GLI INIZI E IL DEFINIRSI
DI UNA PERSONALITÀ

In un brano del suo racconto St. Agnes of Intercession (1849-1850), Dante Gabriel Rossetti descrive il clima della sua infanzia, quando suo padre, un italiano esule carbonaro, nelle sere d’inverno londinesi intratteneva i figli cantando vecchie canzoni e le grandi melodie che esaltavano i mutamenti avvenuti nel mondo dal 1789.

«Io solevo starmene seduto sul tappeto e guardavo tra le sue ginocchia il fuoco… e il fuoco e il mio cuore ardevano insieme, mentre prendevo carta e matita e tentavo in modo infantile di fissare le visioni che sorgevano in me. Poiché la mia speranza, fin da allora, era di diventare pittore».

Il fanciullo dalla fervida immaginazione cresce in una famiglia in cui l’amore per la poesia e i sogni di gloria artistica sono contrappuntati da ristrettezze economiche, necessità di esercitare professioni subordinate.

Stanche figure di esuli bussano alla porta di casa Rossetti in Charlotte Street a volte rafforzando il segnale col misterioso cenno massonico e, accolte quasi unici ospiti, palpitano per un’Italia lontana, che agli occhi dei ragazzi appare mitica.

Gabriel Charles Dante Rossetti è il secondo di quattro figli, in una famiglia che conduce vita ritirata, fuori dalle convenzioni della “middle class” vittoriana: il padre Gabriele (Vasto in Abruzzo 1783, Londra 1854) letterato velleitario e misticheggiante, dantista in cerca di interpretazioni esoteriche, con un passato di avventure politiche e fughe rocambolesche, sbarca il lunario insegnando e scrivendo; la madre Francesca Polidori, anch’essa di famiglia di letterati italiani – il fratello Guglielmo, medico di Byron, si è ucciso per debiti di gioco nel 1821 – è una donna forte, ricca di ambizioni intellettuali, animata da una religiosità molto attiva in ambito anglo-cattolico. I figli, esclusa Maria che diventerà suora, dedicano la loro vita alla letteratura e all’arte; William Michael sarà critico e biografo, ombra e custode di Dante Gabriel, e autentica poetessa è Christina. «Tu eri un poeta istintivo», dirà di lei Virginia Woolf, «e, come tutti gli istintivi, avevi un senso acuto della bellezza visiva di questo mondo – il tuo occhio infatti osservava con una sensuale intensità preraffaellita, che doveva molto sorprendere l’anglo-cattolica Christina. Ma forse alla tua religiosità si deve la fissità e la tristezza della tua musa… la pressione di una fede tremenda cinge e rende compatte le tue piccole canzoni» (1) .

Se Christina mutila una parte di sé, Dante Gabriel paga le contraddizioni della sua natura con uno stato perenne di spaesamento e di angoscia. Walter Pater, in Appreciations (1889), individua come impulso centrale dell’artista «la estrema suscettibilità nei confronti delle misteriose condizioni della vita di ogni giorno […] per lui la vita è crisi a ogni istante […] egli è uno di quelli che, come direbbe Merimée, si appassionano per la passione»(2).

Non è facile chiarire i nodi di una personalità tanto ricca di fascino e di capacità di mediazione culturale dotata di indiscussa autorità presso i contemporanei, eppure così fragile e votata all’autodistruzione, e capire fin dove i suoi squilibri si rivelino fecondi o disgreganti per la sua arte.

Evelyn Waugh nella sua biografia (1928) lo definisce: «un uomo del Sud, sensuale, indolente, riccamente versatile, esiliato nella vita costretta, affannosa, limitante, di una città del Nord; un mistico senza credo, un cattolico senza la disciplina e la consolazione della Chiesa, una vita fra rocce e alti sentieri e, come il sottobosco di una collina meridionale, scura, aromatica, impenetrabile»(3).

A improvvise accensioni, a momenti di attività esplosiva e rabbiosa si alternano laghi di inerzia – la “belle inertie”, cara a tanti da Baudelaire a Moreau – che a volte gli consentono di cogliere il senso segreto della poesia, a volte segnano il sopravvento di un’apatia analoga a quella descritta da Keats nella sua Ode on Indolence (1819), e ritenuta da John Ruskin peccato fatale per la sua arte. Un’arte il cui timbro è determinato sempre da uno stato di trance creativa che mescola, come in sogno, elementi sensuali e spirituali; quasi un’esplorazione dell’inconscio, di sottili stati d’animo fra sonno e veglia.


L’adolescenza di Maria Vergine (1849), particolare; Londra, Tate.


Rosa triplex (1867), particolare; Londra, Tate.


Ritratto della madre e della sorella Christina (1877); Londra, National Portrait Gallery.


Rossetti si è formato sulle incisioni che, dai nazareni a Lasinio, rimandano a un’immagine dell’arte primitiva filtrata attraverso un purismo di gusto ottocentesco.

Museo immaginario più che reale, basato su libri, riproduzioni, calchi. Motivi iconografici dall’arte italiana sono assunti in modi elusivi e manipolatori, non soltanto nel periodo preraffaellita, ma anche quando l’artista ricalca più da vicino la linea botticelliana, adotta cromatismi tizianeschi, moduli mantegneschi, gigantismi michelangioleschi, scompaginamenti manieristici. Non riusciremo mai a individuare nella sua opera una trascrizione seppure lontanamente letterale dei modelli, il suo legame con l’arte italiana assume sempre toni legati al particolare timbro della sua personalità. Inizialmente incentrata su una spiccata attenzione al dato di natura e sulla predilezione per soggetti storici e arcaizzanti, la “Confraternita dei preraffaelliti”, fondata nel 1848, presto dimostra di essere un’esperienza composita, costituita dall’apporto in effetti molto differenziato dei tre protagonisti – Dante Gabriel Rossetti, William Holman Hunt e John Everett Millais – : ragazzi intorno ai vent’anni, associatisi in nome di una generica anche se imperiosa volontà di ribellione, dominati dall’ansia di uscire dalla tirannia dell’esempio accademico, dall’uso sporco del colore nella pittura ufficiale. Il nome esprime ovviamente il rifiuto di tutta quell’arte precedente che in favore della bellezza ha tradito la verità, e indica una consapevole emulazione della pittura primitiva, l’apertura verso un’arte che ha reinventato un mondo denso di riferimenti non solo storici, ma anche emotivi e di clima. L’attenzione a una ricca tradizione di arte sacra, anche attraverso opere letterarie che rivelano i misteri dell’iconografia cristiana, all’inizio aiuta gli artisti a riscoprire una visione idealizzata di epoche remote, che si ritengono dotate di genuina pietà, espressione di un’aura spirituale perduta in un mondo secolarizzato, votato all’industrializzazione.

Gli elementi arcaizzanti in realtà rimangono a lungo importanti nel solo Rossetti, anche se è sulle due polarità di naturalismo e primitivismo che si gioca, all’inizio, l’avventura preraffaellita. Dante Gabriel, dotato di una riserva di originalità, di una energia fantastica, di una complessità culturale che lo pone al di sopra degli altri, fin dall’epoca della Confraternita dimostra di essere un leader – cosa contestatagli sempre da Hunt, convinto che l’amico non sia un vero preraffaellita.

Del resto, la veridicità di tale affermazione viene riconosciuta dallo stesso Rossetti, quando a distanza di venti anni afferma essere stata la “camaraderie”, più che una vera unità di intenti, ad aver associato il suo nome a quelli di Hunt e Millais al tempo della loro giovinezza.

Alcuni suoi disegni di soggetto medievale, appartenenti alla fase iniziale del preraffaellismo, definita «gotica» o «hard edge» per una resa verticale e un po’ rigida dell’elemento grafico, ci rimandano a un gusto di stampo nazareno, seppure nutrito di originali succhi stilnovistici, da lui abbandonati soltanto con la morte (citiamo il disegno Il primo anniversario della morte di Beatrice del 1849). Ma se il suo primo olio L’adolescenza di Maria Vergine (1849) viene definito da Holman Hunt «most Overbeckian in manner» (alla maniera più overbeckiana; N.d.r.) ed è realizzato in “early christian style” (stile paleocristiano; N.d.r.), l’opera immediatamente successiva Ecce ancilla Domini (1850) risulta un’audace composizione bianca pre-whistleriana, connotata da una sorta di simbolismo sensuale e melanconico.

Nelle opere di soggetto dantesco, che timbrano in modo determinante la sua prima stagione, un pathos straniato si traveste in forme romanze, poiché Rossetti è un poeta, e non è tanto nel modo di risolvere i problemi formali che risiede la sua originalità, ma nella singolarità del suo mondo, poetico in tutte le accezioni del termine. L’essere poeta è per lui sinonimo di ricchezza, ma al contempo elemento lacerante per lo squilibrio di una duplice tensione creativa, e anche se ha deciso fin dai primi anni di concentrare le sue energie prevalentemente sulla pittura, la poesia rimane sonda fondamentale che gli consente di penetrare nell’interiorità, dove trovano risonanza anche le esperienze pittoriche. Così si mescolano i due mondi: fin dall’inizio degli anni Cinquanta egli compone una serie di “Sonnets for Pictures”, nei quali dimostra come la contemplazione artistica sia apertura fra realtà e trascendenza, e contemporaneamente schizza soggetti di artisti al lavoro: Fra Angelico (1853), Giorgione (1853) e più complesso e indagato in diverse redazioni Giotto dipinge il ritratto di Dante (dal 1852).


Il primo anniversario della morte di Beatrice (1849); Birmingham, Birmingham Museum and Art Gallery.


L’adolescenza di Maria Vergine (1849); Londra, Tate.


Ecce ancilla Domini (1850); Londra, Tate.

Studio per Giotto dipinge il ritratto di Dante (1852); Londra, Tate.


Beatrice nega a Dante il saluto (II) (1855); Oxford, Ashmolean Museum.


Il saluto di Beatrice (II) (1859); Ottawa, National Gallery of Canada.

L’incontro con Dante è elemento fondamentale della sua biografia intellettuale e la poesia dantesca, insieme a quella degli “early italian poets” da lui tradotti dal 1845 al 1849, diviene suggestione dominante il suo primitivismo. In particolare il clima di emozioni, di sogni, di saluti mancati, tipico della Vita nuova, trova nelle opere di quegli anni una trascrizione singolarmente felice. L’artista vi individua caratteristiche a lui congeniali, quali «il senso di abbandono e il geloso rifugio nella memoria» e, fin dalla traduzione, accentua momenti di palpitante apprensione, venature erotiche, estranee al clima dantesco, puntualmente rispecchiate nell’opera pittorica. All’idea della “donna angelicata” si sovrappone, sia pure in modo discreto, l’idea dell’amore romantico con la sua carica di passionalità, qui peraltro composta in un clima raccolto ed elegiaco. Un clima che coincide con la giovinezza dell’artista, con l’intensità di un’esperienza che vede irrompere “l’intelletto d’amore” nel suo mondo e che non si ripeterà più. Nascono piccoli capolavori, il cui rapporto con il testo è continuamente richiamato da citazioni che penetrano nella pagina o la circondano fin nella cornice e le immagini sono realizzate con un’ambigua sottigliezza, fra il sogno e il teatro, in una rappresentazione i cui protagonisti sono sì Dante e Beatrice, ma anche Rossetti e la sua innamorata, Elizabeth Siddal.

Gli acquerelli danteschi della prima metà degli anni Cinquanta sono opere di piccolo formato, quasi fossero gioielli, dai colori che ricordano gli smalti medievali e i codici miniati, in grado di creare atmosfere intensamente poetiche, come Beatrice nega a Dante il saluto (1851) soggetto ripreso nel 1855 ispirato alla Vita nuova, Giotto dipinge il ritratto di Dante (1852), che celebra la scoperta sul muro della cappella del Bargello a Firenze di un presunto ritratto di Dante attribuito a Giotto, e Il primo anniversario della morte di Beatrice (1853) che riprende il tema del disegno del 1849 e ne dilata la suggestione in un contrasto simbolico fra l’interno in ombra, dominato dalle quattro grandi figure, e l’esterno fortemente illuminato. Una struttura simile a una scena teatrale oppone una profusione di oggetti, anch’essi ricchi di significati simbolici, alla concentrazione sospesa dei visitatori. Alle opere ispirate alla Vita nuova si aggiungono quelle dedicate alla Divina commedia come Paolo e Francesca in diverse versioni.

Verso la metà degli anni Cinquanta, Rossetti entra in contatto con due giovani ex studenti dell’Exeter College di Oxford, con vocazione religiosa ed estetica insieme, cultori anch’essi di primitivismo, che hanno organizzato una loro informale confraternita: William Morris ed Edward Burne-Jones. Mentre il primo decide di diventare architetto, l’altro diventerà pittore. Un pittore che gli deve molto e cui toccherà in sorte di tradurre, in rara eleganza di forme, molti dei fantasmi della sua mente.

Nasce fra i tre un’amicizia intensa ed entusiastica, attraverso la quale si configura quella che viene definita la seconda fase del preraffaellismo: il primitivismo di Rossetti si salda alla sensibilità sognante di Burne-Jones, alla fantasia decorativa di Morris, in una sintesi che anticipa il clima estetico degli anni Sessanta.

Al gruppo si aggrega il giovanissimo Algernon Swinburne, già connotato da una divorante ansia poetica, i cui versi presto riflettono le suggestioni della pittura dell’amico, mentre la sua testa fulva compare nelle rappresentazioni rossettiane di figure assorte in rituali cavallereschi. Oxford diventa il simbolo delle loro nostalgie primitive: nel distacco dal mondo, in quello che Walter Pater, nella sua Conclusion to the Renaissance (1873), definirà come espressione dell’individualità nel suo isolamento cui non giunge più alcuna voce dalla realtà, «ciascuno spirito custodendo come un prigioniero solitario il sogno di un mondo»(4), si può ritrovare una delle radici dell’“art for art’s sake” (o l’arte per l’arte). Libro chiave di tale alleanza è The Death of King Arthur di Thomas Malory, compilazione tardo-quattrocentesca della materia del “Ciclo bretone”, che nutre un altro dei sogni nei quali s’incarna la fantasia rossettiana – l’amore di Lancillotto e Ginevra – e fornisce i temi a una serie di disegni e acquerelli, che rappresentano uno dei punti più alti di tutto il Medioevo romantico.


Il primo anniversario della morte di Beatrice (1853); Oxford, Ashmolean Museum. Nelle opere che vedono protagonisti Dante e Beatrice, Rossetti si ispira chiaramente alla Vita nuova. L’artista inglese fu un cultore – nonché un traduttore – di Dante e dei poeti primitivi italiani, amati al modo stesso degli artisti primitivi, cioè i medievali e i quattrocentisti, che anche i suoi compagni della Confraternita preraffaellita ammiravano, rifiutando invece Raffaello e l’arte del Cinquecento.


Paolo e Francesca (1855); Londra, Tate. In questo acquerello Rossetti illustra due momenti canonici della narrazione dantesca che rievoca la storia di Paolo Malatesta e Francesca da Rimini, i due cognati travolti dalla passione e morti assassinati per mano del marito di lei: sulla sinistra i due amanti leggono il libro «galeotto» all’origine del loro colpevole amore; sulla destra, «quali colombe, dal disio chiamate» e inseparabili («questi, che mai da me non fia diviso», dice Francesca parlando di Paolo) vanno incontro al sommo poeta.


Ritratto di Algernon Charles Swinburne (1861); Cambridge, Fitzwilliam Museum.


Un nucleo di opere che colpisce, sia per la novità del linguaggio, sia per il taglio surreale impresso da Rossetti alle rappresentazioni. Mondo stipato in piccole scatole lignee ingombre di oggetti indecifrabili, dove amori estenuati e profonde malinconie guidano verso «la stretta camera dell’immaginazione individuale»; Medioevo sintetico, niellato di rosso e di vecchio oro, con la fissità delle visioni medianiche. Come se attraverso le linee fini e fitte dei disegni, quasi tracciate per un’acquaforte, o l’estrema luminosità alternata all’estrema opacità degli acquerelli, l’artista volesse indicare, per via analogica, l’intensità di quella vita misteriosa. Con una tecnica che sembra recuperare la resa preraffaellita, quasi fotografica, del particolare, qui applicata nei confronti di una realtà visionaria. Con grafie volte a sottolineare gli elementi più disparati, dai capelli femminili alle venature del legno. Mentre i tagli delle immagini sono arbitrari, gli spazi si articolano su scale diverse e la luce, definita da Ruskin analoga a quella che penetra attraverso le vetrate istoriate, è artificiale, segreta. Lo spazio angusto della camera-prigione nel disegno a penna del Lancillotto nella camera della regina (1857) accentua la compressione del tema erotico nelle due grandi figure centrali e dilata strani sensi di colpa, aggrumati nel nodo alla gola di Ginevra, mentre alle porte battono i cavalieri inseguitori. «Una cosa tormentata e resa contorta dalla passione, come il corpo di Ginevra nell’atto di difendersi dall’accusa di adulterio e l’accento cade su luoghi strani, insoliti, con l’effetto di un grande grido», dirà Pater, riferendosi all’opera poetica di William Morris The Defence of Guenevere and Other Poems (1858), ispirata al disegno rossettiano. La selva di alberi stecchiti che s’intravede dalla piccola finestra volta verso l’esterno ne richiama un’altra, dove gli amanti si imbattono nella paura della morte: la selva di Come s’incontrarono (composizione del 1851 perduta o distrutta e ripresa nel 1860), sorta di gioiello surreale, in cui un’immaginazione medianica sembra annunciare una morte che la realtà non mancherà di confermare.

L’incontro della coppia con un’immagine identica a sé evoca la leggenda medievale del “Doppelgänger”, già echeggiata da Edgar Allan Poe, secondo la quale i doppi sono messaggeri di morte: «Ogni albero era un fantasma / e tutti erano fantasmi desolati, / poiché ciascuno era io o lei», dirà Rossetti in uno dei sonetti di Bosco di salici. Opere che riflettono uno stato crepuscolare della coscienza, mentre l’amore risulta oppresso da forze sconosciute. È il filone visionario della sensibilità di Rossetti, una sorta di stato di morte nella vita, cui l’ha indotto l’esplorazione del mondo dei sogni, unito a una esattezza, nella resa visiva, che fa assumere alle immagini il senso di un agghiacciante distacco.

Negli acquerelli, lontane le superfici trasparenti degli anni precedenti, colori araldici, profondi hanno sostituito i toni più chiari degli acquerelli danteschi: a un primo disegno eseguito in un monocromo bluastro, l’artista sovrappone il colore con un pennello quasi asciutto, ottenendo una superficie granulosa, opaca, in antitesi ad alcune zone rese brillanti dalla stesura di gomme o lacche: come “cloisons” che anticipano tecniche di marca simbolista. La forma, minutamente elaborata in alcuni punti, in altri sembra disintegrarsi: non vi è più nulla di naturale, tutto appare improntato a una pagina di blasone.

Pensiamo a Le nozze di san Giorgio e della principessa Sabra (1857), bellissima composizione che, nel ricordo di miniatori medievali, come l’autore de Livre du coeur d’Amour èpris, cattura e inquieta aprendo enigmatiche finestre mentali, anticipatrici del surreale di Redon. In «quelle camere di palazzo lontane e appartate, ma bizzarre camere in bizzarri palazzi, dove gli angeli s’insinuano attraverso porte scorrevoli, o stanno dietro siepi o fiori», come dirà il pittore James Smetham, «in quelle cappelle dove si svolgono complicati rituali, ispirati a misteriosi tornei» come in In cappella prima della lizza (1857-1864), «il viluppo delle figure fissate nell’abbraccio è circondato da un artigianato fantastico, assiepato in piccoli spazi contrappuntati da finestre, che ora aprono verso la luce, ora chiudono definitivamente verso le profondità insondabili dell’interno».

Rossetti ha guardato anche a William Blake, a quanto in Blake si definisce «il continuo mescolarsi di prodigioso e di quotidiano» e, come dice Roger Fry, la particolare passione che lo costringe a operare si accende «in un trovarobato ricco di curiosità, in mezzo ad oggetti dotati di associazioni particolarmente eccitanti per la sua fantasia, e il più delle volte misteriosi e ingiustificati(5)».


Lancillotto nella camera della regina (1857); Birmingham, Birmingham Museum and Art Gallery.


Come s’incontrarono (1860); Cambridge, Fitzwilliam Museum.


Le nozze di san Giorgio e della principessa Sabra (1857); Londra, Tate.


In cappella prima della lizza (1857-1864); Londra, Tate.


La melodia delle sette torri (1857); Londra, Tate. Il soggetto di quest’opera, un altro dei molti acquerelli di Rossetti, rimane a tutt’oggi sconosciuto. Simile alle miniature di antichi codici manoscritti nell’assetto e nei colori, La melodia delle sette torri è stato forse ispirato da canzoni o racconti medievali. Ma non è da scartare neppure l’ipotesi di un contenuto autobiografico, almeno parziale, come in altre opere dell’artista. Questo perché Elizabeth Siddal, al tempo modella preferita e amante di Rossetti, posò per la dama in rosso seduta al centro della composizione ed è forse alle sue future nozze col pittore che allude un ramo d’arancio posato da un servo sul letto nello sfondo. O forse, data l’atmosfera malinconica della scena, l’allusione è alla pericolosa polmonite che Elizabeth aveva contratto in quel periodo.


Lo studiolo blu (1857); Londra, Tate.

Lo strano è che Rossetti, come rileva ancora Fry, quando si occupa del nodo centrale della storia rischia di rimanere mero illustratore, mentre la sua forma diviene originale ed espressiva quando la sua attenzione si appunta sugli accessori del suo dramma: una curiosità quasi feticistica in grado di far scattare un emozionante congegno poetico. Poiché, pur completamente calato nel mondo della sua immaginazione, paradossalmente, egli è in grado di realizzare le sue opere in modo altrettanto vivido quanto quello del più ortodosso dei preraffaelliti: Holman Hunt. Un’attitudine sua peculiare di renderne la consistenza sensibile, anche quando si riferiscono alla «sfera delle infinite immagini dell’anima».

Un materializzare le attrazioni che, come afferma Pater, gli consente di dar corpo a quegli aspetti delle cose, «pure intrisi di tanta parte dell’anima». E ciò a causa del suo particolare talento di pittore, attraverso il quale può restituire «la solida, compatta sostanza di un mondo nel quale tutto avrebbe potuto essere niente altro che ombra». Altrove figure melanconiche, immerse in una monodica musica mentale, generano piccole macchine fantastiche in cui la mente vaga in un gioco di associazioni a livello inconscio: la musicista de La melodia delle sette torri (1857) o le regine di Lo studiolo blu (1857) sembrano echeggiare i versi ispirati al poeta dal Concerto campestre attribuito a Giorgione: «ora la mano indugia sulla corda del liuto che geme, / i bruni volti cessano di cantare, / resi tristi nell’empito del piacere ». Nella cultura inglese dell’epoca la musica è vista come l’arte che realizza più compiutamente l’ideale estetico e Lo studiolo blu – forse omaggio a Whistler, che lo iniziava allora al collezionismo del blu di Cina – preannunzia l’adesione rossettiana al clima dell’“art for art’s sake”.

Dalla fine del 1856 Morris e Burne-Jones, sedotti dal fascino della personalità di Rossetti, si trasferiscono a Londra, in quello che era stato lo studio suo e di Walter Deverell, a Red Lion Square. Studio bizzarro, pieno di armamentari di antichi cavalieri, di incisioni di Dürer, di mobili «intensamente medievali, tavole e sedie come incubi e succubi»(6), come dirà Burne-Jones, armadi, muri e porte dipinti, anticipazione della decorazione della Red House di Hupton, l’abitazione medievale di Morris e primo passo verso l’idea di tradurre le possibilità decorative del Medioevo nelle arti applicate.

«Dimentica i sei paesi coperti di fumo, / dimentica gli sbuffi di vapore e i colpi di pistone, / dimentica l’estendersi della spaventosa città» scrive, con lucidità premonitrice, William Morris in The Earthly Paradise (1870), testimoniando la sua opposizione all’industrializzazione. È questo lo spirito che anima l’impresa della Morris, Marshall, Faulkner e Co. (1861), in cui un recupero artigianale del Medioevo vede anche la partecipazione attiva di Rossetti. I tre artisti, insieme a Val Prinsep, Spencer Stanhope, Hungerford Pollen, Arthur Hughes, sono a Oxford nel 1857, per la decorazione murale della Union Debating Hall, con soggetti del ciclo arturiano tratti da Malory e Tennyson.

Legate a iconografie medievali e arturiane sono anche le cinque illustrazioni che l’artista esegue per l’edizione Moxon dei Poems di Tennyson, sempre nel 1857, in cui adotta una notevole indipendenza rispetto al testo letterario. Pensiamo al piccolo affollato disegno di Santa Cecilia, «uno strano bacio di morte», come lo ha definito William Michael Rossetti, o al macabro arabesco di La dama di Shalott, o a Re Artù e le regine piangenti, singolare fantasia, che traspone l’originale motivo grafico – una corona di dieci volti identici – in un’attonita cadenza decorativa, che sembra anticipare il mondo di Maeterlinck e gli esiti di certe immobilità simboliste. Un uso decontestualizzato dell’immagine, già apparso qua e là nell’opera rossettiana, che troverà conferma più tardi in Rosa triplex (1867), in cui tre volti identici sembrano collegarsi a successive più radicali astrazioni, quali quelle di Khnopff. È il momento nodale dell’incontro dell’artista con il Medioevo; poi ne rimarrà solo l’eco: finisce l’intensità di un impatto che identifica un’epoca con i propri moti profondi e finisce uno dei momenti più belli della sua arte. Cade una sorta di difesa, entro la quale egli sembra essersi protetto, e così, presto, cadono i precari equilibri all’interno della sua vita.


Santa Cecilia (1856-1857); Birmingham, Birmingham Museum and Art Gallery. Il disegno nacque per accompagnare alcuni versi del Palazzo dell’arte di Alfred Tennyson nell’edizione illustrata dei suoi Poems (1857).


Re Artù e le regine piangenti (1856-1857); Birmingham, Birmingham Museum and Art Gallery.


Rosa triplex (1867); Londra, Tate.


ROSSETTI
ROSSETTI
Maria Teresa Benedetti
Dante Gabriel Rossetti (Londra 1828 - Birchington-on-Sea 1882): poeta romantico,cultore di Dante Alighieri, appassionato di Medioevo e di misteri, simbolistaestetizzante, è il più perfetto rappresentante dei preraffaelliti. Il gruppo,che comprendeva anche Millais, Hunt, Brown, caratterizzò la pittura inglese diepoca vittoriana con le sue composizioni antiaccademiche ispirate al Quattrocentoitaliano, da loro considerato il momento di massima purezza e genuinitàespressiva dell’arte europea. Rossetti, figlio di un esule italiano, a vent’annitradusse in inglese la Vita nuova di Dante e fu tra i fondatori della citata confraternita.Aveva iniziato a dipingere da adolescente e prestissimo si innamorò esposò una sua modella, Elizabeth Siddal, che rimase per sempre il suo puntodi riferimento. La moglie fu a lungo soggetta a una dipendenza dal laudano, emorì per overdose nel 1862. Per l’artista seguì una china di dipendenze, depressione,malattie e squilibri mentali. La sua produzione è caratterizzata dauna potente capacità evocativa di mondi simbolici idealizzati, densi di sensualitàe mistero, popolati di modelle identiche alla sua Elizabeth. A Rossetti e aSiddal è dedicata una grande mostra ora a Londra.