La pagina nera

A VERONA UN EDIFICIO
È VICINO AL SACRIFICIO

Fabio Isman

A Belfiore (Verona), il cinquecentesco palazzo Moneta è in totale sfacelo. Passato di mano tra diversi proprietari, custode di prestigiosi decori e affreschi, molti dei quali distrutti, da decenni è abbandonato. dopo un tentativo di restauro una ventina d’anni fa, la sontuosa villa rischia ormai di scomparire.

Belfiore, tremila abitanti, venti chilometri a est di Verona, vanta un piccolo tesoro, come tanti tra i Comuni italiani; ma, nonostante un passato nobilissimo, ora è per buona parte in disarmo, ed è un autentico peccato. Palazzo Moneta, dal nome del committente Cosimo, risale a metà Cinquecento; tra gli altri, lo decorano Giovanni Maria Falconetto, che progetta pure la loggia Cornaro, primo edificio rinascimentale a Padova, e Bartolomeo Ridolfi, collaboratore di Andrea Palladio, che ne esegue gli stucchi. L’edificio è abbastanza austero: sembra più una casa di città che un palazzo di campagna; ma i suoi decori, almeno quelli che restano, lo rendono abbastanza inimitabile: quasi un “unicum”.

Al centro di una camera a pianoterra, c’era un Ratto d’Europa; nel salone centrale, dalla volta a botte con grandi vele sui lati, forse Io, amata da Giove, con Amore e Psiche, Diana, Venere e Giunone; al piano superiore, la Stanza degli amori illeciti, con camino e soffitto a cassettoni, così chiamata per gli affreschi, che derivano dalle Metamorfosi di Ovidio, di due amanti che amoreggiano in mezzo a un laghetto, quelli di Venere e Marte davanti all’alcova, e altri dalla Leggenda di Piramo e Tisbe, che (per alcuni) potrebbe addirittura aver ispirato Romeo e Giulietta a William Shakespeare. Qui, insomma, il classicismo è di casa. Nella Sala delle quattro stagioni, divisa in settori con grottesche e divinità pagane, ci sono un Parnaso con Apollo circondato dalle muse e le Allegorie delle stagioni, mentre nelle lunette, dei putti suonano strumenti musicali. Nel sottotetto rimane il gesso della statua di uno dei successivi (e numerosi) proprietari del luogo, Giovanni Battista Cressotti morto nel 1853, il cui originale è nel cimitero veronese. Non manca nemmeno un singolare scalone, detto “dei mussi”, cioè degli asini: serviva per trasportare le granaglie nel sottotetto. I lavori terminano nel 1563, e Giorgio Vasari parla di una «bellissima villa». Presto, dai Moneta l’edificio passa a Federico e Antonio Maria Serego (tra l’altro, c’è anche una lunga lite con il cugino Marcantonio, committente dell’unica villa palladiana in provincia di Verona, ancora nota con il suo cognome), che trasformano il complesso in azienda agricola ed edificano due grandiose barchesse, staccate dal corpo di fabbrica principale; seguiranno altri passaggi di proprietà. Bene: una barchessa è visitabile; l’altra, ben restaurata e divisa in appartamenti, è abitata; il palazzo padronale, la villa, giace invece, e da vari decenni, in condizioni pietose. Basti pensare che nel 1966, la Soprintendenza di Verona ha restaurato gli affreschi, ventidue dei quali sono strappati l’anno dopo, e nel 1982 sequestrati dalla magistratura. Dieci anni più tardi, un giudice ne ha deciso lo svincolo, ma pare che, almeno fino al 2008, non siano tornati ai proprietari.

Il palazzo non era dunque soltanto il luogo da cui il possessore sovrintendeva ai lavori agresti, ma era certamente destinato a una vita fastosa, come dimostrano i suoi decori originari, privi del resto di ogni richiamo all’agricoltura. Tre piani, con sei finestre ciascuno, e quello terreno a doppia altezza; un imponente portale bugnato, elevato di due piani e mezzo, con all’apice il mascherone di un satiro che ride, sono però buoni solo per i ricordi. Anche se un restauro è stato tentato negli anni Duemila, ogni cosa è in stato di trascuratezza estrema; gli infissi sono stati rimossi, gli stucchi e gli affreschi che ancora esistono soffrono per l’umidità, e gravi sono i problemi legati alla loro conservazione e sopravvivenza. All’interno, i vetri sono in frantumi, e ormai spariti gli intonaci. Il soffitto di un salone si regge soltanto grazie ai puntelli, e la vera padrona è l’umidità.

Ci sono ancora da aggiungere due corollari. Recentemente, un appartamento della barchessa che è stata restaurata ha costituito il “buen retiro” di Luca Morisi, un collaboratore di Matteo Salvini incappato in una faccenda di droga. E durante l’ultima guerra, vi si sono svolte vicende abbastanza singolari, come racconta il giornalista Zeno Martini del quotidiano “L’Arena”. La tenuta era allora di Scipione Gemma, e vi lavoravano centocinquanta persone, che in parte vivevano nel palazzo. Dopo l’armistizio del 1943, vi vengono nascosti anche dei militari italiani fuggiti per evitare la cattura da parte dei tedeschi; nel granaio, un partigiano della vicina val d’Illasi. E accade una ben singolare coabitazione: perché il luogo era stato requisito dai nazisti. Due sorelle che erano lì, Teresa e Anna Bravi, ricordarono che «ci restarono per un bel pezzo; avevano occupato le barchesse, e, prima di andarsene, mitragliarono tutto quanto non riuscirono a portar via con loro; per fortuna, nessuno restò ferito».

I tedeschi, evidentemente, non si dedicarono agli affreschi, restaurati infatti vent’anni dopo. Ma, più o meno da allora, l’edificio langue irrimediabilmente. Il rischio, dopo un ripristino soltanto tentato nel Duemila, è uno soltanto: quello di perderlo per sempre.


Infissi rimossi, spariti gli intonaci, vetri in frantumi. stucchi e affreschi (quando ci sono) soffrono per l’umidità


Palazzo Moneta a Belfiore (Verona), voluto da Cosimo Moneta e risalente alla metà del XVI secolo, è in totale decadenza. In apertura, un sottotetto distrutto con al centro una scultura in parte ancora integra.


La facciata fatiscente del palazzo semicoperta dalla vegetazione incolta.


umidità e vetri in frantumi in uno degli interni.


Il soffitto di un salone si regge solo grazie ai puntelli.


Gli affreschi rimasti alle pareti versano in uno stato drammatico.