DENTRO LE STANZE
SEGRETE

Dopo questa situazione intermedia, tra il dentro e il fuori, è giusto che venga una fase di scelta univoca, che cioè l’inquilino maestoso, statuario, raccolto in sé si dia a pratiche quali si addicono a esercizi compiuti nelle segrete stanze.

Tipico in questo senso il Giovane uomo al piano, una scena che dovrebbe intonarsi alla leggerezza, alla frivolezza o al piacere dei suoni, delle armonie, solo che il pianoforte ci appare come una macchina perfino paurosa, come un ordigno infernale, o come uno dei meccanismi laboriosi imposti dalla vita moderna e dalla “città che sale”. In definitiva il buon borghese assiso a compiere i suoi esercizi non ci appare molto lontano dai muscolosi operai che qualche tempo prima gli avevano reso confortevole la stanza collocandovi un parquet, anch’esso pronto a emettere lucidi barbagli. Ma in una simile direzione c’è ben di peggio, o di meglio, secondo i parametri che vogliamo adottare. È il Pranzo del 1876, che come la seduta al pianoforte corrisponderebbe a uno dei riti più deliziosi e confortevoli della società borghese. Approfittiamo dell’occasione per dare un’occhiata in direzione di qualche collega e comprimario. Proprio il tema di una tavola coperta di raffinati servizi e posate e di allettanti cibi è stato un cavallo di battaglia del nostro Giuseppe de Nittis, con cui Caillebotte ebbe buoni rapporti. E pure Renoir ne seppe trarre validi episodi. Quando invece lo affronta Gustave, il suo primo atto è di inondare la scena di un nero luttuoso, di un fiume di inchiostro di china, quasi nell’intento di impedirci di ricavare un piacere superficiale da un simile soggetto votato a una certa fatuità. Quel nero corvino si impadronisce pure dei partecipanti alla colazione, facendone quasi delle appendici della mensa luttuosa, come apprestata per un funerale. Ma quello sfondo cupo ha pure uno scopo di grande finezza, serve infatti a far emergere, da quell’invasione di nero di seppia, una fragile famiglia di prezioso vasellame.

Il pranzo (1876).


Ritratto del libraio E. J. Fontaine (1885); Londra, National Gallery.

I piatti, le fruttiere, i recipienti emettono lampi, riflessi, “lumetti”, proprio in virtù del mare di oscurità da cui emergono con trepidi scintillii. Naturalmente il chiuso degli interni, delle segrete stanze, è propizio a dare sviluppo al tema dei ritratti. Inutile segnalare ancora una volta il solito divorzio dalle soluzioni care a Monet, che fu del tutto allergico a un simile esercizio, e lo stesso si dica del suo seguace principale, Alfred Sisley, mentre si è già notato come Renoir riuscisse a conciliare felicemente una produzione ritrattistica con un ampio abbraccio di dati naturali-atmosferici. Caillebotte, per questa sua vocazione al ritratto, conferma di appartenere alla serie dei Degas e dei Manet, cui dobbiamo subito aggiungere i nostri Fattori, Lega, Banti, Borrani, magari anche Boldini, quando riesce a essere fermo, a immobilizzare il soggetto in posa, evitando di travolgerlo in un’onda impetuosa di stoccate. Abbastanza normale, fino quasi a confondersi con qualsivoglia altro ritratto di uno dei compagni di via o anticipatori sopra indicati, è quello dedicato alla cognata, alla moglie di Martial. Più audace quello dedicato a Jules Richemont, perché vi compare il solito effetto di controluce che annerisce il personaggio in posa, come in una foto troppo esposta. Ma soprattutto, conviene ripetere che l’attenzione di Caillebotte in ognuna di queste prestazioni si lascia incantare dai dettagli marginali, dagli elementi decorativi che costituiscono il nerbo di un ambiente borghese come si deve: divani a strisce, modanature dorate di porte e finestre, cornici di specchiere pronte a captare i pochi raggi di luce che escono dalla penombra emettendo scintille, fosforescenze.


Ritratto di Monsieur R. (1877).

Ritratto di Madame Martial Caillebotte (1877).


Ritratto di Jules Richemont (1879).

E ci si mettono pure le poltrone, con braccioli e pomelli pronti anch’essi a emanare le loro sottili luminescenze. A ben vedere, in tutta questa produzione ritrattistica Caillebotte rende omaggio ai suoi “maggiori”, al grande duo Degas e Manet, forse con qualche perdita di originalità, divenendo un loro seguace alquanto pedissequo, addirittura gravato da una mano pesante. Induce a un giudizio del genere Al caffè, dei centrali anni Ottanta. Un po’ troppo atticciato, troppo fermo e statico l’avventore posto in primo piano, mentre altre presenze si allontanano sullo sfondo. Certo, Caillebotte è sempre lui, con tutte le prerogative che ormai ben conosciamo, quando affronta una Partita di bazzica, con un gruppo di quattro giocatori quasi scolpiti, colti a volo radente, chini sul tavolo, anch’esso accuratamente definito in tutti gli elementi occorrenti alla partita, e ci sono anche due presenze, di uno spettatore incombente e di un altro nelle retrovie adagiato su un divano. Il tema obbliga a impostare un raffronto con la famosa partita a carte che quasi negli stessi anni viene realizzata da Cézanne, dal che viene pure l’obbligo di accennare a una grande biforcazione, capace di inquietare e di rendere problematico tutto il presente discorso, il quale, come si è visto, non è certo parco di riconoscimenti ai meriti del nostro artista, questi però si pongono per intero nel solco del realismo ottocentesco, da dirsi “moderno”, in totale contrapposizione con un “contemporaneo” che stava avanzando, poderosamente portato dal pittore di Aix en Provence. Il “moderno” significa essenzialmente un’adesione alla realtà, a gara con la fotografia, in un clima di ossequio ai principi del positivismo, di una visione diligentemente speculare. Invece il “contemporaneo”, proprio a partire da Cézanne, nutre l’oscura consapevolezza che da quel momento in poi il mondo andrà percepito attraverso l’emissione di onde elettromagnetiche, da cui lo spettacolo risulterà reso flesso, incurvato, o in alternativa segmentato, scheggiato, aprendo così la strada al cubismo e ad altre avventure del Novecento ormai alle porte. Se non si vuole assegnare un primato alla visione plastica cézanniana, è pure in gestazione un’altra via al “contemporaneo”, cui sta attendendo proprio il coetaneo di Caillebotte, Paul Gauguin, in uscita pure lui dalle coordinate del realismo “moderno”, ottocentesco, procedendo a svuotare le immagini e a schiacciarle sulla superficie, affidandone la sussistenza a schemi astratti, tracciati a fior di pelle, e così aprendo la strada all’Art Nouveau, ma più in là ancora alla stagione a noi tanto vicina della Pop Art, o comunque a un’arte che si voglia fare leggera entrando a gara con la grafica pubblicitaria. Caillebotte chiude risolutamente la porta in direzione di simili possibilità, rimanendo aderente, come detto, a tutti i presupposti della grande stagione del realismo ottocentesco.


Giovane uomo al piano (1876); Tokyo, Bridgestone Museum of Art.

La partita di bazzica (1880 circa); Abu Dhabi, Louvre.

E dunque, così facendo, assieme a tutti i colleghi nati poco prima, si chiude in una sacca di inattualità, perde il treno verso un progresso che si annuncia e che si manifesterà appieno alla svolta del secolo, in cui del resto il nostro Gustave non potrà entrare per una morte che si abbatte su di lui quasi a decretare la fine del tempo che gli è proprio? In parte è proprio così, lo si deve ammettere, gli impressionisti di tutte le declinazioni non varcano il limite di quel secolo, non gli si aprono le praterie sconfinate del contemporaneo. Si noti che un referto del genere vale pure per il solito oppositore, nell’arte, che qui, forse in misura troppo polemica, mi ostino a muovergli contro, Monet. Molti ora pensano che proprio dissolvendo ogni nucleo troppo solido di figurazione e tuffandosi nelle Ninfee Monet abbia aggirato l’ostacolo andando verso esiti quasi di anticipo sull’Informale a venire. Siccome a metà del Novecento si parlerà pure di un impressionismo astratto da fare concorrenza al ben più poderoso espressionismo astratto, molti oggi sarebbero disposti a dare la palma della sopravvivenza all’autore che nei suoi ultimi anni si era fatto coltivatore instancabile delle visioni illimitate e senza confini delle Ninfee. Ma non è così, i vari Sam Francis o Helen Frankenthaler, considerati i più accreditati titolari di Abstract Impressionism, saranno ben più radicali nello sciogliere gli ormeggi da ogni residua presenza della natura, a darci un puro spettacolo ingrandito di macchie degne del vetrino biologico, più sulla scia di Kandinskij che del patriarca Monet. Ma se proprio si vuole, ci sarà un futuro anche per quel procedere meticoloso, con i piedi piantati per terra, proprio di Caillebotte. Si pensi a un membro particolare del sodalizio dei Nabis, allo svizzero Félix Vallotton, che non volle accettare di porsi al seguito di Gauguin, dandosi invece alla pratica di un realismo con raddoppiato furore, degno di venire marcato con un prefisso, di “iper”, del resto prontamente raccolto da una schiera di nordici, lo svedese Anders Zorn, il norvegese Christian Krohg, il danese Peder Sevrin Kroyer, cui si deve aggiungere, all’estremo opposto dell’Europa, il catalano Joaquìn Sorolla.


Uomo in bagno (1884); Boston, Museum of Fine Arts.

Da quel nucleo di duro, ispido realismo parafotografico discenderanno altri episodi lungo tutto il corso del Novecento, i tedeschi della Neue Sachlickeit, i nostri di Valori plastici e simili, e perfino di là dall’oceano ci saranno i precisionisti, da Charles Sheeler a Grant Wood a Edward Hopper.

Ma ritornando al nostro artista, e sempre seguendo il diligente percorso offertoci dal catalogo della mostra del centenario, perfetto nel coniugare il susseguirsi dei temi con lo sviluppo cronologico, si incontrano altri momenti non eccezionali, per esempio il nostro artista non è stato certo un valido cultore del nudo, lo si capisce bene. A lui, nell’affrontare il soggetto umano, interessava la buccia esteriore, gli abiti, i complementi di abbigliamento, in cui si dispiega la componente artificiale, di ossequio alle regole della convivenza civile, cui dobbiamo sottostare, ma ben felici di farlo, inalberando con orgoglio le redingote, i cappelli a cilindro, o le gonne, i cappellini alla moda, nel caso delle donne.




Nudo sul divano (1882); Minneapolis, Institute of Arts.

Un Nudo sul divano del 1882 obbliga il nostro Gustave ad affrontare questo tema, pur sentito come non particolarmente consono. La donna si stende al centro, si allunga come un verme su un divano, ma quello che conta è la coperta stesa sul mobile, percorsa da un banale motivo floreale, che però consente all’occhio dell’artista di accompagnarne la trama con la stessa meticolosità ottica dedicata in altre occasioni a cancellate, ringhiere di balconi e simili. Non eccezionale neppure un Uomo in bagno, dove si ripete il rito di ripercorrere i passi di un grande ispiratore come Degas, seppure volgendo il tema del bagnante al maschile, ma con la tentazione di renderne il corpo troppo massiccio, mentre la vasca, vista lateralmente, non riesce ad accendersi di quei mirabili barbagli che un altro dei seguaci di Gauguin, ma pronto a deviare dalla sua rotta, quale Emile Bonnard, saprà dare alle sue vasche da bagno. Forse Caillebotte si riscatta, ritrova una parte delle sue migliori virtù, quando si decide a fornirci un suo autoritratto, sorpreso in azione, a dominare il cavalletto brandendo un mazzo di pennelli come fossero dardi acuminati.

C’è il solito controluce di tutti questi interni, un’immensa colata di “nero di seppia”, che accompagna e scandisce anche il gesto dell’artista, intento ad allungare un braccio quasi nell’intento di afferrare un’ampia fetta di spazio, respingendo in secondo piano, costringendo a un formato pressoché lillipuziano, una presenza che si permette di turbare questo rito solenne e individuale. Abbiamo anche altri autoritratti dell’artista, man mano che egli si avvicina alla fine, nel 1888 e nel 1892, che in entrambi i casi risultano improntati a un’assoluta semplicità, se ne scorge solo il volto, con un minimo accenno all’incollatura delle spalle. Sorprende il senso di solitudine, di testardaggine che l’artista offre di sé, a significare una devozione totale al mestiere assunto.


Autoritratto al cavalletto (1878-1879 circa).

Autoritratto (1888).


Autoritratto (1892); Parigi, Musée d’Orsay.

CAILLEBOTTE
CAILLEBOTTE
Renato Barilli
Un dossier dedicato a Gustave Caillebotte (Parigi, 1848 - Gennevilliers, 1894). In sommario: Introduzione; Il tema del lavoro e le scene di interni; Anche lo sport nautico come un lavoro; Ritorno alla città: Parigi in strada, dalla finestra o dal balcone; Dentro le stanze segrete; Ritorno alla campagna, sempre tra natura e artificio; Le nature morte. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.