In Il cavaliere, la Morte e il diavolo (1513), Albrecht Dürer immagina l’essere che proviene dall’oltretomba come fosse uno zombie dalla lunga barba bianca scomposta: tra i suoi capelli e la corona che porta in capo sono aggrovigliate serpi, che si avvolgono anche attorno al suo collo. La presenza scheletrica è paludata da una tunica e tiene nella mano destra una clessidra, mostrandola all’uomo che fiero e incurante dei pericoli pare proseguire il suo percorso a dorso del destriero. La paura mangia l’anima ed è forse più brutta della morte e del diavolo. Per questa ragione il cavaliere cerca di non dare peso alle avverse presenze che incontra sul suo cammino. Paventa la sua indifferenza rispetto a ogni possibilità di spavento, allo scorrere del tempo, alle proiezioni mostruose della sua immaginazione. Guarda avanti, con gli occhi fissi verso il superamento di ogni ostacolo. Il cavaliere tenta di lasciarsi alle spalle le sue fantasie paurose legate alle presenze demoniache, al signore del caos che impugna un’alabarda in modo minaccioso, agli aspetti malefici che si annidano nell’umana esistenza e che possono portare chiunque verso la dannazione.
Qui il diavolo ha un aspetto al contempo mostruoso e buffo, con le sembianze risultate dall’assemblaggio di parti animali, come fosse derivato da un retaggio delle figure zoomorfe immaginate nel Medioevo e presenti in innumerevoli declinazioni nelle chiese romaniche e gotiche, o dai fantasiosi “marginalia” realizzati da monaci che trovavano attraenti le fantasiose declinazioni dei mostri: ha corna ricurve da ariete, escrescenze appuntite e un lungo artiglio arcuato sulla testa, zampe e zoccoli caprini, ali e parti del corpo vegetali o di provenienza marina. Secondo la visione pre-pancalistica(9) di Agostino, anche i mostri, i coacervi bestiali e le persone deformi sono belli perché sono pur sempre essi stessi, nonostante li percepiamo come manifestazioni della bruttezza, creature e figli di Dio(10). Addirittura, nel V secolo, lo Pseudo Dionigi Areopagita scrive che «Dio si è attribuito la forma di un verme»(11).
In un periodo del mondo cristiano in cui viene messa in atto una redenzione del mostro e del brutto, anche e soprattutto attraverso la moralizzazione delle figure bestiali composite, nei secoli medievali gli artisti disseminano questa possibilità interpretativa del mondo attraverso innumerevoli figure animalesche e mostruose nei capitelli, nei cori, nelle facciate, e anche nelle parti architettoniche delle cattedrali non facilmente visibili perché poste in alto o in luoghi non accessibili al popolo.
Ma ancora nel Rinascimento umanistico le proiezioni umane continuano a dare spazio alle figure dei mostri, riprendendo le strategie delle antiche arti della memoria, dove si indicava di associare concetti, parole o discorsi a immagini, figure e luoghi orripilanti, difficili da dimenticare. Per esempio, Petrus von Rosenheim inserisce nella sua Ars memorandi (1502) figure costituite da miscugli di cose con parti animali, da accozzaglie di immagini fantasiose, da coacervi bizzarri, che in qualche modo appartengono alla stessa genia dei mostri medievali e delle creature dei bestiari antichi.
Gli esseri infernali e le accozzaglie ibride e bizzarre delle figure mostruose inventati da Hieronymus (o Jheronimus) Bosch animano rappresentazioni perturbanti, fra dimensioni naturali e morali, fra intenzioni “rette e assennate” e fantasie “devianti e dissennate”, fra interpretazioni discrete e visioni sconcertanti o psichedeliche. Queste figure nascono da mescolanze di tratti animali, giungono dall’abisso dell’inconscio e lasciano indovinare il lato oscuro della psiche umana, sono traduzioni dell’invisibile demoniaco, o materializzazioni del possibile, personaggi carnevaleschi insinuanti che si muovono abilmente in repentini cambi di scala, allusioni a processi alchemici, allegorie moraleggianti, immagini dei vizi della società, apparizioni oniriche, o che altro? Le figure ibride presenti nel Trittico delle tentazioni di sant’Antonio (1501 circa) sono presenze del possibile visionario, “freaks” della casistica combinatoria, ironiche manifestazioni del reale oscuro, scherzi della natura, materializzazioni delle paure umane, proiezioni dell’immaginazione, il perturbante, che riescono a sfuggire da ogni semplicistica e unidirezionale definizione.
L’abitudine e la consuetudine con il mostruoso brutto aveva radici antiche nella tradizione giudaico-cristiana. Animali simbolici ed esseri mostruosi sono presenti nella visione di Ezechiele, ripresa e divulgata ulteriormente da Giovanni nell’Apocalisse; il Leviatano descritto da Giobbe (41, 1-27) è un essere che incute terrore. Accadimenti terribili e catastrofi sono presenti nell’Antico testamento, in forma di piaghe, carestie, invasioni di mosche infette e di locuste, tenebre e pestilenze, bolle e ulcere purulente che infestano i corpi di uomini, donne e bambini egizi, eventi inquietanti. Nella caduta dell’angelo ribelle e nella sua metamorfosi diabolica è insita la complessità di tutte le antinomie, dei paradossi e dei misteri che hanno preso corpo nelle religioni monoteistiche. Lucifero, figlio dell’aurora, è caduto dal cielo ed è stato precipitato negli inferi, nelle profondità dell’abisso (Isaia 14, 12-21), e lì è divenuto Satana, dominatore di tutti i diavoli, il seduttore di tutta la terra, il serpente antico, il gran drago che guerreggiò con gli angeli condotti da Michele (Apocalisse, 12: 1-5, 7-9). In San Michele arcangelo caccia Lucifero (1545 circa), Lorenzo Lotto raffigura l’ambiguità seducente che si porta con sé l’angelo ribelle. Il tema della lotta fra Michele e Lucifero è un’iconografia tipica della Controriforma che vedeva la figura del ribelle come immagine di Lutero o dell’eretico che si insinua in modo seducente. Lotto però la affronta impostando gli aspetti iconografici su dettagli che assumono un’originale visione personale rispetto ad altri artisti del suo tempo. Lucifero è descritto con le sembianze di un aggraziato e femmineo efebo, attraente e sensuale, che ha mantenuto inalterata la sua bellezza angelica. Ha una coda che, passando fra le sue gambe e sfiorandogli il pube, pare terminare con un muso di serpente o di un animale aggressivo. L’arcangelo Michele con uno sguardo pietoso sembra voler soccorrere Lucifero.
Tende la mano sinistra verso di lui, nell’istante in cui l’angelo decaduto si è capovolto e sta andando verso un’altra realtà, nel baratro del suo inferno. La drammaticità dell’evento è resa manifesta dal gesto delle sue mani, consapevole dell’ormai invalicabile confine creatosi tra due realtà, che continueranno ad allontanarsi come in un’eterna caduta nell’universo. Invece nelle numerose versioni pittoriche o scultoree medievali, Lucifero è raffigurato con una testa a tre volti mentre è intento a divorare nell’inferno i corpi dei dannati(12).