate le grandezze la testa in primo piano risulterebbe troppo grande rispetto al resto. Lo spazio che intercorre tra questa e la figura del pittore è inesistente, puramente virtuale, altrimenti quest’ultima dovrebbe risultare più piccola.
Anche le dimensioni della finestra sono impossibili, è come se la parete fosse stata segata e il vano si aprisse sul vuoto e, ancora, la facciata di palazzo che fa da sfondo è troppo ravvicinata. La concezione dello spazio fisico ricorda, qui, quella del Cristo morto del Mantegna, conservato a Brera: uno spazio, quello del Mantegna, prospetticamente irreale, poiché se l’osservatore fosse collocato, come dovrebbe, ai piedi del Cristo, vedrebbe la testa più piccola e le linee di fuga del corpo correre verso di essa in modo più accentuato. Mantegna invece, cinque secoli prima dell’invenzione dello zoom, in un certo modo ha proiettato sul piano del quadro l’immagine del Cristo, ravvicinandola.
Qualcosa di simile fa Freud in Camera d'albergo.
Anche la luce è puramente inventata: se venisse dalla sorgente che illumina il volto della ragazza che è in pieno chiarore, la fonte coinciderebbe con la nostra posizione di osservatori e quindi ne dovrebbe risultare investita anche la figura del pittore, che invece appare completamente in ombra, anzi controluce, come se la sorgente fosse fuori dalla finestra e venisse dal fondo, dalla strada. È dalla lettura dell’insieme che risulta una luce irreale. Si può dire dunque che la costruzione del dipinto dipende da una visione meramente psicologica e non dai dati fisici reali dello spazio che vi è raffigurato. La procedura compositiva può essere paragonata a quella di un racconto; i diversi elementi che costituiscono l’immagine, ovvero la testa della donna, la figura dell’uomo, il letto, la finestra e il palazzo di sfondo, sono stati giustapposti come avviene nella composizione di una pagina di prosa, attraverso un metodo associativo in cui il motore organizzatore pare la memoria.