Blow up 

INGE MORATH:
LA RIVELAZIONE DI UN ISTANTE

Giovanna Ferri

Dalla scrittura con le parole alla scrittura con la luce. Un cambiamento a piccoli passi ma inevitabile, irrinunciabile e irreversibile. Un passaggio graduale culminato nell’epifania di un istante. Così è stato l’approdo di Inge Morath (Graz 1923 - New York 2002) alla fotografia.

Figlia di due scienziati, la sua vita è attraversata sin dall’inizio da continui trasferimenti prevalentemente tra Francia e Germania. Nel paese di origine, in Austria, torna per far visita ai parenti e per trascorrere le vacanze estive. Cresciuta in un ambiente familiare intellettualmente vivace, fin da piccola Morath si nutre di arte, teatro, letteratura e fin da piccola vede la mamma, un’ingegnera chimica, usare talvolta una Contax 35 mm per documentare il suo lavoro al microscopio.

Ha una spiccata predisposizione per le lingue, arriverà a parlarne ben sette. Un ambito che ha modo di approfondire frequentando una scuola a indirizzo umanistico e laureandosi poi in Lingue romanze all’Università di Berlino.

Un’ottima preparazione che le consente, dopo la fine della seconda guerra mondiale, di cominciare il suo percorso professionale.

Traduttrice, redattrice, scrittrice, ha la possibilità, grazie al primo incarico con un’agenzia di stampa americana, di fare esperienza con lo stile giornalistico di “Life”. Redattrice iconografica a Vienna per la rivista “Heute”, dimostra da subito la sensibilità e la prontezza del suo occhio. Non ci sono dubbi sulla qualità del suo sguardo ma il tempo dell’immagine, per lei, non è ancora maturo. La sua attività, tuttavia, la porta costantemente verso la fotografia. E diversi incontri casuali, con il fotografo Ernst Haas, per esempio, si dimostrano decisivi per spingerla in quella direzione. Nel 1949, proprio con Haas, entra in contatto con Magnum Photos, la leggendaria società cooperativa costituita formalmente a New York nel 1947, con sede anche a Parigi. Nella capitale francese, Magnum le propone una collaborazione come ricercatrice e scrittrice. Morath accetta.

Tutto il gruppo di fotografi della famosa agenzia sarà per lei fonte di apprendimento ma, per il suo sviluppo artistico e personale, punti di riferimento insostituibili saranno Robert Capa e Henri Cartier-Bresson.


La fotografia qui pubblicata, senza un titolo specifico, è stata scattata da Inge Morath a Venezia nel 1955.


La fotografia qui pubblicata, senza un titolo specifico, è stata scattata da Inge Morath a Venezia nel 1955.

L’epifania di un istante, dicevamo all’inizio. Nel 1951 Inge decide di fare un viaggio a Venezia con il suo primo marito, il giornalista inglese Lionel Birch, sposato a Londra nello stesso anno. Ha con sé, come sempre, la Contax 35 mm (regalatale dalla madre). Piove e c’è una luce particolare, irresistibile.

Impellente è per lei il bisogno di immortalare la città lagunare. Ma chi può farlo? Forse Capa può mandare qualcuno. Lo chiama e lui risponde: «Perché diavolo non la fai tu una fotografia? ». E così Morath, dopo aver comprato una pellicola e caricato la macchina, sceglie l’angolo che più la attrae e scatta.

Nessuna esitazione, solo gioia e felicità. E la percezione immediata di “sentirsi a casa”, di comunicare con l’obiettivo ciò che aveva dentro di sé. Ma non le basta. Vuole consolidare l’abilità che ha appena scoperto di avere. Torna a Londra e diventa apprendista di Simon Guttmann, uno dei fondatori del fotogiornalismo moderno. Dodici mesi di tirocinio ed è finalmente pronta per proporsi come fotografa. Riprende i contatti con Magnum della quale diventa prima socia potenziale, poi socia effettiva nel 1955.

L’anno successivo viene pubblicato il volume Venice Observed, scritto dall’americana Mary McCarthy con fotografie di Inge Morath, incaricata dalla rivista francese “L’OEil”. Ancora la Serenissima, dunque, con le sue vedute, i suoi scorci, brani di vita quotidiana descritti in modo limpido, schietto, lineare ma anche profondo. Inquadrature prive di incertezze, composizioni che raccontano non per suscitare clamore ma per offrire un punto di osservazione. Niente di più. Testimonianze che, per la maggior parte (un’ottantina), non sono mai state rese note al pubblico italiano e che ora, grazie al progetto espositivo Inge Morath. Fotografare da Venezia in poi (Museo di palazzo Grimani, Venezia, fino al 4 giugno, ingemorathexhibition.com), a cura di Kurt Kaindle e Brigitte Blüml, con Valeria Finocchi, possono essere ammirate.

Intorno a questo inedito focus, molte immagini di alcuni dei suoi reportage che la videro viaggiare dall’Europa agli Stati Uniti, dalla Cina alla Russia – qualche volta anche in compagnia del suo secondo marito, Arthur Miller, sposato nel 1962 e conosciuto un paio di anni prima sul set del film Gli spostati (quando il drammaturgo americano era il marito di Marilyn Monroe) – e una sezione dedicata ai ritratti.

Una produzione varia, portata avanti con il medesimo entusiasmo e stupore del primo istante e sempre fedele a ciò che intimamente Morath ha avvertito come approccio a lei più congeniale giocato sul delicato equilibrio di una duplice visione, esteriore e interiore: «La fotografia è un fenomeno strano. Ti fidi del tuo occhio, ma non puoi evitare di mettere a nudo la tua anima».


ART E DOSSIER N. 407
ART E DOSSIER N. 407
MARZO 2023
In questo numero: STORIE A STRISCE: Avventure gastronomiche di Sergio Rossi; BLOW UP: Inge Morath: la rivelazione di un istante di Giovanna Ferri; GRANDI MOSTRE. 1 - Sayed Haider Raza a Parigi - Nero, the Mother Colour di Valeria Caldelli ; GRANDI MOSTRE. 2 - Warhol a Milano -  Gli stereotipi di massa come nuova classicità di Achille Bonito Oliva ...