Il gusto dell'arte

Zuccherino,
dal cuore d’oro

Ludovica Sebregondi

Alla ricerca di preparazioni alimentari e prodotti che trovano nell’arte puntuali riferimenti, al di là di epoche, luoghi e tradizioni: melone

Il melone è il frutto dell’estate, legato nell’immaginario collettivo alle lunghe giornate assolate, a cui apporta freschezza, profumo e dolcezza. Il suo sapore zuccherino nella tradizione gastronomica italiana viene spesso stemperato dall’accostamento col prosciutto: un gioco dei contrasti di antica tradizione, come sappiamo dal De re coquinaria, il più noto ricettario di Roma antica, risalente al I secolo e attribuito ad Apicio, in cui si consiglia di insaporire i frutti con pepe, miele, aceto e silfio, una pianta simile al finocchio che cresceva in Cirenaica (attuale Libia).

L’ampio consumo del frutto è confermato da numerosi antichi ricettari, tra cui il tardo quattrocentesco De honesta voluptate et valetudine, in cui Bartolomeo Sacchi, detto il Platina, afferma che meloni (rotondi e costoluti), e poponi (allungati e lisci), si differenziano solo nel formato. I due termini sembrano comunque indicare indifferentemente gli uni e gli altri: certamente popone è utilizzato in Toscana, e attestato da storici quali Giovanni Villani (1280-1348) che, riferendosi al 1338, ricorda come in estate dalla campagna venisse introdotta quotidianamente a Firenze un’immensa quantità di questi frutti. Lo testimonia anche il rimatore Antonio Pucci (1310-1388), il quale parlando del Mercato vecchio fiorentino decanta «Or che ricchezza è quella de’ poponi […] Ogni mattina n’è piena la strada».

Si trattava di un prodotto consumato in gran quantità, anche perché univa alle sue piacevoli caratteristiche organolettiche l’economicità, mentre in genere la frutta era poco presente sulle mense dei poveri a causa dei prezzi elevati. La voce “popone” è attestata anche dalla prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca del 1612.

Appaiono sotto il titolo «Melones indi i palestini» (indicando nome e provenienza) i grandi frutti rotondi raffigurati nella miniatura del Tacuinum sanitatis attribuito all’ambito di Giovannino de’ Grassi. Il trattato, di cui esistono vari esemplari eseguiti fra Tre e Quattrocento, illustra i principi che già allora erano ritenuti necessari per il mantenimento della salute, mentre la loro alterazione era considerata fonte di malattie: il cibo, l’ambiente, il movimento, il riposo, gli stati d’animo. Un approccio non molto dissimile da quello che sovrintende oggi all’idea di benessere, rappresentato in un volumetto in cui le figure illustrano i precetti e il testo è ridotto a poche righe.

Le miniature – esempio perfetto del raffinato ambiente tardogotico lombardo, di quel mondo internazionale che risente di influssi francesi – costituiscono preziose testimonianze della quotidianità del periodo, documentando vita e abitudini di differenti ceti sociali.

Una donna è accovacciata in un letto di rami con foglie e afferra un frutto per staccarlo dal picciolo, mentre un uomo, in piedi, si porta al naso un altro frutto, sottolineandone così il piacevole profumo. In questo caso la superficie è liscia, ma in altre varietà è “retata”, come nei rinomati “cantalupi” che devono il nome al castello pontificio di Cantalupo (Rieti) presso Roma, dove furono introdotti da missionari asiatici.

Liscio è anche il melone, di forma allungata, che un ragazzo sta affettando nei Bambini che mangiano uva e melone dipinto da Bartolomé Esteban Murillo (Siviglia 1618-1682). Il clima evocato dai due ragazzini è quello di un romanzo picaresco: gli abiti sono cenciosi, le piante dei piedi sporche, la bocca talmente piena che il volto ne risulta sfigurato. L’uno affetta un melone dalla polpa chiara di cui si vede l’interno colmo di semi, mentre alcuni pezzi della buccia sono caduti per terra; l’altro – col capo rovesciato all’indietro – addenta un acino d’uva tendendo sospeso sopra il viso l’intero grappolo. Tra i due si crea un gioco di sguardi forse perché, dopo aver rubato il frutto dorato e il cesto pieno d’uva in primo piano, si stanno sfamando voracemente in un ambiente buio in cui si sono nascosti per placare la fame.

Il pittore, nonostante ci faccia partecipi dell’estrema povertà che assillava una parte della popolazione della pur ricchissima Siviglia, riesce a rendere la loro gioiosa ingordigia grazie alla straordinaria capacità di studio della psicologia infantile.


Bartolomé Esteban Murillo, Bambini che mangiano uva e melone (1650 circa), Monaco, Alte Pinakothek.


Ambito di Giovannino de’ Grassi, Meloni, in Tacuinum sanitatis (fine del XIV secolo), Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Vindob. 2644.