Blow up 

WERNER BISCHOF
L’OCCHIO, INEDITO, PER IL COLORE

di GIOVANNA FERRI

Di fronte a fotografi del calibro di Werner Bischof è difficile stabilire quando l’esplorazione della loro poetica può dirsi definitivamente conclusa. Certo, conosciamo molto del lavoro che l’autore svizzero – nato nel 1916, membro associato dell’agenzia Magnum Photos nel 1949 ed effettivo nel 1950 – ha portato avanti con i suoi indimenticabili reportage in bianco e nero. Dalle testimonianze sull’Europa postbellica, a partire dal 1945, a quelle sulle condizioni di povertà, sofferenza, contrasto tra tradizione e modernità, materialità e spiritualità in Asia o in Sud America, il suo codice visivo appare immediatamente leggibile e riconoscibile. Chiara è la sensibilità del suo sguardo: profondo e al contempo essenziale, asciutto e privo di eccessi.

E attento al bello, sempre. La ricerca estetica è connaturata al suo essere, un’esigenza irrinunciabile e insostituibile. Fino alla fine dei suoi giorni: nel 1954, sulle Ande peruviane, muore in un incidente stradale. Un epilogo drammatico e prematuro di un uomo che ancora oggi non smette di sorprendere.

Circa sette anni fa il figlio, Marco Bischof, curatore dell’archivio del padre, si è imbattuto in alcune scatole contenenti centinaia di negativi su lastre di vetro. Un ritrovamento eccezionale che ha richiesto una squadra di esperti per comprendere, dal punto di vista sia tecnico sia interpretativo, il tesoro che avevano tra le mani. Ma di che cosa si trattava in particolare? I negativi su lastre di vetro, tre per ogni immagine, messi uno sopra l’altro davano vita a una fotografia a colori. E così, dopo un’accurata operazione di sistemazione, ricostruzione, restauro, scansione e stampa ecco il risultato: gli scatti in questione erano quelli realizzati da Bischof tra il 1939 e il 1949 con la Devin Tri-Color, un apparecchio ingombrante (per usarlo era necessario un cavalletto) ma dotato di una raffinatezza ottica di altissimo livello. Una sfida complessa, per gli specialisti coinvolti, soprattutto rispetto al delicato compito di rintracciare, per ogni immagine, la cifra linguistica del suo autore. A tale scopo, studio e confronto con altro materiale a colori (dello stesso fotografo) si sono rivelati fondamentali.

Da questo reperimento prende spunto la mostra Werner Bischof. Unseen Colour al MASI Lugano (fino al 2 luglio) per raccontare l’universo cromatico, inedito, di un fotografo che nel colore ha ravvisato l’opportunità di ampliare il proprio orizzonte creativo, la propria visione e di coltivare quell’attitudine squisitamente artistica che mai ha abbandonato. Amava la pittura, anzi avrebbe voluto fare il pittore. «In cuor mio resto sempre un pittore, che passando accanto alle cose vede a colori, che si lascia sempre entusiasmare dalla pienezza e dalla ricchezza delle possibilità espressive dell’uomo e che vede sempre con un po’ di mestizia i limiti della fotocamera»(*).

Un pioniere del colore, dunque, come Ernst Haas (1921- 1986), Saul Leiter (1923-2013), Evelyn Hofer (1922-2009), in tempi in cui al colore era riservato il campo della pubblicità, un mondo di facili illusioni, lontano dall’ambito della fotografia documentaria e umanista. Ma Bischof non si inibisce davanti ai pregiudizi. Il percorso espositivo al MASI lo dimostra in modo tangibile. Suddivisa in tre sezioni, in base alle macchine fotografiche usate dall’artista – oltre alla Devin Tri-Color, la Rolleiflex e la Leica, tutte e tre visibili al pubblico – la retrospettiva copre per intero non solo il suo cammino professionale ma anche il suo repertorio tematico. In questo «libero viaggio a colori», com’è stata definita la mostra in occasione della conferenza stampa, troviamo così pure sperimentazioni, dove il colore dà corpo all’immagine attraverso stilizzate geometrie, morbide forme, nature morte e composizioni astratte; dove il colore si fonde con la trama narrativa di soggetti legati al settore della moda e della pubblicità o dei soggetti tipici dei suoi servizi di stampo giornalistico (che abbiamo menzionato all’inizio). Un uso, quindi, “democratico” del colore che nelle sale espositive viene guidato dal tipo di dispositivo, di volta in volta utilizzato da Bischof, per tratteggiare, per la prima volta a livello internazionale, una nuova semantica comunicativa a lui molto cara. Una prospettiva, quella del colore, accolta dal MoMA di New York che la rende protagonista di alcune monografiche: nel 1962 dedicata a Ernst Haas, nel 1976 a William Eggleston (1939, qui alle pp. 18-23) e a Sthephen Shore (1947).

Con l’evento ora in corso al MASI, un altro prezioso tassello della breve ma intensa carriera di Bischof è stato affrontato, nella piena consapevolezza che la sua tavolozza avrebbe potuto regalare ulteriori sfumature se in quel tragico 1954 il suo cammino non si fosse fermato.


Modella con rosa, Zurigo, Svizzera 1939. Scatto realizzato da Werner Bischof, come gli altri pubblicati in questo articolo, con la macchina fotografica Devin Tri-Color.


Studio, Zurigo, Svizzera 1943;


Orchidee (studio) Zurigo, Svizzera 1943.


ART E DOSSIER N. 408
ART E DOSSIER N. 408
APRILE 2023
In questo numero: FINESTRE SULL’ARTE: Il potere della duchessa di Federico D. Giannini; BLOW UP: Werner Bischof:L’occhio, inedito, per il colore di Giovanna Ferri; GRANDI MOSTRE. 1 - Arturo Martini a Treviso - Frammenti di realtà di Sileno Salvagnini ; GRANDI MOSTRE. 2 - Manet e Degas a Parigi - Amici e rivali di Valeria Caldelli ...