ZOMBIE, CORTEI APOCALITTICI
E FIGURE DELLA MORTE

All’origine iconografica delle danze macabre e dei Trionfi della Morte c’è la presenza terrificante e grottesca dei “treni” apocalittici, dove zombie vagano nell’immaginazione e nella cultura europea del Medioevo.

Questi maledetti senza domani vivono nella bruttezza perenne. Portano in giro le loro anime in pena nell’eternità del supplizio(2). La famiglia di Hölle König (re dell’inferno) – traslato in Helleking o Helething, Herlequin o Harlequin (Arlecchino) – è una carovana di morti viventi girovaghi, personaggi demoniaci, nani, etiopi, che mette in azione una danza macabra, cruenta e rumorosa.

Il nome di Helething parrebbe di origine germanica a partire dal riferimento all’esercito (in tedesco “Heer”) e all’assemblea dei guerrieri liberi (“Thing”). Dietro questa potente e terribile immagine si scorgono retaggi di culti e credenze di matrice pagana, in particolare di tipo celto-germanico.

Hellequin e la sua “masnada” sono descritti anche dal monaco anglo-francese Orderico Vitale (1075-1142), che riporta la testimonianza del prete normanno Walchelin, il quale avrebbe incontrato il corteo la notte del 1° gennaio 1091, mentre ritornava da una visita a un malato della sua parrocchia.

Tracce di questa famiglia si sono conservate fino al nostro tempo, nei cortei carnevaleschi(3) e nella festa di Halloween. Le origini occidentali della danza macabra forse sono debitrici dell’iconografia orientale, dove scheletri e demoni vengono raffigurati danzanti con persone già dal X secolo(4).

Nei “treni” apocalittici(5) la morte è intesa come “monstrum”, un demone che si aggira nella dimensione allucinata del quotidiano. L’immaginario di questa proiezione coinvolge tutte le classi sociali del Medioevo e viene traslato anche nella recita pubblica, così che la popolazione esorcizzi la paura della scomparsa e dell’imminenza della morte, nelle piazze e nelle strade cittadine, per inscenare una processione non dimentica delle proprie ossessioni provenienti dal teatro del male.

Harlequin, il “monstrum” diabolico terrificante, conduce la sua famiglia in una danza tanatologica, portando a galla l’ossessione della coscienza e del limite umano(6). In Occidente, nel XII secolo, coppie danzanti, formate da un morto e da un vivente, sono presenti in opere poetiche in forma di poemetto, come, per esempio, Les vers de la mort(7), composto dal monaco cistercense Hélinard de Froidmont tra il 1194 e il 1197.

Adi è un poema arabo scritto attorno al 580, una fonte primaria da cui la cultura occidentale può aver tratto il motto che i cadaveri o gli scheletri dicono ai vivi: «Noi fummo ciò che voi siete e voi sarete ciò che noi siamo»(8). Nelle danze macabre ogni individuo incontra il proprio cadavere. In questo incontro con lo specchio della morte, spesso, il senso ironico espresso dallo scheletro sorridente si contrappone al viso melanconico del vivente, costretto ad abbandonare le persone e le cose care.

L’iconografia della danza macabra intende definire il valore egalitario della morte, dove ogni vivente riceve dal suo scheletro – inteso come suo “doppio” – un ammonimento “ad personam”. Le traduzioni visuali delle danze macabre e dei Trionfi della Morte erano mutuate anche dalle prediche che dispiegavano un’omiletica esemplata di ripugnante realismo e di inquietanti umori cimiteriali. Il tema della morte veniva snocciolato a un uditorio convocato vicino a una fossa comune o a un cimitero. La paura di morire è fortemente associata visivamente a immagini della bruttezza estetica.


Giacomo Busca detto il Borlone, Trionfo della Morte e danza macabra (1484-1485), particolari; Clusone (Bergamo), oratorio dei Disciplini.


Giacomo Busca detto il Borlone, Trionfo della Morte e danza macabra (1484-1485), particolari; Clusone (Bergamo), oratorio dei Disciplini.

Anonimo, Trionfo della Morte (1446 circa); Palermo, Galleria interdisciplinare regionale della Sicilia - palazzo Abatellis.

Buonamico Buffalmacco, Trionfo della Morte (1336-1341); Pisa, Camposanto.

L’affresco presente sulla facciata dell’oratorio dei Disciplini a Clusone (Bergamo), realizzato da Giacomo Busca detto il Borlone tra il 1484 e il 1485, è diviso in tre fasce ed esprime visivamente una predica di stampo escatologico. Rende eloquente la potenza evocativa di figure provenienti dall’immaginario collettivo. È paragonabile a una macchina scenica da teatro medievale, che ha la funzione, in questo caso, di creare un’ammonizione solenne, una visione esortativa in grado di indurre gli spettatori a controllare eventuali eccessi. Nel sarcofago dell’affresco cinque serpenti, due rospi e uno scorpione sono i depositari della decomposizione del capo della Chiesa e dell’imperatore avvolti nei loro abiti da parata. I più abbienti cercano di salvarsi per mezzo della corruzione, mentre la Morte li ripaga con l’impietosa indifferenza che corrompe le loro vite. Dentro, la speranza nell’oltretomba e il triregno papale sono attraversati e corrosi dalla promessa mantenuta della Morte, che esala i suoi strali simili a miasmi ammorbanti. Gli animali repellenti, che fungono da guardiani della putrefazione, simboleggiano l’azione del male, del “Separatore”, di colui che divide l’anima dal corpo. Nella tradizione iconografica cristiana il serpente è un simbolo di Satana, del tentatore, di conseguenza della morte e corruzione. Il rospo è inteso, nei bestiari moralizzati medievali, come attributo della Morte e della Superbia. Lo scorpione, spesso rappresentato sui labari o sulle bandiere tenute dai giudei nelle scene della crocifissione, simboleggia il tradimento e il paganesimo. Non c’è salvezza dunque. Solo trapela una risoluzione di stampo ironico nella fascia mediana dell’affresco: la danza macabra congiunge i sorrisi degli scheletri con le facce preoccupate e tese di tutti i rappresentanti dell’umanità. Gli scheletri spolpati e i corpi delle persone nel corteo sono due facce di una stessa medaglia, espressioni del profondo binomio vita/ morte. Gli scheletri danzanti e il Trionfo della Morte sono stati affrescati per stimolare negli spettatori la terribile apparizione di loro stessi nell’aspetto di cadaveri o per umiliare coloro che sono dimentichi di tutti i precetti cristiani della condizione umana. Un riuscito esempio di grande bruttezza è stato realizzato dal Maestro del Reno Superiore, che ha descritto Gli amanti trapassati (XVI secolo) come se si fossero appena rianimati per il ritorno dei morti viventi. La femmina ha un batrace attaccato al pube, insetti e vermi che si cibano della sua pelle e penetrano nella carne, mentre il maschio è percorso da un serpente che, dopo essere entrato nella cassa toracica, sta uscendo all’altezza della clavicola destra.

La Morte brutta e spaventevole – raffigurata a dorso di un cavallo scheletrico, nell’affresco realizzato su una facciata di palazzo Sclafani a Palermo da un autore ignoto attorno al 1446, ora conservato nel museo di palazzo Abatellis – scocca frecce che uccidono personaggi di tutte le fasce sociali. Alcuni cavalieri, posti in prossimità della fontana, simbolo di vita e di giovinezza, e le dame che danzano (o compiono gesti apotropaici toccandosi le dita) accanto ai musici non sono stati colpiti dai dardi. La Morte immaginata da Buffalmacco nell’affresco del Camposanto monumentale di Pisa è una donna anziana dotata di ali di pipistrello: ha appena ucciso con una falce messoria un gruppo di persone, dalle cui bocche escono animule, che vengono afferrate da un angelo e da un diavolo, anch’esso con ali di pipistrello. Nel cielo è in corso una lotta serrata tra angeli e demoni in volo, che si contendono le anime dei reprobi e degli eletti, per trasportarli o all’inferno o al paradiso. Il volto scheletrico della Morte di Subiaco è in competizione per bruttezza repulsiva con quello dipinto da Giovanni di Paolo nell’antifonario conservato nella Biblioteca degli Intronati a Siena. Una delle versioni più terrificanti della morte causata da malattia infettiva di origine batterica è stata dipinta da Arnold Böcklin nel 1898, opera nata a seguito di una terribile epidemia di peste bubbonica che colpì Bombay, dove gran parte della popolazione era stata falcidiata dalla pandemia. Nel dipinto conservato al Kunstmuseum di Basilea, la Morte è cieca, con le orbite vuote, e non fa distinzioni, massacra chiunque incroci il suo cammino. Uccide con la falce messoria, con un movimento simile a quello compiuto dai contadini per mietere il grano. Cavalca un drago, che ha un collo stretto e lungo, dalle cui fauci vengono esalati miasmi ammorbanti biancastri e vaporosi. Era passato molto tempo da quando un’epidemia di peste bubbonica aveva devastato l’Europa, ma diversi secoli dopo la memoria collettiva non aveva dimenticato il dolore. Böcklin aveva sofferto di tifo, che lo aveva quasi ucciso. Il colera aveva ucciso la metà dei dodici figli nati dalla moglie romana Angela Pascucci. L’artista svizzero era ossessionato dalla figura della morte, che ritrasse in varie declinazioni nel corso della sua carriera.


Anonimo, Trionfo della Morte (seconda metà del XIV secolo), particolare; Subiaco (Roma), Sacro speco.


Arnold Böcklin, Peste (1898); Basilea, Kunstmuseum.


Giovanni di Paolo, Allegoria della peste (1437 circa); Berlino, Staatliche Museen, Kunstgewerbemuseum.

In Il cavaliere, la Morte e il diavolo (1513), Albrecht Dürer immagina l’essere che proviene dall’oltretomba come fosse uno zombie dalla lunga barba bianca scomposta: tra i suoi capelli e la corona che porta in capo sono aggrovigliate serpi, che si avvolgono anche attorno al suo collo. La presenza scheletrica è paludata da una tunica e tiene nella mano destra una clessidra, mostrandola all’uomo che fiero e incurante dei pericoli pare proseguire il suo percorso a dorso del destriero. La paura mangia l’anima ed è forse più brutta della morte e del diavolo. Per questa ragione il cavaliere cerca di non dare peso alle avverse presenze che incontra sul suo cammino. Paventa la sua indifferenza rispetto a ogni possibilità di spavento, allo scorrere del tempo, alle proiezioni mostruose della sua immaginazione. Guarda avanti, con gli occhi fissi verso il superamento di ogni ostacolo. Il cavaliere tenta di lasciarsi alle spalle le sue fantasie paurose legate alle presenze demoniache, al signore del caos che impugna un’alabarda in modo minaccioso, agli aspetti malefici che si annidano nell’umana esistenza e che possono portare chiunque verso la dannazione.

Qui il diavolo ha un aspetto al contempo mostruoso e buffo, con le sembianze risultate dall’assemblaggio di parti animali, come fosse derivato da un retaggio delle figure zoomorfe immaginate nel Medioevo e presenti in innumerevoli declinazioni nelle chiese romaniche e gotiche, o dai fantasiosi “marginalia” realizzati da monaci che trovavano attraenti le fantasiose declinazioni dei mostri: ha corna ricurve da ariete, escrescenze appuntite e un lungo artiglio arcuato sulla testa, zampe e zoccoli caprini, ali e parti del corpo vegetali o di provenienza marina. Secondo la visione pre-pancalistica(9) di Agostino, anche i mostri, i coacervi bestiali e le persone deformi sono belli perché sono pur sempre essi stessi, nonostante li percepiamo come manifestazioni della bruttezza, creature e figli di Dio(10). Addirittura, nel V secolo, lo Pseudo Dionigi Areopagita scrive che «Dio si è attribuito la forma di un verme»(11).

In un periodo del mondo cristiano in cui viene messa in atto una redenzione del mostro e del brutto, anche e soprattutto attraverso la moralizzazione delle figure bestiali composite, nei secoli medievali gli artisti disseminano questa possibilità interpretativa del mondo attraverso innumerevoli figure animalesche e mostruose nei capitelli, nei cori, nelle facciate, e anche nelle parti architettoniche delle cattedrali non facilmente visibili perché poste in alto o in luoghi non accessibili al popolo.

Ma ancora nel Rinascimento umanistico le proiezioni umane continuano a dare spazio alle figure dei mostri, riprendendo le strategie delle antiche arti della memoria, dove si indicava di associare concetti, parole o discorsi a immagini, figure e luoghi orripilanti, difficili da dimenticare. Per esempio, Petrus von Rosenheim inserisce nella sua Ars memorandi (1502) figure costituite da miscugli di cose con parti animali, da accozzaglie di immagini fantasiose, da coacervi bizzarri, che in qualche modo appartengono alla stessa genia dei mostri medievali e delle creature dei bestiari antichi.

Gli esseri infernali e le accozzaglie ibride e bizzarre delle figure mostruose inventati da Hieronymus (o Jheronimus) Bosch animano rappresentazioni perturbanti, fra dimensioni naturali e morali, fra intenzioni “rette e assennate” e fantasie “devianti e dissennate”, fra interpretazioni discrete e visioni sconcertanti o psichedeliche. Queste figure nascono da mescolanze di tratti animali, giungono dall’abisso dell’inconscio e lasciano indovinare il lato oscuro della psiche umana, sono traduzioni dell’invisibile demoniaco, o materializzazioni del possibile, personaggi carnevaleschi insinuanti che si muovono abilmente in repentini cambi di scala, allusioni a processi alchemici, allegorie moraleggianti, immagini dei vizi della società, apparizioni oniriche, o che altro? Le figure ibride presenti nel Trittico delle tentazioni di sant’Antonio (1501 circa) sono presenze del possibile visionario, “freaks” della casistica combinatoria, ironiche manifestazioni del reale oscuro, scherzi della natura, materializzazioni delle paure umane, proiezioni dell’immaginazione, il perturbante, che riescono a sfuggire da ogni semplicistica e unidirezionale definizione.

L’abitudine e la consuetudine con il mostruoso brutto aveva radici antiche nella tradizione giudaico-cristiana. Animali simbolici ed esseri mostruosi sono presenti nella visione di Ezechiele, ripresa e divulgata ulteriormente da Giovanni nell’Apocalisse; il Leviatano descritto da Giobbe (41, 1-27) è un essere che incute terrore. Accadimenti terribili e catastrofi sono presenti nell’Antico testamento, in forma di piaghe, carestie, invasioni di mosche infette e di locuste, tenebre e pestilenze, bolle e ulcere purulente che infestano i corpi di uomini, donne e bambini egizi, eventi inquietanti. Nella caduta dell’angelo ribelle e nella sua metamorfosi diabolica è insita la complessità di tutte le antinomie, dei paradossi e dei misteri che hanno preso corpo nelle religioni monoteistiche. Lucifero, figlio dell’aurora, è caduto dal cielo ed è stato precipitato negli inferi, nelle profondità dell’abisso (Isaia 14, 12-21), e lì è divenuto Satana, dominatore di tutti i diavoli, il seduttore di tutta la terra, il serpente antico, il gran drago che guerreggiò con gli angeli condotti da Michele (Apocalisse, 12: 1-5, 7-9). In San Michele arcangelo caccia Lucifero (1545 circa), Lorenzo Lotto raffigura l’ambiguità seducente che si porta con sé l’angelo ribelle. Il tema della lotta fra Michele e Lucifero è un’iconografia tipica della Controriforma che vedeva la figura del ribelle come immagine di Lutero o dell’eretico che si insinua in modo seducente. Lotto però la affronta impostando gli aspetti iconografici su dettagli che assumono un’originale visione personale rispetto ad altri artisti del suo tempo. Lucifero è descritto con le sembianze di un aggraziato e femmineo efebo, attraente e sensuale, che ha mantenuto inalterata la sua bellezza angelica. Ha una coda che, passando fra le sue gambe e sfiorandogli il pube, pare terminare con un muso di serpente o di un animale aggressivo. L’arcangelo Michele con uno sguardo pietoso sembra voler soccorrere Lucifero.

Tende la mano sinistra verso di lui, nell’istante in cui l’angelo decaduto si è capovolto e sta andando verso un’altra realtà, nel baratro del suo inferno. La drammaticità dell’evento è resa manifesta dal gesto delle sue mani, consapevole dell’ormai invalicabile confine creatosi tra due realtà, che continueranno ad allontanarsi come in un’eterna caduta nell’universo. Invece nelle numerose versioni pittoriche o scultoree medievali, Lucifero è raffigurato con una testa a tre volti mentre è intento a divorare nell’inferno i corpi dei dannati(12).


Hans Baldung Grien, La Morte e le età dell’uomo (1540); Madrid, Museo Nacional del Prado.


Albrecht Dürer, Il cavaliere, la Morte e il diavolo (1513); Berlino, Staatliche Museen.


Lucifero, (XIV secolo); Amburgo, Bibliotheca Christianei, Codex Altonensis, f. 48r.


Hieronymus Bosch, Trittico delle tentazioni di sant’Antonio (1501 circa), tavola centrale; Lisbona, Museu Nacional de Arte Antiga.


Beato Angelico, Giudizio universale (1430-1435), particolare; Firenze, Museo di San Marco.


Anonimo, Inferno (1510-1520 circa); Lisbona, Museu Nacional de Arte Antiga.

L’autore ignoto dell’Inferno (1510- 1520 circa), ora conservato nel Museu Nacional de Arte Antiga di Lisbona, ha raffigurato Lucifero con una maschera tribale, con un copricapo di piume simile a quello indossato dagli indios del Brasile, assiso su un trono di provenienza africana, mentre regge nella mano destra un corno tipico del Benin. Il sovrano dell’inferno assiste allo spettacolo dei tormenti messo in azione dai suoi demoni, comodamente seduto sullo scranno posto accanto al calderone sollecitato dalle fiamme, dove sono in ammollo ecclesiastici. Tutt’attorno i diavolacci si accaniscono sui reprobi e manifestano il loro sentito piacere nel tormentare i corpi delle anime peccaminose. La bruttezza fisica esibita dagli esseri infernali è messa sullo stesso piano della bruttezza morale dei sacerdoti cristiani ipocriti, a lungo tenuta nascosta da sotterfugi e magheggi clericali per mantenere il potere. Non si capisce fino in fondo quanto nell’iconografia di questo dipinto vi sia un intento morale per mettere in guardia i fedeli cattolici, così che possano evitare di finire all’inferno, o se l’autore possa aver avuto simpatie per i popoli colonizzati dai portoghesi – e così si è immaginato un luogo ultraterreno in cui si realizzasse un contrappasso e una vendetta decoloniale –, o se lo scopo sia quello di descrivere gli indigeni africani e sudamericani dalla pelle scura come esseri simili agli abitanti degli inferi.

Nell’arte cattolica ci sono numerosissimi esempi di traduzioni visuali legate alla demonizzazione dell’altro, del nemico straniero, nel caso sia in atto una sostituzione religiosa o culturale rispetto a una religione precedente. Il cambio di statuto avviene attraverso l’irrisione di una divinità pagana o la demonizzazione dei vizi, che vengono raffigurati con tratti disgustosi e combattuti dalle virtù. Secondo quest’ottica, la parte avversa è per antonomasia la proiezione di un tormento, una lotta contro qualcosa che è in grado di sedurre o per contrastare una paura viscerale o mentale. Dal Medioevo, nell’iconografia cristiana il diavolo viene rappresentato solitamente con le sembianze del dio pagano Pan, ovvero un essere dai tratti umani e caprini al contempo, o come un coacervo costituito da istinti bestiali, descritto con tratti ripugnanti e spaventevoli. 

Nella Deposizione dalla croce (1527- 1528), Rosso Fiorentino in secondo piano raffigura un inquietante personaggio semiavvolto nell’ombra e forse proveniente dalle tenebre. L’armigero ha un volto scimmiesco e rivolge il suo sguardo strabico in direzione di chiunque si avvicini al soggetto del dipinto. Il bertuccione demoniaco è una apparizione di Satana, inteso qui forse nell’accezione di colui che scimmiotta Dio senza comprendere in realtà le trame complesse e sottili del suo disegno? Lo strabismo rimanda a chi non ha saputo vedere che l’uomo crocifisso era in realtà la personificazione umana del divino? La figura mostruosa alle spalle di Maria svenuta incarna allo stesso tempo la presenza demoniaca, la proiezione di una paura che ha preso forma dall’inconscio, la possibilità del male che si annida in ognuno, l’incubo di precipitare in una dimensione cattiva e maligna, nell’assurdità del dolore e della morte.

Nelle scene riguardanti Le tentazioni di sant’Antonio, molti artisti hanno dato il loro meglio per immaginare diavoli che fossero più orrendi, sgradevoli e repellenti possibili. Mi riferisco soprattutto alle opere realizzate da Michelangelo Buonarroti (Texas, Kimbell Art Museum di Fort Worth, 1487-1489) o da Martin Schongauer (incisione del 1470 circa), da Hieronymus Bosch (conservato nel Museu Nacional de Arte Antiga di Lisbona, databile al 1501 circa), da Mathias Grünewald (per l’altare di Isenheim, 1515), da David Rykaert III (ora nel Museu Nacional de Arte Antiga di Lisbona, datato al 1645).

Altri pittori invece hanno sostituito gli immondi diavoli repellenti con sinuose e affascinanti fanciulle tentatrici e ambigui giovinetti(13): la bruttezza morale e del vizio viene resa visibile dal potere seduttivo dei corpi nudi provocanti. In questo caso la bellezza del diavolo tentatore ha una connotazione negativa, e quindi il fruitore cattolico deve comprendere al volo, guardando l’opera pittorica, che la bruttezza riesce a camuffarsi anche in ciò che i suoi occhi colgono come bello e resistere all’azione del male che irretisce e inganna. Anche nella cultura islamica sono presenti sia demoni tentatori (i “gul”) che assumono l’aspetto di bellissime femmine sia il diavolo Al-Satain, dalle fattezze animalesche.

Se pure il brutto riesce a celarsi nel bello tutto diventa possibile e così ogni tentativo di definire cosa siano l’uno e l’altro è destinato a sottostare all’uso della prudenza e al limite dell’indefinibile. In questa dimensione di indefinibilità si inserisce lestamente Lucifero, ovvero colui che è abilissimo nell’arte delle metamorfosi e dei camuffamenti, memore ancora della sua origine angelica. Nella tradizione ebraica viene menzionata anche Lilith, che secondo l’interpretazione cabalistica è la prima moglie di Adamo, poi ribellatasi al disegno divino e divenuta un demonio alato(14). Nel Salmo 91, il Demone Meridiano in principio è descritto come angelo sterminatore, e nella tradizione monastica viene poi inteso come una personificazione di Satana e tentatore della carne. Agiscono esseri intermedi che a volte sono benevoli e a volte malvagi, e quando agiscono per il male assumono un aspetto mostruoso. Nell’Apocalisse vi sono angeli che affiancano Dio e che agiscono per Satana. Nelle religioni dualiste il Male si oppone al Bene, una costante lotta fra le forze avverse muove continuamente narrazioni e nuovi accadimenti.

E in queste dinamiche si materializzano forme della bruttezza oscura in continua metamorfosi.


Rosso Fiorentino, Deposizione dalla croce (1527-1528), particolare; Sansepolcro (Arezzo), chiesa di San Lorenzo.


Rosso Fiorentino, Deposizione dalla croce (1527-1528), intero; Sansepolcro (Arezzo), chiesa di San Lorenzo.


Hieronymus Bosch, Trittico delle tentazioni di sant’Antonio (1501 circa), anta sinistra, particolare dei demoni e dei mostri; Lisbona, Museu Nacional de Arte Antiga.


Johann Heinrich Füssli, L’incubo (1781 circa); Francoforte, Goethe Museum.


Matthias Grünewald, Altare di Isenheim (1515), seconda apertura del polittico, anta destra con le Tentazioni di sant’Antonio; Colmar, Musée d’Unterlinden.


Michelangelo, Le tentazioni di sant’Antonio, (1487-1489); Fort Worth, Kimbell Art Museum.

ARTE E BRUTTEZZA
ARTE E BRUTTEZZA
Mauro Zanchi
È possibile definire cosa è bello e cosa è brutto? Esiste un canone della bruttezzacome ne sono esistiti e ne esistono molti della bellezza? È possibile utilizzare lacategoria del brutto nella formulazione di un giudizio estetico? È politicamentecorretto definire brutto qualcosa? È ancora attivo e funzionante l’accostamentodel bello al bene e del brutto al male? Arte contemporanea e moda nel XX secolohanno davvero ribaltato i canoni liberando il gusto dalla gabbia di qualunquestandard? Oppure se ne sono insinuati di nuovi per creare inedite tipologie neiconsumi (d’arte, design, abbigliamento, architetture, arredi, decorazione...)? Èancora vero che ciò che è brutto in un contesto culturale può essere bello in unaltro oppure la globalizzazione ha livellato tutto? Qual è la portata “morale” dellacategoria del brutto? Possiamo considerare brutti gli effetti della devastazionedel pianeta dal punto di vista ecologico? Tante domande (e neanche tutte), ineludibiliper chi si occupa di arte. Ancora una, dal testo del dossier: il modo in cuiapprendiamo la storia dell’arte è attraverso delle “brutte copie” degli originali.In che modo questo forma la nostra idea delle opere e dell’arte?