La pagina nera 

IL PALAZZO È SENZA PARI
MA I RESTAURI SONO AVARI

Fabio Isman

Chiamato “Michelangelo dei morti” per le tante sculture funebri sparse in diversi luoghi del nostro paese, il piemontese Giuseppe Maria Sartorio (solo omonimo del più noto Giulio Aristide) fece costruire nel 1896 a Roma, dove si trasferì, un villino in via tiburtina. Sua dimora e studio, da molto tempo è in completo abbandono. non merita attenzione?

In via Tiburtina 228 a Roma, quasi di fronte al cimitero del Verano, dal 1896 c’è una palazzina che, per molti versi, non ha eguali al mondo; però da decenni, invano, invoca un restauro, e giace in condizioni pietose. Era lo studio, la casa e il luogo d’insegnamento (fino a quaranta selezionati allievi) di Giuseppe Maria Sartorio, scultore soltanto omonimo del più famoso Giulio Aristide, autore, tra molto altro, del fregio nell’aula di Montecitorio. Il nostro, un tempo celebre e ormai dimenticato, era un piemontese, di un villaggio della Valsesia oggi di centonovanta anime, provincia di Vercelli, e figlio di contadini. Studia all’Accademia albertina di Torino e in quella di San Luca a Roma.

A ventotto anni, nel 1882, ha già uno studio a Torino, e vince il concorso per un monumento a Garibaldi, a Cuneo. Da lì, spicca il volo: in Sardegna altre grandi statue di Vittorio Emanuele II (la inaugurano il re e la regina Margherita: anzi, per l’occasione nasce la “Cavalcata sarda”, tremila figuranti e seicento cavalli, che esiste ancora), Umberto I, Cristoforo Colombo e Quintino Sella sono in piazza d’Italia a Sassari, a Cagliari, a Iglesias. A un certo punto, l’isola diventa la sua seconda patria: apre laboratori nelle due maggiori città. Riempie almeno una dozzina di cimiteri sardi con sculture funebri di ottima qualità: solo a Iglesias ce ne sono sessantacinque; abbastanza eccezionali quelle che eternano i bambini, spesso assai romantiche e perfino un po’ strappalacrime. Mescola Liberty, simbolismo e realismo; per ottenere maggiore verità, veste i lavoranti con gli abiti del defunto, trasformandoli in modelli; così diventa il “Michelangelo dei morti”. Esaudiva richieste un po’ da tutta la penisola: Genova; il Verano a Roma; chiese sarde, tra cui, in particolare, quella di Ozieri (Sassari); il camposanto del paese natale. Un suo Gesù nei Getsemani è anche sulla Scala santa di San Giovanni in Laterano.

Si trasferisce a Roma, e fa la spola con l’isola. La palazzina, allora in piena campagna, la fa edificare da Efisio Garau. Due piani; arcate a quello terreno; una pianta a T; sul retro, un grande giardino. Stile eclettico; in facciata, la scritta «Ars»; bifore architravate, e una loggetta a quattro archi su colonnine corinzie; grande profusione di stucchi e medaglioni; su due finestre, i busti di Michelangelo e di Leonardo. Il “clou” è tuttavia una bifora al secondo piano, ottusa da una terracotta colorata: lui che guarda sotto con un binocolo, indossando il classico copricapo sardo, “sa berritta”; la moglie negli abiti della festa e la domestica in quelli tipici ciociari.

E divampa la leggenda: stavano osservando un funerale che passava nella strada sottostante diretto al cimitero, e ridevano: per questo, il buon Dio li ha impietriti. Ma, ovviamente, non c’è nulla di vero: il 20 settembre 1922, tornando a Civitavecchia da Olbia, che fino al 1939 si chiamava Terranova Pausania, lui non sbarca dal piroscafo Tocra. Ricerche tutte vane. Il suicidio, sembra impossibile. Un malore? Poiché era abbastanza ricco, una rapina finita male (e infatti il borsellino non era stato trovato tra i suoi oggetti)? Non si viene a capo di nulla: dopo vent’anni, la sentenza di morte presunta. Non rimane nemmeno una tomba su cui pregare per il “Michelangelo dei morti”, che, nei cimiteri sardi, tante ne ha onorate con la sua arte.

Resta il villino, ma è assai a malpartito. Da decenni giace in infime condizioni. Già nel 2015, quando ha conseguito la laurea magistrale alla Sapienza di Roma, l’architetto Deborah Porfido, che ormai lavora in uno studio professionale di Zurigo, ne aveva immaginato tutti gli indispensabili restauri. La facciata è coperta di erbacce. Il giardino ridotto quasi a una larva. Più di qualche elemento architettonico è pericolante.

La terracotta (con Sartorio, la moglie e la domestica) che sbarra la finestra, da anni coperta con un velo, perché almeno si preservi. Al pianterreno, si sono insediati una agenzia immobiliare e un marmista: il cimitero è proprio di fronte. Quello che è chiamato anche il “palazzetto decorato” ha urgente bisogno di chi provveda a lui, e ai suoi decori.

Artista minore? Lo sono soprattutto quelli che hanno avuto meno fortuna nella vita, poche occasioni per farsi conoscere, scriveva trent’anni fa “La Stampa”, in un articolo dedicato a Sartorio. Oggi, del “Michelangelo dei morti” nessuno più si ricorda; molti dei suoi piccoli capolavori, sparsi in tanti camposanti italiani, hanno bisogno di più che una semplice spolveratura: di interventi radicali e concreti; il suo villino è il simbolo dell’incuria assoluta che è riservata a questo artista. E forse, non è proprio giusto.


La palazzina fatta edificare nel 1896 da Giuseppe Maria Sartorio, a Roma, in via Tiburtina, quasi di fronte al cimitero del Verano, da Efisio Garau, da decenni invoca un restauro.
La finestra, protetta da un velo, con le sculture in terracotta raffiguranti Sartorio, la moglie e la domestica.


Al pianterreno della palazzina di Sartorio, si sono insediati un’agenzia immobiliare e un marmista.


Un particolare della facciata, visibilmente in sfacelo.


Ancora la facciata, devastata, con stucchi, medaglioni e i busti, sulle due finestre, di Michelangelo e Leonardo.


Chiamato anche il “Palazzetto Decorato”, ha più di qualche elemento architettonico pericolante

ART E DOSSIER N. 409
ART E DOSSIER N. 409
MAGGIO 2023
In questo numero: STORIE A STRISCE: Il papà di Pimpa e Cipputi di Sergio Rossi; BLOW UP: Newton, l’elegante provocatore Erwitt, l’ironico osservatore di Giovanna Ferri; GRANDI MOSTRE. 1 - Pistoletto a Roma - Nella bellezza tutto si rigenera di Ludovico Pratesi ; GRANDI MOSTRE. 2 - Lucio Fontana a Firenze - Contemplando l’infinito di Lauretta Colonnelli...