Grandi mostre. 2
WARHOL A MILANO

GLI STEREOTIPI DI MASSA
COME NUOVA CLASSICITÀ

L’IMMEDIATEZZA DELLA FRUIBILITÀ È LA CHIAVE DI INTERPRETAZIONE DEL MONDO. E L’ARTE SE NE FA STRUMENTO ADATTANDOSI AL SISTEMA DELLE MERCI E DELLE IMMAGINI CHE PROMUOVONO LE MERCI. NASCE COSÌ LA FORMA DI ANALISI DEL PRESENTE PIÙ CINICA E PIÙ VERA, È LA POP ART DI ANDY WARHOL.

Achille Bonito Oliva

In una intervista apparsa su “Art News” nel novembre 1963 Andy Warhol dichiara: «Io dipingo in questo modo perché voglio essere una macchina». È fin da subito evidente che l’artista accoglie con favore il sistema meccanico di riproduzione dell’immagine, ne fa suo il procedimento e apprezza la neutralità di fondo che lo sorregge. Perché questo avvenga è necessario eliminare ogni discriminazione per quanto riguarda l’ambito dove l’immagine nasce, cresce e si sviluppa.

Parliamo di immagini recuperate dallo spazio cittadino: una megalopoli sconfinata e proliferante, portato di una economia in espansione anche oltre i confini degli Stati Uniti. La metropoli è l’alveo naturale dell’American Dream, inteso come sogno continuo di opulenza e di stordimento organizzato dalla merce. La città è un grande happening in cui le immagini si associano tra loro, si scompongono, si sovrappongono e scompaiono all’interno di un paesaggio artificiale vissuto come l’unica natura possibile dell’uomo moderno.

La produzione, sostenuta dal gioco serrato della pubblicità, crea per soddisfare una sorta di fame di oggetti e consumi. La città non è più lo spazio delle relazioni interpersonali ma il luogo dello scambio, di un puro passaggio di merci. Warhol fa propria più e meglio di altri artisti questa mentalità, rafforzata dalla coscienza puritana che solo ciò che è ben fatto trova affermazione e dunque realtà. Egli assume fino in fondo i margini di divisione del lavoro, delegando al potere politico ogni problema riguardante l’ambito sociale, secondo un ottimismo diffuso dalla nuova frontiera kennediana.

Con la rappresentazione della Pop Art, infatti, l’arte americana perde la disperazione dell’Action Painting e i residui esistenziali del New Dada. Ma smarrisce anche quel sentimento dell’arte come possibilità di pensare ancora un riscatto, che aveva animato, invece, la generazione precedente (da Pollock, De Kooning e Kline fino a Rauschenberg, dall’Urlo di Ginsberg al “cut-up” di Burroughs e ancora Reinhard, Rothko, Newman).

Il “ready-made” di Duchamp è, insieme alla tecnica del surrealismo, la matrice linguistica della Pop Art. Ma c’è anche la pittura dell’American Scene di stampo realistico, portata in Hopper a celebrare puritanamente il senso della città, la trasformazione della natura in storia. Altro precedente importante è poi la ricerca di Jasper Johns sugli stereotipi visivi della vita americana. Warhol procede oltre, sposta completamente il tiro nella direzione dell’immagine oggettiva, stereotipata e meccanica. Conformismo che nella società di massa non è un peccato mortale, non è inteso come perdita della personalità, bensì come adeguamento confortevole a standard di comportamento che permettono al corpo sociale di respirare un’atmosfera unanime.

Con la sua presenza fredda e distaccata cancella ogni traccia di profondità e i suoi quadri, i suoi ritratti, diventano la celebrazione della superficie per la superficie.

Warhol trasporta nell’arte l’idea del multiplo, dell’oggetto fatto in serie: l’individuo ripetuto in uomo-massa, in uomo moltiplicato portato dal sistema in una condizione di esistenza stereotipata. Al prodotto unico subentra l’opera ripetuta, la cui reiterazione non comporta più un’angoscia esistenziale ma il raggiungimento di uno stato di ostentata indifferenza. L’occhio cinico di Warhol ci restituisce la condizione oggettiva del ceto medio americano accettata così com’è e per quello che è, poiché i modelli adoperati non sono fuori di quella realtà ma dentro: le facce inespressive dell’uomo-folla gettato nella sua solitudine quotidiana, separato dagli altri uomini; incidenti d’auto; nature morte di fiori psichedelici riprodotte con gelida allegria attraverso il procedimento meccanico della serigrafia.

La città è uno spazio considerato acriticamente, visto come matrice di immagini che possono essere assunte nel campo dell’arte. Il paesaggio artificiale della città viene vissuto come unica natura possibile, come sfondo naturale dell’uomo moderno. Palcoscenico per antonomasia della Pop Art è New York, già pronta all’inizio degli anni Sessanta a trasformare la “società di massa” in “società dello spettacolo”.

Qui le immagini accompagnano il viaggio diurno e notturno dell’uomo, irreggimentato nell’ingranaggio produttivo di una macchina che funziona senza sosta, secondo ruoli già assegnati.


Self-Portrait (1977 circa).


WARHOL TRASPORTA NELL’ARTE L’IDEA DEL MULTIPLO, DELL’OGGETTO FATTO IN SERIE: L’INDIVIDUO RIPETUTO IN UOMO-MASSA, IN UOMO MOLTIPLICATO PORTATO DAL SISTEMA IN UNA CONDIZIONE DI ESISTENZA STEREOTIPATA

Insomma, Warhol ha dato classicità al linguaggio della Pop Art, dimostrando che la superficie accoglie il massimo della profondità. Il teatro di Andy Warhol è l’America, dove la merce è la grande madre che accudisce il sonno, i sogni e gli incubi dell’uomo americano, che lo assiste in tutti i suoi bisogni, fino al punto di incentivare e creare altri nuovi consumi. L’arte diventa il momento di esibizione splendente esemplare di tale sogno, la pratica alta che mette sulla scena definitiva del linguaggio lo stile basso delle immagini, prodotte dai mezzi di comunicazione di massa, dalla pubblicità e dagli altri strumenti di persuasione occulta ed esplicita dell’industria americana.

La standardizzazione del comportamento annulla ogni differenza qualitativa, ogni empito psicologico. Una solitudine quantitativa abita la città americana, oscillante tra le polarità della frantumazione e della omologazione. La frantumazione determina emarginazione e perdita del senso sociale. L’omologazione nasce dall’atteggiamento paradossalmente comunitario dettato dal dilagante consumismo, che porta gli uomini a sentirsi partecipi dello stesso destino e della stessa condizione.

«Se avessi avuto più forza sarei rimasto a casa a fare le pulizie», disse una volta Andy Warhol. La sospirata affermazione da casalinga inquieta può essere l’epigrafe anche per A, il libro pubblicato a New York nel 1968, e dell’American scene fino agli anni Ottanta. A come anfetamina, sostanza che attraversa e determina la struttura e sintassi della vita artistica americana dalla Pop Generation all’“edonismo reaganiano”.

Warhol ama la vita, fino a farsi ferire dal femminismo della Solanas e a creare opere di gruppo con Basquiat e Clemente.

Andy Warhol è l’artista che tenta di dare una classicità alla nuova arte americana. Lo standard viene assunto a livello antropologico: la cancellazione di ogni psicologia individuale e la celebrazione snobistica dell’inespressivo.

Anche l’artista vive dentro a una realtà già definita, in cui ogni prodotto è segno della merce. In una realtà così freddamente ordinata nei suoi eventi strutturali, lo stato incerto ed eccentrico dell’omosessualità diventa un varco mobile attraverso cui Warhol tenta, mediante autogratificazioni (il vestire, l’amare, il vivere, il creare, il produrre nella comunità della Factory), di affermare la propria identità.

E in una realtà tecnologica che tende alla moltiplicazione e a moltiplicarsi, l’unica maniera di affermare tale identità è il raddoppio di se stessi: il rapporto omosessuale con l’altro uomo. Tale procedimento passa inevitabilmente attraverso lo specchio, attraverso l’onanismo, l’esibizionismo, il narcisismo, per cui ogni rapporto è pura tensione, possibilità bloccata nel suo nascere che definisce l’uomo come semplice voyeur della propria solitudine e del mondo.

Così Warhol situa le proprie immagini per associazione elementare, che riflette con cinica disperazione il destino dell’uomo: l’esibizione come esibizionismo, quale ineluttabile cancellazione della profondità e riduzione a uno splendente superficialismo. Lo spegnimento della profondità psicologica segna il punto di massima socialità nell’opera di Warhol.

In definitiva, Andy Warhol è il Raffaello della società di massa americana che dà superficie a ogni profondità dell’immagine rendendola in tal modo immediatamente fruibile, pronta al consumo. In tal modo sviluppa un’inedita classicità nella sua trasformazione estetica. Così la pubblicità della forma crea l’epifania, cioè l’apparizione, dell’immagine.


Il testo qui pubblicato è una sintesi del saggio di Achille Bonito Oliva contenuto nel catalogo della mostra.


In senso orario: Shoes (1980); Giorgio Armani (1981); Valentino Garavani (1974-1978).

Andy Warhol. La pubblicità della forma

a cura di Achille Bonito Oliva
Milano, Fabbrica del vapore
fino al 26 marzo
orario 9-30-19.30
catalogo Silvana Editoriale
www.navigaresrl.com/mostra/andy-warhol

ART E DOSSIER N. 407
ART E DOSSIER N. 407
MARZO 2023
In questo numero: STORIE A STRISCE: Avventure gastronomiche di Sergio Rossi; BLOW UP: Inge Morath: la rivelazione di un istante di Giovanna Ferri; GRANDI MOSTRE. 1 - Sayed Haider Raza a Parigi - Nero, the Mother Colour di Valeria Caldelli ; GRANDI MOSTRE. 2 - Warhol a Milano -  Gli stereotipi di massa come nuova classicità di Achille Bonito Oliva ...