Grandi mostre. 4 
VERMEER AD AMSTERDAM

OPERA OMNIA

METTERE INSIEME QUASI TUTTI I VERMEER DEL MONDO È UN’IMPRESA DI PER SÉ DEGNA DI NOTA. OGNI MUSEO CHE NE POSSIEDA DIFFICILMENTE SE NE PRIVA, ANCHE SE PER UN PERIODO LIMITATO. È SUCCESSO. PER VEDERLI UNO ACCANTO ALL’ALTRO, COME A UNA FESTA DI FAMIGLIA, ANDIAMO AL RIJKSMUSEUM E CI EVITIAMO UN GIRO DEL MONDO.

Claudio Pescio

Sono ventotto su trentasette. Tre quarti di quelli arrivati fino a noi. Ed è la prima volta che stanno tutti quanti nello stesso edificio. Sono i dipinti di Johannes Vermeer (Delft 1632-1675) sparsi tra Europa e Stati Uniti, ora in mostra al Rijksmuseum; e ovviamente non erano mai stati insieme nemmeno a casa o nello studio di chi li ha dipinti. Molti non sono firmati, alcuni sono stati assegnati definitivamente a Vermeer solo da poco, altri restano solo attribuiti. Un’occasione davvero unica, difficilmente ripetibile.

Alcuni di essi – nonostante la riscoperta del loro autore risalga solo alla metà del XIX secolo – si sono installati al centro della costellazione dei “capolavori” imperdibili, complici Marcel Proust che definiva la Veduta di Delft il «quadro più bello del mondo», o libri come quello di Tracy Chevalier (La ragazza con l'orecchino di perla), il film che ne è derivato, ma anche fatti di cronaca come il furto del Concerto a tre dal museo di Boston nel 1990. Non ci sono novità sconvolgenti, sulla vita di Vermeer; continua a non essere noto l’ambito in cui si formò come pittore, dove trascorse la giovinezza e non sono emersi documenti di sua mano.

Eppure, qualche risultato dagli studi recenti è arrivato, e questa occasione espositiva qualcosa di importante ce lo rivela.

Studi fruttuosi hanno interessato il rapporto fra Vermeer e la comunità cattolica della sua città, Delft. Sappiamo che la famiglia di provenienza del pittore era protestante, e che Vermeer abbracciò la fede cattolica per poter sposare Catharina Bolnes, la cui ricca famiglia apparteneva proprio a quella confessione. La coppia andò a vivere nella casa della madre di lei, Maria Thins, in una parte di Delft che veniva chiamata “l’Angolo dei papisti”. Un piccolo quartiere in cui si sperimentavano quelle forme di convivenza possibili tra fedi diverse delle quali una, la cattolica, era in realtà “non ammessa”, nella repubblica calvinista dei Paesi Bassi del Nord, ma che – vuoi per antica familiarità, o quieto vivere, oppure per non mettere in un angolo quella che di fatto era ancora l’aristocrazia borghese della città – era di fatto abbastanza libera di essere praticata in chiese “clandestine”. In questa comunità era particolarmente importante il ruolo dei gesuiti. Uno degli studiosi coinvolti nel progetto del Rijksmuseum, Gregor Weber, ha per la prima volta indagato a fondo sul ruolo della comunità gesuitica frequentata dalla famiglia del pittore, che non solo fu fonte di ispirazione per soggetti religiosi, ma ebbe un ruolo nella sua formazione scientifico-tecnologica e il suo interesse per la geografia. Sappiamo che molto probabilmente Vermeer utilizzava la camera oscura per il suo lavoro e ci sono in proposito molti indizi nuovi su come la utilizzasse; e tra i documenti dei gesuiti di Delft sono emersi fogli che descrivono minuziosamente proprio quello strumento.

Lo studio dei documenti si è concentrato anche su elenchi e inventari sparsi, incrociandosi con l’analisi degli oggetti che compaiono nei dipinti, ed è stato possibile ricostruire l’aspetto che doveva avere l’abitazione del pittore.

Qualcosa di nuovo è emerso anche dalle indagini con tecnologie aggiornate di scansione. Analizzando gli strati meno superficiali del colore, sono apparsi pentimenti nella messa a punto definitiva di alcuni dipinti, come La lattaia, La stradina, Domestica addormentata o Donna in blu che legge una lettera, nei quali è emersa la tendenza di Vermeer a liberare il fondo da elementi che evidentemente considerava inessenziali o di disturbo (quadri, altre figure, oggetti appesi). La parete della Lattaia, così, restava libera di lasciarsi colare addosso la luce, facendo risaltare solo qualche punto scabro, un buco, un chiodo.

Come ci racconta Ige Verslype, conservatrice della pittura al Rijksmuseum – ovviamente molto coinvolta nello studio e nelle analisi strumentali su molti dei quadri di cui stiamo parlando –, dal dipinto sono spariti anche un cesto che stava vicino al muro altri oggetti appesi (come vediamo nella foto a infrarossi della pagina a fianco). Ma, aggiunge, se rimaniamo un istante su quella parete vediamo come funziona il peculiare approccio alla realtà del suo modo di dipingere. Non c’è traccia del passaggio di un pennello, su quelle superfici (gli strati sottostanti rivelano invece un’imprevista, finora, stesura più “veloce”); emergono solo i dettagli: tutti i dettagli, come una scansione digitale. Perfettamente a fuoco. L’uso della camera oscura può essere ritenuto l’unico responsabile di questo risultato? Lo dobbiamo a una specie di impulso automatico a riprodurre ciò che si vede o siamo di fronte a una scelta consapevole e selettiva? È evidente che chi dipinge è il pittore, non la macchina di cui si serve. Ci sono storici dell’arte che hanno definito Vermeer «un occhio, e nient’altro», quasi disinteressato al soggetto. Vermeer in realtà sceglie accuratamente cosa mettere a fuoco, e sfoca parte del resto. Spesso gli oggetti in primo piano, nella Lattaia come nella Merlettaia, sono fuori fuoco, i dettagli confusi e punteggiati da tocchi di luce pura. Li possiamo attribuire alla riproduzione di effetti ottici collegati all’uso della camera oscura, ma dobbiamo considerare quest’ultima solo uno strumento fra gli altri, esattamente come il pennello e i colori. Anche il realismo più estremo non è mai passivo. Lo vediamo, del resto, quando Vermeer piega la realtà ad adattarsi alla composizione che ha in mente nella Veduta di Delft, dove non esita a spostare strutture e alterare proporzioni di interi pezzi della sua città.

In mostra ci sono solo opere di Vermeer, cosa che rende il percorso un viaggio all’interno di un mondo creativo che appare particolarmente coerente e fluido, in cui ogni opera si inserisce come un tassello indispensabile a una visione il più possibile completa. I pannelli sono brevi e ben leggibili, e rimandano ai temi individuati per ognuna delle dieci sale del percorso.

Il catalogo, intelligentemente (e grazie al fatto che i dipinti di Vermeer sono pochi, con Rembrandt sarebbe stato più complicato…), raccoglie tutti i trentasette quadri già nelle primissime pagine, accompagnati da semplici didascalie e rinunciando alle interminabili schede che spesso gravano sui cataloghi di mostra.

Ma soprattutto le opere, in questa sezione di sole dieci pagine, sono riprodotte in ordine cronologico e tutte in scala 1:10 (vediamo lo stesso accostamento a conclusione della mostra): cosa che rende possibile metterle in rapporto dimensionale fra loro e apprezzare come ai formati maggiori corrispondano soprattutto i soggetti allegorici e storico-religiosi.

Vermeer dipingeva poco; si pensa che in tutto debba aver prodotto quarantacinque, massimo cinquanta quadri. Le figure che vi compaiono – quasi tutte femminili – hanno ormai un’aria familiare; le stanze lo stesso: una finestra a sinistra, la luce che entra, le sedie con gli intagli, dei tappeti, qualche strumento musicale, quelle piastrelle, la giacca gialla, la pelliccia finto ermellino, il filo di perle, i pendenti… E quelle donne che parlano o ridono senza che sappiamo di cosa, cantano e suonano note che non sentiamo, leggono – magari muovendo impercettibilmente le labbra come ci sembra di vedere nella Donna in blu che legge una lettera – foglietti di cui non conosciamo il contenuto.

Forse proprio questo è ciò che distingue questa mostra da molte altre: la possibilità di un incontro davvero ravvicinato e senza distrazioni con qualcosa che abbiamo la sensazione di conoscere e che ci sfugge sempre un po’.

Vermeer ci porta costantemente nello stesso posto senza mai farci entrare davvero. Se ci fate caso c’è quasi sempre una porta, un tavolo, una sedia, una tenda che si frappone fra noi che guardiamo e il luogo in cui si svolge la scena. Guardare, non entrare; mostrare indizi, non prove. Cosa che accentua il senso di mistero – di impenetrabilità, appunto – che le opere di Vermeer comunicano invariabilmente, e che costituisce parte essenziale della loro magia, della loro capacità di creare un legame emotivo con chi osserva pur lasciandolo del tutto all’oscuro di ciò che davvero sta guardando.


Johannes Vermeer, Ragazza con cappello rosso (1664-1667 circa), Washington, National Gallery of Art, Andrew W. Mellon Collection.


Johannes Vermeer, Donna in blu che legge una lettera (1662-1664 circa), Amsterdam, Rijksmuseum.


Johannes Vermeer, Donna con domestica (1664-1667circa), New York, Frick Collection.


Johannes Vermeer, La lattaia (1658-1659 circa), scansione a luce infrarossa a onde corte, Amsterdam, Rijksmuseum.

Vermeer

Amsterdam, Rijksmuseum, Museumstraat 1
fino al 4 giugno
orario 9-18; giovedì - sabato 9-22
visita virtuale: Closer to Vermeer sul sito del museo
catalogo Rijksmuseum, Hannibal Books, a cura di Pieter Roelofs
e Gregor J. M. Weber
www.rijksmuseum.nl

ART E DOSSIER N. 408
ART E DOSSIER N. 408
APRILE 2023
In questo numero: FINESTRE SULL’ARTE: Il potere della duchessa di Federico D. Giannini; BLOW UP: Werner Bischof:L’occhio, inedito, per il colore di Giovanna Ferri; GRANDI MOSTRE. 1 - Arturo Martini a Treviso - Frammenti di realtà di Sileno Salvagnini ; GRANDI MOSTRE. 2 - Manet e Degas a Parigi - Amici e rivali di Valeria Caldelli ...