Blow up 

UGO MULAS
UNO SGUARDO A TUTTO CAMPO

Giovanna Ferri

Da dove partire per parlare di Ugo Mulas? C’è l’imbarazzo della scelta tanto è ampio il suo repertorio iconografico. Il suo occhio analitico, profondo, generoso ha attraversato non un mondo ma tanti mondi. Ha abbracciato la realtà, ne ha colto l’anima, l’essenza. Un autentico ricercatore dello sguardo, attento non solo ai contenuti ma anche al processo, al mezzo, ai modi e pronto ad abbandonarsi al piacere della scoperta. Un uomo che, fino alla fine, non ha smesso di sorprendersi e di sorprendere, grato, sempre, alle occasioni che la vita gli ha donato. Una vita interrotta troppo presto ma ricca di esperienze, conoscenze, incontri, amicizie. Aveva solo quarantaquattro anni quando è scomparso. Era il 2 marzo del 1973. In quell’anno esce, postumo, La fotografia(1), volume nel quale Mulas con estrema chiarezza e dovizia di particolari racconta il suo lavoro, mai dato per scontato né tantomeno ritenuto acquisito una volta per tutte. Un contributo fondamentale e insostituibile per comprendere il suo approccio, il suo pensiero: una sorta di “messa a fuoco” di un percorso breve ma intenso durante il quale il fotografo consolida le idee da lui ritenute cruciali senza però rinunciare a sperimentare, mettersi in gioco e cambiare, se necessario, posizione, punto di vista. E allora, entriamo nel cuore della poetica dell’artista guidati dagli spunti offerti dal libro appena citato e dalla visita alla mostra Ugo Mulas. L’operazione fotografica, con circa trecento fotografie (trenta delle quali inedite), in corso (fino al 6 agosto) alle Stanze della fotografia, il nuovo spazio espositivo inaugurato il 28 marzo nelle sale dell’ex convitto della Fondazione Giorgio Cini sull’isola di San Giorgio Maggiore a Venezia(2).

Cominciamo dalle Verifiche, una serie di esperimenti fotografici avviata dall’autore nel 1970. Che cosa riguarda? Qual è il soggetto? La fotografia in quanto tale, come «cartina di tornasole di se stessa, processo mentale che riflette sul proprio fare»(3). Un’esplorazione sui suoi componenti costitutivi, sugli attrezzi del mestiere: «Che cos’è la superficie sensibile? Che cosa significa usare il teleobiettivo o un grandangolo? Perché un certo formato? Perché ingrandire? Che legame corre tra una foto e la sua didascalia?»(4). Nella seconda del ciclo, L’operazione fotografica (che dà il titolo all’esposizione veneta), dedicata a Lee Friedlander (1934), fonte di ispirazione, con i suoi giochi di ombre, per Mulas, l’attenzione è sulla macchina, l’unico elemento riconoscibile. In questa immagine allo specchio il volto (di Mulas), coperto dalla fotocamera, non è distinguibile. È una sagoma nera che occupa gran parte dello spazio visivo, occulta la sua identità ma afferma comunque la sua presenza. Un risultato che gli consente di ragionare sul ruolo del fotografo, sul suo senso di responsabilità, sulla sua preoccupazione di esserci, di partecipare, di lasciare traccia di sé, anche in forma celata. Sull’impossibilità di vedersi mentre vede. Con le Verifiche, Mulas torna ai fondamenti di una disciplina che pratica da vent’anni, alla quale si è avvicinato per caso. Un’occasione di confronto, una ricognizione teorica di una serie che si apre con un tributo a Joseph Nicéphore Niépce (1765-1833), l’inventore della fotografia, dove protagonista è una pellicola sviluppata senza alcuna immagine, e che si chiude con una testimonianza in onore di Marcel Duchamp, l’irriverente innovatore, il personaggio anticonvenzionale. Anche per l’atto finale Mulas propone una pellicola, coperta, però, da un vetro spezzato. Diretto è il rimando al Grande vetro di Duchamp (1915-1923) e ai suoi ready-made e quindi agli oggetti di utilizzo quotidiano e banali che, ricollocati in contesti diversi, assumono un valore estetico.


L’operazione fotografica. Autoritratto per Lee Friedlander (1971), dalla serie Verifiche (1970-1972).


Marcel Duchamp, New York 1965-1967.