XXI SECOLO
INTERVISTA CON MARIO CRESCI

IL SUDNEGLI OCCHI

HA VISSUTO E FOTOGRAFATO PER VENT’ANNI IN BASILICATA. UN’ESPERIENZA CRUCIALE CHE HA PERMESSO A MARIO CRESCI DI ARRICCHIRE LA FORMAZIONE DEL SUO SGUARDO CON UN TAGLIO SPICCATAMENTE ANTROPOLOGICO. LO ABBIAMO INTERVISTATO PER APPROFONDIRE QUESTO ASPETTO DELLA SUA POETICA RACCONTATO, PER LA PRIMA VOLTA NELLA SUA INTEREZZA, IN UN’ESPOSIZIONE AL MAXXI DI ROMA.

FRANCESCA ORSI

Il MAXXI - Museo nazionale delle arti del XXI secolo ospita – fino al 1° ottobre, a cura di Marco Scotini con Simona Antonacci – Mario Cresci. Un esorcismo del tempo, la prima mostra di Mario Cresci interamente dedicata alla sua produzione lucana, cioè a quel patrimonio creativo che abbraccia un ventennio della sua ricerca, da fine anni Sessanta fino alla fine degli anni Ottanta. Cresci si trasferì a Matera, a vivere e a documentare il territorio secondo un certo tipo di “fotografia contaminata” che in Basilicata trovò la sua parte mancante. La mostra Mario Cresci. Un esorcismo del tempo ripercorre il suo lavoro di ricerca sul territorio lucano, prodotto tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Ottanta. La sua indagine sulla Basilicata, tra Matera e Tricarico (nella stessa provincia), nasce però a Venezia, vero?
A Venezia frequentai il Corso superiore di Industrial Design, dal 1963 al 1967. In quegli anni approfondii, quindi, il design, la grafica, la fotografia, il video e tutte le discipline della comunicazione. Tra il 1966 e il 1967, all’interno di un gruppo di lavoro conosciuto in Laguna – esterno alla scuola di design e con a capo il sociologo Aldo Musacchio – ricevetti l’incarico di occuparmi della parte fotografica relativa alla redazione del nuovo piano regolatore della città di Tricarico. La mia esperienza e la mia ricerca sulla Lucania, nei successivi vent’anni e oltre, è iniziata da questo incarico. Non ero mai stato al Sud e per me fu una tappa fondamentale sia per la mia vita personale, visto che poi mi ci sono trasferito per molti anni, sia per il mio pensiero artistico, che fino a quel momento si era forgiato a Venezia secondo un apprendimento fenomenologico, quello delle arti applicate, del design, della grafica e della fotografia. Stando al Sud, invece, ho acquisito una conoscenza antropologica, legata più alle scienze sociali, all’interesse per il mondo rurale, per il Mezzogiorno italiano. Una nuova cultura che si andava allineando con quella precedente già in mio possesso. È da questa doppia prospettiva che nasce il mio sguardo “contaminato”, la mia “fotografia contaminata”.

E nello specifico, il suo compito per la realizzazione del piano regolatore di Tricarico in cosa consisteva? Documentavo, fotograficamente, le aree del territorio, le case, gli oggetti, in generale il mondo rurale di Tricarico. La mia documentazione, però, non voleva essere un semplice reportage, ma un’azione analitica sulla cultura contadina e materiale della zona, lasciando lo spazio necessario anche al rapporto diretto con la popolazione, con le persone e il loro vivere il territorio. È stata un’immersione approfondita nella città e nella sua cultura. Contrariamente a quello che avevo imparato a Venezia – una disciplina progettuale, in un certo senso, anche molto fredda e distaccata – l’approccio immersivo nell’umanità del Mezzogiorno è stato un elemento di arricchimento molto forte per il mio lavoro. Studiando, ho iniziato a trovare anche i miei riferimenti sulle tematiche del meridionalismo: Carlo Levi, Rocco Scotellaro, Pasolini del Vangelo secondo Matteo, o Fernando Arrabal che girò a Matera, nel 1975, L’albero di Guernica.

La progettualità legata alla sua indagine su Matera, Tricarico e la Lucania incluse anche un aspetto molto pratico e partecipato sul territorio: la creazione di corsi di formazione per l’avviamento al lavoro, vero?
Sì, anche questo aspetto fa parte della mia visione di “fotografia contaminata”. A metà degli anni Settanta grazie ai finanziamenti della Regione Basilicata, ricevuti con la legge statale 285 come provvedimenti per l’occupazione giovanile, aprii una scuola di progettazione, design e artigianato a Matera. Un’esperienza che durò diversi anni. Alcune tavole prodotte con gli studenti sono esposte anche all’interno della mostra al MAXXI. Era una riflessione grafica e fotografica sulle culture locali, sugli oggetti e le tradizioni. I corsi erano rivolti agli studenti con l’intento di far nascere sul territorio nuove botteghe artigiane, considerando il design anche artigianato di tradizione e come rivisitazione della storia.
Il titolo della mostra al MAXXI è molto curioso: Mario Cresci.

Interni, Barbarano Romano 1978-1979.


Interni, Barbarano Romano 1978-1979.

«HO LAVORATO DENTRO LE PIEGHE DEL TEMPO PER SMONTARNE LA SEQUENZIALITÀ, ESORCIZZANDO LA TEMPISTICA, IL TEMPO INTESO LINEARMENTE, E FACENDO IDENTIFICARE, INVECE, IL MIO LAVORO CON UNA PLURALITÀ DI “TEMPI”» MARIO CRESCI

Un esorcismo del tempo. Come la parola “esorcismo” viene riferita al concetto di tempo?

Ho lavorato dentro le pieghe del tempo per smontarne la sequenzialità, esorcizzando la tempistica, il tempo inteso linearmente, e facendo identificare, invece, il mio lavoro con una pluralità di “tempi”. Passare attraverso varie culture, dimensioni del sapere, linguaggi mi ha permesso di intendere il tempo non come sequenza ma come se mi fossi mosso dentro a uno stato temporale permanente e continuativo, circolare diciamo o meglio ciclico. Anche se il suo lavoro attinge molto dalla dimensione concettuale si avverte ugualmente una sua “necessità documentaristica” nel fotografare Matera, Tricarico, la Lucania, il Sud… Assolutamente sì. Era necessario al territorio, alla sua cultura, al periodo storico, alla sua popolazione, alle loro tradizioni, ai suoi giovani e al loro futuro. È stato un lavoro di pubblica utilità.
Con che spirito è stata affrontata la mostra? Con un senso di necessità simile a quella delle sue immagini?
Gli anni della Basilicata mi risuonano come una storia che avevo in parte abbandonato e archiviato. La mostra mi è servita a rivisitare quella storia, a notare dei particolari che mi erano sfuggiti, a livello formale, tematico o contenutistico. Come in un racconto che è stato riscritto e la cui narrazione, grazie alla ricerca dei curatori, si è rinnovata secondo una lettura più contemporanea del mondo rurale.
A fine anni Ottanta se n’è andato da Matera. Sentiva che si era chiusa la sua progettualità riferita al territorio lucano?
Con il terremoto dell’Irpinia del 1980 molte cose sono cambiate. È stato un momento molto critico. Le persone andavano via, c’è stato un calo di interesse sulla Basilicata, è venuta a mancare quell’aria di rinnovamento e crescita che aveva animato gli anni Settanta. Il contesto è entrato in crisi e il mio lavoro ne ha risentito, operativamente ed economicamente. Quindi quando mi fu proposta la direzione dell’Accademia di belle arti di Bergamo accettai e mi trasferii.

ART E DOSSIER N. 412
ART E DOSSIER N. 412
SETTEMBRE 2023
In questo numero: FINESTRE SULL’ARTE: Il MAGA?: Una fabbrica culturale di Federico D. Giannini; CORTOON:Tecnica mista con conchiglia di Luca Antoccia;  GRANDI MOSTRE. 1 - Plessi a Brescia e a Milano- Nozze d’oro di Sileno Salvagnini ; GRANDI MOSTRE. 2 - Iperrealismo a Roma -  A onor del vero di Ilaria Rossi