Studi e riscoperte. 2 IL COMPIANTO SUL CRISTO MORTO DI ANTONIO CANOVA
NON SOLO UN POETA DELLO SCALPELLO
È STATO IL PIÙ GRANDE SCULTORE DEL NEOCLASSICISMO, SI SA, MA CANOVA SI È DEDICATO ANCHE ALLA PITTURA. ESPRESSIONE CREATIVA, PER LUI, TUTT’ALTRO CHE MARGINALE. IN QUESTO AMBITO, L’OPERA PIÙ NOTA È IL COMPIANTO SUL CRISTO MORTO DI POSSAGNO (TREVISO), COSÌ ORIGINALE DAL PUNTO DI VISTA STILISTICO E FIGURATIVO DA DISORIENTARE ALCUNI CRITICI NEL REPERIRE LE FONTI DI ISPIRAZIONE.
Alessio Costarelli
Pensando alla straordinaria figura artistica di Antonio Canova (1757-1822) è nient’affatto spontaneo rievocare alla mente qualcosa d’altro dalle sue sculture; tuttavia, oltre che poeta dello scalpello, fu anche un ottimo artista del pennello, sebbene una corretta valutazione critica della sua produzione pittorica sia stata a lungo impedita non solo dalla preponderante fama dei capolavori marmorei, ma anche dalla tendenza a stimare molte sue realizzazioni pittoriche alla stregua di semplici fasi progettuali, quando non di banali “divertissement”. Eppure, sia nelle opere pittoriche minori sia in quelle di maggiore impegno, Canova dimostrò sempre una facilità esecutiva e un’originale personalità stilistica tali da giustificare senza remore ai nostri occhi quella sua consuetudine, un poco scanzonata ma nemmeno troppo, di presentarsi a tante illustri personalità europee prima di tutto come pittore, e poi come scultore. Una pratica che suscitava l’ilarità di viaggiatori e amatori d’arte, come ben risulta dalla lettura dei loro diari, ma che evidenzia l’importanza affatto secondaria che Canova attribuiva alla propria pittura, alimentata da un intimo bisogno espressivo, tale da indurlo a conservare per sé (rifiutandone la vendita) la maggior parte delle proprie tele. Di tutte le sue opere pittoriche, la più celebre e celebrata è la grande pala d’altare con il Compianto sul Cristo morto(1), nella chiesa della Santissima Trinità di Possagno (Treviso), dipinta da Canova nel 1799, durante un periodo di ritiro nelle terre natali per allontanarsi dal caos in cui versava l’ex capitale pontificia nei mesi tumultuosi della Repubblica romana. La tela fu realizzata dall’artista come dono alla comunità parrocchiale di quel piccolo e umile paese del Trevigiano, cui era legato per nascita e per il quale poco meno di vent’anni più tardi avrebbe inaugurato il cantiere, totalmente autofinanziato, di completa riedificazione della modesta chiesa, trasformandola nello splendido tempio sacro ancora oggi visibile.
Antonio Canova, Compianto sul Cristo morto (1799-1821), Possagno (Treviso), Santissima Trinità.
Tra i massimi vertici della pittura italiana di primo Ottocento, espressione di una religiosità profonda e intensamente vissuta e al contempo cifra eloquente della non estraneità dell’artista – campione del neoclassicismo europeo – allo spirito e a taluni stilemi del romanticismo, l’opera fu ritoccata dal suo autore nel 1819 e nel 1821.
L’imponente pala si caratterizza per un’intrinseca e radicale originalità che impedisce di trovare, scriveva Ottorino Stefani, «alcun modello convincente, tra i contemporanei, al quale poter essere avvicinata».
L’infiammato trionfo cromatico, il mistico luminismo, la semplificazione compositiva che amplifica la tragicità del messaggio espresso dalla scena hanno lasciato interdetto più di un critico nel tentativo di rintracciarne le fonti figurative e stilistiche, inducendo gli studiosi a paragoni tanto suggestivi quanto raramente calzanti. Il primo a suggerire un collegamento con la pittura misteriosofica di William Blake fu Hans Ost nel 1970, inaugurando una “vulgata” critica ancora molto di moda ma di scarso fondamento. Antonio D’Este, testimone sempre abbastanza affidabile, ben chiarisce che i ritocchi del 1819 si limitarono a interventi conservativi, mentre quelli del 1821, più consistenti nella stesura cromatica e negli effetti luministici, non alterarono alcunché sul piano compositivo(2), sicché l’organizzazione generale del dipinto può dirsi definita già nel 1799, a seguito peraltro di un lungo lavoro di studio, da parte di Canova, che aveva prodotto molteplici disegni e un bozzetto a olio oggi conservato al Museo Correr di Venezia.
Ne consegue la pressoché totale impossibilità per l’artista, allo scadere del secolo, di essere aggiornato sulle principali creazioni del visionario poeta e pittore inglese, con le quali entrò in contatto solo alla fine del 1815, in occasione del proprio unico viaggio a Londra.
Prima di Ost, negli anni Cinquanta era stato Carlo Ludovico Ragghianti a suggerire confronti non meno originali con la pittura di Pietro Lorenzetti e in particolare col suo ciclo assisiate nella basilica inferiore di San Francesco, formulando una lettura in chiave primitivista della pittura di Canova e di tutto un filone dell’arte italiana di primo Ottocento. In effetti erano quelli gli anni, all’inizio del XIX secolo, di un’estesa riscoperta dell’arte tardo-medievale ed è fatto documentato che personalità a essa antitetiche come Canova e Bertel Thorvaldsen la apprezzassero e, per quanto riguarda quest’ultimo, arrivassero perfino a collezionarla. Anche in questo caso, tuttavia, il confronto con la pala di Possagno appare non necessario, a conferma di come, spesso, il ricorso ermeneutico alla “lectio difficilior” offra maggior soddisfazione all’interprete piuttosto che consistenza all’interpretazione.
Immagine fortemente dimidiata tra una metà terrena e umana e una superiore e divina – come solo El Greco aveva immaginato nella sua sontuosa Sepoltura del conte di Orgaz ma che in Canova trova un efficace canale di comunicazione tra le due parti nella figura della Vergine e nel gioco di triangolazioni tra i raggi divini e la posizione dell’Immacolata a braccia aperte –, le reali fonti compositive e stilistiche di quest’opera sono, in fondo, solo due: da un lato, ed è da tempo affermato a partire dalle considerazioni di Ost e Argan, la grafica di John Flaxman; dall’altro, ed è incredibilmente sottostimata, la pittura di Tiziano, artista sommo e in assoluto tra i più ammirati dallo scultore, non di rado oggetto delle sue lodi e, quando possibile, anche dei suoi acquisti.
Flaxman, che aveva vissuto a Roma a strettissimo contatto con Canova tra il 1787 e il 1794 e che a partire dal 1793 aveva dato alle stampe le sue famose illustrazioni (incise da Tommaso Piroli) riguardanti opere di Eschilo, Omero e Dante – di enorme fortuna europea –, rappresenta un riferimento obbligato per lo scultore veneto per larga parte della propria produzione degli anni Novanta: limitandoci al Compianto, la tavola X (Il Sole) e la tavola XXXIII (La beatifica visione) del Paradiso dantesco offrono importanti confronti alla raggiera d’intensa luce proveniente dal volto divino, così come la tavola XXXI (Teti porta le armi ad Achille) dell’Iliade rappresenta una valida fonte per la metà inferiore della tela, col cadavere di Patroclo come Cristo e le figure accessorie riposizionate in maniera sostanzialmente speculare.
È tuttavia Tiziano il vero ispiratore di quest’opera, così come di larga parte della pittura canoviana. Basti confrontare il Compianto con una tavola tra le più ammirate da Canova, sebbene lungamente negletta prima del 1818, l’Assunta di Santa Maria Gloriosa dei Frari, a Venezia, il cui dimidiamento verticale d’impianto raffaellesco e l’intensità del volgersi della Vergine verso l’alta (in ogni senso) figura di Dio prelude all’accorata preghiera della Maria canoviana.
Lo stesso Dio a braccia aperte, circondato da angeli che sfumano nella luce e con la candida colomba dello Spirito santo che discende sul mondo, si giustifica solo in virtù della metà superiore dell’Assunta, ma anche di più tardi capolavori veneziani come la Pentecoste di Santa Maria della Salute e l’Annunciazione di San Salvador. D’altro canto, l’intera tavolozza dell’artista di Possagno, sebbene indulga talora al cangiante nei personaggi al capezzale del Figlio, è di evidente derivazione tizianesca nell’improvviso accendersi e infiammarsi di rossi e ocra impastati con scure terre, e verdi e azzurri profondi. Certo Canova non si spinge – né l’estetica dell’epoca glielo avrebbe consentito – fino a sfilacciare e destrutturare la pennellata in quella peculiarissima forma che tanto spesso ha fatto impropriamente definire “protoimpressionista” l’ultimo Tiziano; ciò nondimeno l’elegante e raffinato scultore neoclassico dimostra di avere pienamente assimilato e rielaborato l’eredità stilistica della scuola veneziana, improvvisamente riattualizzandola come solo la pittura inglese, in quegli stessi anni, era stata capace di fare. Di quella scuola, che si credeva estinta coi Tiepolo, fu Canova invero l’ultimo alfiere, eroicamente tentando di traghettarla nel nuovo secolo senza alcuno strascico decadente, ma con l’inascoltata forza di un glorioso e acuto rinnovatore la cui unica colpa è, forse, di non averci creduto a sufficienza.
Tiziano,
Assunta (1516-1518),
Venezia,
Santa Maria Gloriosa dei Frari.
Tommaso Piroli,
Teti reca le armi ad Achille,
incisione da un disegno
di John Flaxman,
Iliade (1793), tav. XXXI;
Tommaso Piroli,
Il Sole, incisione da un disegno
di John Flaxman,
Divina commedia, Paradiso
(1807), tav. X,
Londra, Royal Academy of Arts.
ART E DOSSIER N. 406
FEBBRAIO 2023
In questo numero: FINESTRE SULL’ARTE: I condottieri della cattedrale di Federico D. Giannini; CORTOON: Animemoria di Luca Antoccia; GRANDI MOSTRE. 1 - Nan Goldin a Stoccolma e a Berlino - A cuore aperto di Francesca Orsi ; GRANDI MOSTRE. 2 - Wayne Thiebaud a Riehen - Un mago e i suoi incantesimi di Valeria Caldelli ...