UNA VITA PER LA SCULTURA

«Il mio sogno sarebbe far subito ritorno a Villeneuve e non muovermi più, preferirei un fienile a Villeneuve che un posto di pensionante di prima categoria qui!

MMi spiace vedere che tu sprechi il tuo denaro per un manicomio: denaro che potrebbe servirmi per eseguire delle belle opere e vivere piacevolmente! Che felicità se potessi ritrovarmi a Villeneuve, quella deliziosa Villeneuve che non ha uguali sulla terra!».


Così scriveva Camille Claudel il 3 marzo 1927 al fratello Paul, dalla sua stanzetta nel manicomio di Montdevergues in Vaucluse, dove era rinchiusa da quattordici anni, rimpiangendo il tempo passato nella casa materna, a Villeneuve-sur-Fère, nel territorio del Tardenois, un triangolo di terra compreso tra Soissons, Château- Thierry e Reims (dipartimento dell’Aisne). Un luogo aspro, battuto dal vento, che per Paul faceva «inclinare il campanile della chiesa come l’albero di un vascello alla deriva, lui che rendeva furiosi gli abitanti, lui che originava le tempeste in famiglia». Un luogo pieno di ricordi per Camille: il villaggio con la piazza, la chiesa e il campanile che suona le ore, i tigli lungo il viale, i giochi nel giardino di casa col fratellino Paul e la sorella Louise. Ma soprattutto il ricordo di tutte le ore passate nell’angolino a raccattare la terra, l’argilla così facile da trovare, da mettere nei sacchi di nascosto dalla mamma, pronta a rimproverarla di sporcare il pavimento con le scarpe piene di fango, di essere sempre sporca di terra e di doversi lavare, di essersi messa in testa di fare la scultrice, la “poco di buono”, aiutata in questa folle idea dal padre, un altro utopista, invece di pensare a trovare un marito e a fare la donna di casa.

Una donna austera la madre, come la descrive il fratello Paul, «dall’inizio alla fine della giornata sempre occupata a cucire, tagliare vestiti, cucinare, occuparsi del giardino, dei conigli, dei polli, mai un momento per pensare a se stessa e agli altri». Una donna che portava negli occhi lo stesso nero dei suoi vestiti, il nero del dolore delle perdite subite che per tutta la vita le impediranno di essere in armonia con se stessa. Dura la vita per Louise Athanaïse Cécile Cerveaux: orfana di madre a soli tre anni, aveva sofferto la sua mancanza, alla quale si era aggiunta in seguito la perdita del fratello annegato nella Marna a ventitré anni; il matrimonio a diciotto anni con Louis Prosper, al quale aveva portato in dote la casa di Villeneuve, era stato funestato dalla morte, dopo soli quindici giorni, del primogenito Charles Henri, mai dimenticato, e dopo un anno, l’8 dicembre 1864, era arrivata Camille, l’usurpatrice come la chiamava quando si arrabbiava, e lei, a detta della vecchia tutrice Victoire, dopo il parto si era girata dall’altra parte, delusa dall’aver avuto una femmina invece del maschio.


Casa Claudel a Villeneuve-sur-Fère.

Come scrive lo psichiatra Luca Trabucco, la morte della madre, del fratello e del primo figlio avevano creato nella mente di Louise Athanaïse un vuoto, un senso di rabbia mai placata, tratto fondamentale del suo carattere, rendendola litigiosa, faziosa, piena di risentimento e priva di comprensione e tenerezza. Per il figlio consolatore, per il “sostituto vivente” che aveva rimpiazzato il figlio morto la conseguenza sarebbe stata quella di sentirsi inconsciamente privato della propria identità. Egli sarebbe stato trattato dalla madre più come l’incarnazione di una memoria che come una persona con i propri diritti, tanto da avere, appunto, seri problemi di identità, come sarà effettivamente per Camille. La stessa scelta di Camille di dedicarsi alla scultura non costituiva solo la ricerca, all’epoca, di un’identità maschile, ma era anche l’espressione della gioia quasi materna di plasmare, in mancanza dell’affetto materno.
Paul Claudel scriveva: «La scultura è il bisogno di toccare. Prima che sappia vedere, il bambino brandisce le sue manine che si muovono. La gioia quasi materna di possedere la terra da plasmare nelle mani, l’arte di possedere, durevoli, nelle sue dieci dita, le forme rotonde, le belle macchine vive che vede muoversi intorno: è questo il primo desiderio che compare in lui appagato dal primo arco o dalla prima bambola. Ma ormai allontanata dalla pubblica piazza e dall’aria aperta, la scultura, come le altre arti, si ritira in questa camera solitaria in cui il poeta mette al riparo i suoi sogni proibiti. Camille Claudel è il primo operaio di questa scultura interiore».
È il padre, Louis Prosper che comprende il bisogno quasi fisico della figlia di fare scultura, e l’abbraccia spesso con la sua barba che le fa il pizzicorino, e la guarda con i suoi occhi contornati da piccole rughe che sembrano accarezzarla; è lui a dire che Camille farà la scultrice, mentre la madre alza le spalle e non la capisce. Discussioni e litigi erano frequenti nella casa, come scriverà Paul, «litigi tra padre e madre, litigi tra figli e genitori, litigi tra fratelli», anche se Louise, la secondogenita, starà sempre in disparte, mentre il fratello minore resterà molto affezionato a Camille, unito a lei da un’intesa profonda: Paul più timido e introverso, Camille fiera e coraggiosa, pronta ad avventurarsi lontano da casa, a trascinare Paul fino alla foresta dove si erge il gigante della montagna, il Geyn del Mont-Preux fatto di arenaria, dalle forme fantastiche, simile alle bestie preistoriche, agli idoli che alimentano le fantasie dei bambini. La gente mormora che nella foresta si aggiri il diavolo, ma Camille non ha paura del diavolo, anzi lo sfida e ride quando la madre le ripete che è lei il diavolo di casa, sempre disobbediente e ribelle.

Louise Athanaïse Cerveaux, madre di Camille Claudel. Per ironia della sorte la madre di Camille era coetanea della sua rivale Rose Beuret; pertanto si può immaginare come Camille associasse alla figura della madre quella della rivale considerata vecchia e non più seduttiva.


Louis Prosper Claudel (1905 circa).

Anche quando si trasferiscono a Nogentsur- Seine per il nuovo incarico statale del padre, conservatore delle ipoteche, Camille si porta dietro i sacchi di terra, nonostante la protesta della madre; prende lezioni di scultura da Alfred Boucher, scultore di Nogent e amico del padre, e fa amicizia col precettore, il signor Colin, che le legge La Chanson de Roland, Le Roman de Renart, e la Bibbia, con la storia di David e Golia; le piace questa storia, ne farà una scultura e la mostrerà al suo maestro per avere il suo parere. Evviva! Gli è piaciuta e ha parlato di straordinarie doti, di intensità di vita, come se fosse un’allieva di Rodin, lo scultore di cui parla tutta Parigi perché avrebbe usato il calco di un uomo nudo per la scultura dell’Età del bronzo, mentre la verità è che è lui che sa immettere la vita nel gesso e nel bronzo.
Camille è felice che il suo David e Golia sia piaciuto, il suo piccolo David che sfida il grande Golia; anche lei sfiderà il grande Rodin; ma intanto è importante scolpire cose grandi: il grande Napoleone, l’imperatore, e colui che aveva accettato la sfida della Francia, il famoso Bismarck, odiato dai francesi per la disfatta di Sedan. Camille aspetta di andare a Parigi dove sarà iscritta all’Accademia e avrà un suo atelier dove poter scolpire in pace, senza nessuno che la controlli; la nuova sede di lavoro del padre, a Wassy-sur-Blaise, è un altro passo verso la capitale dove poi Camille, la madre, il fratello e la sorella minore si trasferiscono in attesa del capofamiglia. Il trasloco avviene nonostante le lamentele di Louise Athanaïse e le paure di Paul, che sogna di andare in Cina ma al tempo stesso rimpiange Villeneuve. E Camille assapora l’aria di Parigi: una nuova vita si dischiude per lei.
Rue Notre-Dame-des-Champs: sulla strada che va da rue de Rennes a rue de l’Observatoire – non lontano da casa Claudel, all’11 di boulevard de Port Royal – si trovava lo studio che Camille decise di condividere con due giovani inglesi, Amy Singer e Emily Fawcett, allieve come lei dell’Académie Colarossi, alla quale si era iscritta sin dall’inizio del 1881. L’accademia aveva preso il nome dallo scultore Philippe Colarossi, deciso a sfidare la rivale Académie Julian grazie a prezzi più accessibili e all’accesso a studenti di ambo i sessi, soprattutto scultori e scultrici, pronti a servirsi in loco di modelli per gli studi di nudo.

In realtà una scuola di scultura per le artiste povere di mezzi era stata creata già nel 1879 dalla scultrice Hélène Bertaux che lottò per anni per consentire l’ingresso alle donne nell’École des Beaux-Arts, riuscendo a permettere loro l’accesso alla scuola del nudo solo nel 1900. Donna intraprendente e ben introdotta nella buona società, aveva creato nel 1881 l’Union des femmes peintres et sculpteurs favorendo esposizioni annuali delle artiste, sottolineando la peculiarità dell’arte delle donne rispetto a quella degli uomini. Una visione femminista che Camille non accetterà mai, dichiarando di volersi confrontare con i colleghi per mostrare di essere scevra da preconcetti e contro falsi moralismi, libera da scrupoli sessuofobici. In questo Camille era stata preceduta molto tempo prima, durante il Secondo impero, da una scultrice che si era fatta chiamare con il nome maschile Marcello per fare accettare le sue opere al Salon: si trattava di Adèle d’Affry, duchessa Castiglione Colonna, protetta dall’imperatrice Eugenia, affermatasi per l’audacia dei suoi busti: il Capo abissino e La Pizia, sculture che avevano colpito per la novità dei soggetti, in particolare La Pizia, la sacerdotessa del tempio di Apollo, colta nel momento della trance e in una posa irriverente, per la quale l’artista si era servita del suo stesso busto al naturale, il che aveva scandalizzato i benpensanti ma non l’architetto Charles Garnier che la scelse per inserirla ai piedi dello scalone dell’Opéra di Parigi, dove tuttora si trova. Mentre la d’Affry aveva avuto tutti i vantaggi dovuti alla sua posizione sociale, trovando un saggio equilibrio tra il carattere anticonformista e gli obblighi dell’alta società, Camille, dal carattere indipendente fin da piccola, manterrà per tutta la sua vita un atteggiamento solipsistico che le costerà l’isolamento e la crisi, solo controbilanciato dall’aiuto di Rodin che, anche dopo l’addio, a sua insaputa la sosterrà finanziariamente tramite gli amici. Prima di lui, a diciotto anni Camille incontra il direttore dell’École Nationale des Beaux-Arts, Paul Dubois che, vedendo il suo David e Golia, le chiede se ha preso lezioni dal signor Rodin e, al diniego confermato da Alfred Boucher, le consiglia di continuare il suo lavoro nell’atelier negandole l’ingresso all’ École Nationale. In compenso Boucher, che ha vinto il Prix de Rome e si deve recare nella Città eterna a Villa Medici, le presenterà Rodin che prenderà il suo posto come maestro nell’atelier dove lo aspettano le allieve inglesi.


William Elborne, La famiglia Claudel nella casa di boulevard de Port Royal a Parigi (1886). In primo piano Louise, dietro la madre, poi Camille. Da sinistra Louis Prosper, Paul, Monsieur de Massary, Jessie Lipscomb, Ferdinand de Massary.

Busto della vecchia Elena (1882).


Busto di Paul come antico romano (1883); Avignone, Musée Calvet.


Auguste Rodin, Busto di Camille con i capelli corti (1883); Parigi, Musée Rodin.

Al Salon del maggio 1882 è presente un «Busto di vecchia. Busto di gesso di Mademoiselle Camille Claudel» sul quale nel 1898 il critico Mathias Morhard scriverà: «La prima opera firmata col suo nome è il busto della domestica alsaziana di madame Claudel. Opera seria e meditata. Si sente che è stata fatta con fedeltà assoluta, forse anche troppo! La vecchia dalla fronte rugosa, dal mento prominente, gli zigomi accentuati, guarda francamente davanti a sé, i suoi occhi sono dolci e buoni. Tutta la fisionomia ha finezza e distinzione». Una qualità che avvicina Il Busto di vecchia al busto scolpito da Alfred Boucher di sua madre (Musée Camille Claudel, Nogentsur- Seine), sebbene l’accento realistico e l’approfondimento psicologico siano già un tratto specifico dello stile di Camille.
«Una fronte superba sovrastante gli occhi magnifici, di quel blu scuro così raro da incontrare altrove se non nei romanzi, quel naso ove ella si compiaceva dopo di ritrovare l’eredità delle virtù, quella grande bocca più nobile ancora che sensuale, quel poderoso ciuffo di capelli castani, il vero castano che gli inglesi chiamano “auburn”, che cadeva fino alle reni, un’aria impressionante di coraggio, di franchezza, di superiorità, di allegria [...] Io la rivedo, quella splendida giovane, nel fulgore trionfale della bellezza e del genio». Così scriveva di Camille il fratello Paul, e così dovette vederla Rodin nel marzo 1883 quando, accompagnato da Boucher, entrò nell’atelier della giovane artista e rimase subito colpito dalla sua sicurezza e dalla scultura a cui lavorava: il busto del fratello Paul rappresentato come un antico romano, dal tratto energico e dal profilo netto, quel profilo la cui cura lui raccomandava ai suoi allievi e che questa giovane allieva mostrava di saper modellare, con un talento che la avrebbe resa degna di lavorare nel suo atelier di rue de l’Université. Nel frattempo, Rodin avrebbe sostituito Boucher alla guida delle sue allieve e presto abbozzato un busto di Camille con i capelli corti, la frangia appiccicata alla fronte, un ritratto talmente mascolino da essere considerato da Paul come un suo proprio ritratto eseguito dalla sorella. Le critiche del fratello, geloso di Rodin, e il disaccordo del padre, che riteneva inutile che la figlia frequentasse lo studio del famoso scultore, non dissuaderanno Camille dal cedere al fascino dell’atelier del maestro, situato vicino al Deposito dei marmi, dove le modelle e i modelli si befferanno dell’ingresso di una “donna scultrice”, subito però ripresi e costretti a fare posto alla nuova allieva, alla quale saranno assegnati una sedia e un trespolo su cui lavorare.

Da allieva a collaboratrice, Camille lavora con il maestro alla Porta dell’inferno ispirata al poema dantesco, commissionata a Rodin per l’ingresso al Musée des Arts Décoratifs. Lo scultore, di cui lei ha subito afferrato il talento, l’ha incaricata di rifinire le mani da lui abbozzate, «mani che camminano, che dormono, che si ridestano, mani delittuose e mani stanche, che si sono accasciate in qualche angolo e sanno che nessuno verrà in loro aiuto » (Rainer Maria Rilke); mani vere che Camille impara a conoscere, che sanno modellare e scolpire, ma anche sfiorare e toccare, accarezzare e abbracciare, capaci di infondere la vita alla creta e di fare scoprire la propria natura a lei stessa. È lei a voler farsi scoprire e scolpire da lui, è lei a donarsi come modella e come donna in sintonia con il desiderio di lui, quell’uomo maturo che di fronte alla giovane ritrova sentimenti e sensazioni sopiti da anni. Una lettera del 1883 descrive lo stato d’animo di Rodin innamorato: «Mia feroce amica, la mia testa è molto malata e non riesco più ad alzarmi al mattino. Questa sera ho percorso per ore, senza trovarti, i nostri luoghi; come mi sarebbe dolce la morte e quanto è lunga la mia agonia; perché non mi hai aspettato allo studio, dove vai? […] abbi pietà, cattiva, non ne posso più, non posso più passare un giorno senza vederti [...] la tua mano, Camille, non quella che si ritrae, non c’è felicità a toccarla se non è il pegno della tua tenerezza [...] Ah divina bellezza, fiore che parla e che ama, fiore intelligente mio tesoro, mia dolcissima in ginocchio davanti al tuo bel corpo che stringo. R.». Parole che riflettono il turbamento e la passione concepiti e nutriti da Rodin e che gli dettano due opere: L’eterna primavera e Sono bella, due gruppi fusi in bronzo che rappresentano i due corpi avvinti in una stretta fatale, carichi di una forza che trae origine dalla passione interiore, trainante, di un Rodin ringiovanito dall’amore. Camille è sicura di sé e sfida il maestro anche nel nudo, con la sua Donna accovacciata prendendo come modella se stessa nuda vista di schiena e sorprendendo tutto lo studio dello scultore che ne trae ispirazione per la sua Danaide, curvata in una posa avvincente e sensuale, un corpo inteso come calco su cui imprimere la passione dei sensi. Quella che coinvolge i due artisti è una passione travolgente che spaventa Camille, tanto da farle accettare l’invito dell’amica inglese Florence Jeans a raggiungerla nell’isola di Wight da dove Camille scrive a Rodin lamentando «il senso di assenza che la tormenta». Il maestro, in preda alla paura dell’abbandono, redige un contratto firmato indirizzato a «Mademoiselle Claudel», in cui le promette il matrimonio dopo un viaggio in Italia e si impegna a non tradirla con nessun’altra donna. Un contratto che non sarà mai rispettato per la presenza costante di Rose Beuret, che ha dato un figlio a Rodin e che lo assiste da una vita con una devozione incomparabile.


Auguste Rodin, Sono bella (1882); Tokyo, The National Museum of Western Art. Rilke scrive: «Per Rodin parti di corpi diversi si dispongono in un tutto organico. Una mano che si appoggia su un’altra spalla non appartiene più al corpo da cui proviene. Nasce una cosa nuova che non ha nome e che non appartiene a nessuno».


Auguste Rodin, L’eterna primavera (1884).

Donna accovacciata (1884).


Auguste Rodin, Danaide (1885); Parigi, Musée Rodin. Anticonformista e sperimentatrice, Camille Claudel usa il suo corpo per misurare il suo talento in pose sempre nuove e audaci. Rodin ne approfitta per trasformarle in una scultura palpitante del suo impulso voluttuoso.

CLAUDEL
CLAUDEL
Marilena Mosco
Camille Claudel (Fère-en-Tardenois 1864 – Montfavet 1943), nota soprattuttoper la sua relazione con Auguste Rodin e per la sua tormentata vicenda esistenziale,merita invece di essere riconsiderata per le sue innegabili doti di scultrice.Nasce da una famiglia benestante, suo fratello Paul sarà un importante scrittoree uomo politico. Inizia a scolpire e modellare la creta da bambina. Quando ditrasferisce con la famiglia a Parigi inizia una formazione artistica professionaleed è nella capitale francese che conosce Rodin, lei neanche ventenne, lui ultraquarantennee maestro affermato. Ne diventa allieva, modella e amante. Lasua scultura presenta tratti di grande forza e intensità, anche nel trattamentodella materia, ma ne traspare anche un’evidente fragilità psichica. La relazionecon Rodin termina negli anni Ottanta dell’Ottocento e il suo equilibrio crolla. Lafamiglia nel 1913 la costringe al manicomio, da cui cerca in ogni modo, ma inutilmente,di sottrarsi. Resta in manicomio trent’anni; muore nel 1943, forse per imaltrattamenti, o di fame. Fu sepolta in una fossa comune.