GLI ANNI DEL DECLINO,
L’INTERNAMENTO, LA MORTE

In una serie di lettere a Eugène Blot, Camille si lamenta della situazione finanziaria e manifesta la paura che le sue sculture vengano copiate, che la sua immagine (usata da Rodin per la scultura della Francia) sia stata diffusa in cartolina per iniziativa del maestro a sua insaputa, e che egli mandi suoi emissari per spiarla e copiare le sue idee.

Lo spettro di Rodin amato e odiato si fa sempre più strada nella mente ottenebrata di Camille; la mancata fusione in bronzo dell’Età matura è attribuita al boicottaggio del maestro ed è il motivo cruciale del continuo risentimento della scultrice.

Ciò nonostante, quando lo Stato le propone la commissione di una nuova statua a suo piacimento, Camille sceglie il tema della Niobide ferita che inconsciamente ricalca modelli rodiniani, quali la Meditazione modellata dallo scultore sull’idea della Dannata nella Porta dell’Inferno, come se per Camille fosse una resa al sentimento più forte del risentimento. Ma la sua è un’eroina ferita a morte e l’amore è il suo assassino. Le vicende della sua commessa, della sua fusione in bronzo e dei suoi rapporti con lo Stato committente denunciano ancora l’ossessione di un’intromissione di Rodin incomprensibile, e di un atteggiamento belligerante di Camille che denuncia la sua aggressività sempre più preoccupante. È significativa l’accettazione da parte dello Stato di un soggetto come la Niobide, una donna sola, sconfitta e morente, interessante per la sua sensualità, scolpita da una donna che si autopunisce per la sua intraprendenza.

Il suo anticonformismo, il suo isolamento rispetto alla buona società, e la sua sfida alle convenzioni borghesi sembravano confermati dall’abitudine che aveva Camille di invitare gente incontrata per strada per festeggiare qualche commessa con lo champagne, per poi ricadere nello stato di povertà e isolamento che emerge anche nell’intervista di Asselin. La mancanza di soldi e la fatica di vivere sola e braccata dai creditori esasperano la situazione: in una lettera alla moglie del cugino Henry Thierry per la sua morte, Camille confessa che per la rabbia di non avere più soldi per pagare l’affitto ha gettato nel fuoco tutti i bozzetti in cera e i busti che valevano almeno diecimila franchi e che ora il suo studio è una montagna di calcinacci, un autentico sacrificio umano! La sua mania di persecuzione l’ha spinta, per proteggersi da Rodin e dalla sua banda, a mettere catene di sicurezza, chiavistelli e trappole dietro tutte le porte.

Auguste Rodin, Meditazione (1896); Parigi, Musée Rodin.


Niobide ferita (1906), intero e, nella pagina a fianco, particolare; Poitiers, Musée Sainte-Croix.


Auguste Rodin, La Francia (o San Giorgio) (1902-1903); Washington, National Gallery of Art.

Nel 1909 Paul va a trovare la sorella e scrive: «A Parigi Camille pazza: la carta da parati staccata a lembi, una sola poltrona rotta e strappata, orribile sporcizia: lei sudicia, parla incessantemente con una voce monocorde e metallica». Lo stesso padre, ormai vecchio, in una lettera a Paul si mostra preoccupato per la salute della figlia, «una povera pazza», e il fratello in una lettera all’amico prete Daniel Fontaine lamenta che sarà obbligato a mettere la sorella in una casa di cura poiché, scrive, è affetta da una forma di follia, una vera possessione, così tanto grave da indurlo perfino a chiedere se sarebbe possibile fare esorcismi a distanza.
Pochi giorni dopo la morte del padre, il 10 marzo 1913, Paul, d’accordo con la madre Louise, pregherà il medico di famiglia Michaux di visitare Camille e di redigere le motivazioni del ricovero in manicomio, mentre la madre firmerà la richiesta di internamento volontario nella casa di cura di Villa Évrard. Nel mese di aprile il cugino di Camille, Charles Henry, si vede rifiutato l’ingresso nella struttura per espresso divieto dei familiari e avverte il giornale “L’Avenir de l’Aisne” dell’internamento di Camille, una scultrice illustre che non merita un simile trattamento. Seguono le critiche riportate su “Le grand National”, un altro giornale che ricorda la cattiva abitudine delle famiglie borghesi di disfarsi in questo modo dei figli “scomodi”, avvalendosi di una legge risalente al 1838, un comportamento molto diffuso all’epoca, non solo in Francia, per cui bastava che un soggetto turbasse l’ordine e la quiete familiare per essere spedito in manicomio dietro semplice richiesta del medico di famiglia. Ma i Claudel non rispondono, chiudendosi in totale silenzio.

La gravità dell’internamento era in primo luogo l’isolamento, deciso dai parenti per evitare lo scandalo, nonostante Camille non avesse mai commesso un atto violento o tentato il suicidio. Paul, d’altra parte, sperava in un aggravamento e nella morte della sorella, nonostante i pareri contrari dei medici. Non si deve dimenticare che il fratello era convinto che Camille avesse abortito e condivideva l’idea assai diffusa che la chiusura in manicomio fosse un modo per espiare questo crimine morale, atteggiamento all’epoca molto condiviso. Paul andrà a trovare la sorella solo dopo cinque mesi dal ricovero, mentre la madre sarà sempre convinta di fare bene a evitare una sua visita, insistendo col dottor Truelle, medico di Villa Evrard, che Camille non provava alcun affetto verso la famiglia e verso di lei.
Nel settembre 1914, mentre infuria la guerra, Camille viene trasferita al manicomio Montdevergues, a Montfavet, presso Avignone, dove Paul andrà a trovarla sette volte in trent’anni; inutili saranno le richieste di Camille rivolte al dottor Michaux, alla madre e al fratello, di poter tornare a Villeneuve. La madre non solo ignorerà le suppliche della figlia, ma sarà sorda anche all’appello del medico di ricoverarla a Parigi; prima di morire, Louise, nel 1929, darà la casa in eredità al nipote pur di non lasciarla alla figlia, considerata una peccatrice e un’ingrata. L’unica visita di un non congiunto che Camille riceverà in manicomio sarà quella dell’amica inglese che aveva lavorato insieme a lei nell’atelier di Rodin, Jessie Lipscomb, che si recherà a trovarla nel settembre del 1929 portandole un album di foto del suo viaggio in Egitto col marito.


Camille nel manicomio di Montdevergues (1935 circa).

Nel marzo del 1930 Camille scriverà a Paul ribadendo le accuse a Rodin e ai mercanti d’arte di essersi impossessati delle sue opere grazie all’ingenuità della madre e della sorella più piccola: «È lo sfruttamento della donna, l’annientamento dell’artista!». Inutili le richieste accorate di Camille di stare lontana dalle grida, dagli urli che provengono dalle stanze delle internate, da quel freddo che gela le dita rendendole difficile scrivere. In una lettera al fratello recrimina: «Tu mi dici, Dio ha pietà degli afflitti, parliamone del tuo Dio che lascia marcire un innocente in fondo a un manicomio! ». Paul, il cattolico Paul, si limiterà ad andare in tutto sette volte a trovarla e a mandare la moglie e i figli in visita alla «parente allontanata», come sarà chiamata Camille.
 
Le mani che un tempo erano fiere di poter dare vita alle idee, di poter infondere l’anima nella materia, ora rimanevano bloccate dal freddo, non obbedivano più alla mente creatrice, mentre le orecchie che amavano tanto ascoltare la musica erano ora assordate dalle grida delle alienate, e gli occhi si chiudevano la notte per non essere ossessionati dal pensiero della “banda di Rodin” a caccia delle opere del suo atelier. In una lettera del 3 settembre del 1932 Eugène Blot scrive a Camille che guarda sempre il bronzo, da lui effettuato, della Supplice, «con quelle labbra socchiuse, le narici palpitanti, la luce negli occhi, tutto ciò che proclama la vita in tutto quel che ha di più misterioso! Che genio! Come ha potuto privarci di tanta bellezza? Un giorno in cui Rodin è venuto a farmi visita, l’ho visto piangere davanti a quel bronzo! Sono passati quindici anni da quando è morto. In realtà non ha amato che lei, Camille, oggi posso dirglielo. So bene che lui l’ha abbandonata, non cerco di giustificarlo: lei ha troppo sofferto per causa sua. Il tempo farà giustizia di tutto».
 
Camille non vorrà e non potrà mai credere al risentimento della madre nei suoi confronti e alla sua responsabilità in merito al proprio internamento. In una lettera del 1938 scrive a Paul che pensa sempre alla mamma e al ritratto che le aveva fatto all’ombra del giardino: «I grandi occhi in cui si leggeva un dolore segreto, lo spirito di rassegnazione che regnava su tutta la sua figura, le mani incrociate sulle ginocchia in completa abnegazione; tutto indicava la modestia, il sentimento del dovere spinto all’eccesso, era proprio così la nostra povera madre. Firmato tua sorella in esilio». Nel settembre del 1943 Paul vede per l’ultima volta la sorella, che muore il 19 ottobre, a settantotto anni, per un colpo apoplettico dovuto alla scarsa nutrizione e viene sepolta due giorni dopo, nel cimitero di Montfavet, alla sola presenza delle assistenti dell’ospedale psichiatrico e del parroco a cui Paul invierà una cospicua somma per le messe in suffragio della sorella. La nipote di Camille, dopo la fine della guerra, scoprirà che le sue ossa col tempo erano state gettate in una fossa comune e a ricordare la geniale scultrice rimarrà solo una lapide nella chiesetta di Villeneuve.

CLAUDEL
CLAUDEL
Marilena Mosco
Camille Claudel (Fère-en-Tardenois 1864 – Montfavet 1943), nota soprattuttoper la sua relazione con Auguste Rodin e per la sua tormentata vicenda esistenziale,merita invece di essere riconsiderata per le sue innegabili doti di scultrice.Nasce da una famiglia benestante, suo fratello Paul sarà un importante scrittoree uomo politico. Inizia a scolpire e modellare la creta da bambina. Quando ditrasferisce con la famiglia a Parigi inizia una formazione artistica professionaleed è nella capitale francese che conosce Rodin, lei neanche ventenne, lui ultraquarantennee maestro affermato. Ne diventa allieva, modella e amante. Lasua scultura presenta tratti di grande forza e intensità, anche nel trattamentodella materia, ma ne traspare anche un’evidente fragilità psichica. La relazionecon Rodin termina negli anni Ottanta dell’Ottocento e il suo equilibrio crolla. Lafamiglia nel 1913 la costringe al manicomio, da cui cerca in ogni modo, ma inutilmente,di sottrarsi. Resta in manicomio trent’anni; muore nel 1943, forse per imaltrattamenti, o di fame. Fu sepolta in una fossa comune.