CERUTI PITTORE PAUPERISTA:
L’ESORDIO BRESCIANO, TRA GENERE E REALTÀ

La produzione di pitture di soggetto popolare concentrata nel periodo bresciano di Ceruti è un fenomeno straordinario: oltre una trentina di dipinti scalati in poco più di dieci anni e che costituiscono «uno degli episodi più alti dell’arte e della coscienza del Settecento europeo»(16).

Roberta D’Adda

Una serie di immagini solenni e monumentali, perlopiù con figure intere a grandezza naturale, caratterizzate da un’intonazione severa e da una tavolozza contenuta, che Roberto Longhi definì con una geniale intuizione «di polvere e di stracci»(17). Una pittura che possiamo osservare guidati dalle parole del suo stesso scopritore, Giuseppe Delogu: «Il colore è tutto sentito col pedale di smorzo; non brilla; s’accorda in toni bassi come di colori a terra; varia dal grigio alle terre d’ombra e di Siena con qualche oscillazione di ocra, dal grigio ferro al grigio tortora, al grigio azzurro; dai morbidi toni del cuoio naturale al marrone […]. La conoscenza della forma è perfetta […] e si manifesta non solo nel fermare la mobile individuale vivacità dei caratteri, la verità di quei volti (che sono ritratti efficacissimi) e nel condurre a compimento felice gli atteggiamenti di queste rozze mani segnate di strane pieghe della pelle e rugose, studiate e “fatte” senza sotterfugi […], ma nel “sentire” in questo originalissimo modo panneggio e stoffa, qualità e quantità di materia soffice in pieghe, in strappi, in sfilacci, in rammendi e frange, in rattoppature e rabberci; del che non si stupisce non già per la gara con la verità di natura […], ma perché pittoricamente, cioè per intrinseca dote rappresentativa, illustre è il pezzo»(18).

Le opere di Ceruti, in questi termini, sono da reputarsi eccezionali, ma al contempo dobbiamo sforzarci di guardarle liberandoci dal retaggio del realismo ottocentesco e senza attribuire al pittore, in maniera del tutto antistorica, intenti di denuncia sociale impensabili nella Lombardia della prima metà del XVIII secolo.

Un’aggiornata disamina della produzione pauperista di Ceruti – vero e proprio leitmotiv della letteratura cerutiana a partire dalla scoperta, nel 1931, del cosiddetto “ciclo di Padernello” – non può prescindere dall’analisi dei precedenti, ovvero di quella tradizione di pittura di genere che aveva conosciuto una particolare fioritura tra Lombardia e Veneto nel corso del Seicento e fino ai primi decenni del Settecento. Prima che intorno al 1721 Ceruti cominciasse a dipingere a Brescia i suoi straordinari pitocchi, non erano mancati infatti nella città e centri circostanti – da Milano, a Venezia, a Bergamo – pittori che avevano fatto dell’illustrazione di figure e scene popolari un tema caratteristico della loro produzione.



Scuola di ragazze (1720-1725 circa), particolare; Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo.

Giacomo Francesco Cipper, detto il Todeschini, Colazione di pitocchi con vecchio suonatore di gironda (1720-1730 circa); Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo.


Antonio Cifrondi, Giovane contadina (1720-1725 circa); Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo.


Monsù Bernardo, Donna che invasa un alberello (1654-1655 circa); Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo.

Antonio Cifrondi, Vecchio sotto la neve (1720 circa); Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo.


Scuola di ragazze (1720-1725 circa); Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo.

Il danese Eberhart Keilh, noto in Italia come Monsù Bernardo(19), l’ancora misterioso Maestro della tela jeans(20), Pietro Bellotti(21) e, venendo a tempi più vicini a Ceruti, il pittore di origini austriache Giacomo Francesco Cipper, detto il Todeschini(22), sono alcuni dei protagonisti di un ambito specifico entro il quale il nostro pittore si colloca in modo del tutto originale(23). Nella sua pittura, infatti, i soggetti della tradizione di genere (i mendicanti, i lavori femminili, le figure di artigiani, i portaroli, i vecchi) ci sono presentati senza alcun intento irrisorio (ovvero senza la grottesca messa in scena di vizi e debolezze) né tantomeno come figure pittoresche portatrici di significati altri (per esempio come allegorie delle stagioni, o del destino). Nell’impossibilità di fare ancora piena chiarezza sulla formazione di Ceruti, uno dei protagonisti lombardi della scena di genere con il quale si può ragionevolmente ipotizzare che il nostro artista abbia avuto un contatto diretto è Antonio Cifrondi, pittore bergamasco originario di Clusone, di quarant’anni più anziano di lui, ospite dal 1722 del monastero benedettino di San Faustino a Brescia, presso il quale morì nel 1730. Specializzato in mezze figure di vecchi, artigiani, zingari e commedianti perlopiù portatrici di significati allegorici e moraleggianti, potrebbe aver instaurato con Ceruti un rapporto di dare e avere, nel cui difficile bilancio dovremmo inserire la straordinaria Contadina da poco entrata a far parte delle collezioni permanenti della Pinacoteca Tosio Martinengo, consacrata da Mina Gregori come «il precedente – o, se vogliamo il parallelo – più diretto» di analoghe figure femminili di Ceruti(24). Il dipinto focalizza la propria attenzione sull’immagine composta e pacata della giovane contadina, ulteriormente rimarcata dal carattere disadorno dell’ambientazione, di fatto limitata alla sola parete di fondo. La vividezza che trapela dal volto genuino della ragazza, segnato dall’accendersi delle gote, rosse come le labbra carnose, è veicolata da due occhi corvini, che si rivolgono all’osservatore in uno sguardo intenso e confidenziale, ben lontano dalle espressioni macchiettistiche e stereotipate, in alcune circostanze addirittura grottesche, che ricorrono nel catalogo dell’artista. Nella sua intonazione dimessa e riguardosa, dove non c’è traccia di forzature allegoriche di sorta, la contadinella dà vita a un dialogo serrato con la pittura coeva di Giacomo Ceruti, misurandosi per esempio con la Scuola di ragazze, uno dei capolavori del cosiddetto ciclo di Padernello. Il grande quadro rappresenta un gruppo di donne riunite in un interno spoglio, dove il gruppo sembra essersi formato aggregandosi via via intorno alle due protagoniste più mature. In silenzio, esse sono occupate con i ferri da calza; la più anziana ha appoggiato il lavoro in un cestino e si dedica a insegnare la lettura a una bambina. Il profilo della donna è sfuggente e sgraziato, forse segnato da una malformazione. Si può immaginare che la scena alluda alla realtà degli istituti di beneficenza per orfane e derelitte, dove alle giovani veniva fornita un’istruzione di base e dove il lavoro costituiva il principale strumento di riscatto.



Calzolai (1725-1730 circa); Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo.

Donna che fa la calza (1730-1734 circa); Montichiari (Brescia), Museo Lechi.


Due portaroli che giocano (1725-1730 circa).

Quello del lavoro del resto è un tema che ricorre nella pittura di Ceruti: la sua lettura non è mai affidata alle scene chiassose dei mercati, poiché l’artista predilige sempre occupazioni silenti, quasi meditative. Così per esempio nei Calzolai o nella Donna che fa la calza, capolavoro pittorico nel quale una stesura rapida e definitiva, eppure capace di infinite variazioni, costruisce il contesto entro il quale va a collocarsi il profilo della donna, stagliato sullo sfondo quasi monocromo. Lo sguardo perso nel vuoto, gli sproporzionati scarponi scuri, l’accumularsi su di lei di troppi strati di vestiti sembrano trasmetterci l’idea dell’ineluttabilità della sua condizione.

Alcune delle scene di Ceruti sono animate da piccoli pretesti narrativi, mai prevaricanti rispetto all’intento principale, che rimane sempre per lui quello della restituzione del dato di realtà. Così per esempio nei Due portaroli che giocano – un tema che altri pittori avrebbero declinato sottolineando con intenti moraleggianti i temi dell’imbroglio e della furbizia – o nella Spillatura del vino, dove un cantiniere che sta riempiendo una brocca di vino rosso volge lo sguardo verso l’osservatore, forse nel tentativo di ignorare il giovane alle sue spalle che porge con invadenza una piccola tazza, elemosinando per sé un po’ della preziosa bevanda.

I dipinti che più ci colpiscono, però, sono quelli in cui non si svolge alcuna particolare azione, poiché questi, più di tutti, ci restituiscono la semplice e al contempo drammatica condizione di fragilità degli umili. Ad esempio, nei Due pitocchi le figure sedute sono rese, senza alcun intento moraleggiante, in gesti quotidiani e quasi senza tempo: il vecchio, a sinistra, stringe un gattino tra le mani, mentre l’uomo più giovane è immortalato nell’atto di aspirare una striscia di tabacco, appoggiata su una mano monca di parte delle dita. L’Incontro nel bosco, addirittura, è un soggetto talmente particolare da non avere precedenti iconografici: una scena inquietante e modernissima, nella quale si fronteggiano una figura femminile e un vecchio; lei, girata, ha il volto coperto, avvolta in una sorta di cumulo di stracci; il vecchio, invece, si volge verso l’osservatore, con lo sguardo strabico e privo di connotazioni emotive. Questo straordinario dipinto, come anche il Pitocco seduto, non sembra essere portatore di alcuna chiave di lettura narrativa o simbolica; ci presenta, piuttosto, la condizione della marginalità come una scena solenne, che trasmette con vividezza un senso di solitudine e miseria.

Tra le opere più stupefacenti di Ceruti va poi ricordato il Nano: rinunciando alle bizzarrie barocche che, da Jacques Callot in poi, giocavano con le figure dei nani trasformandoli in ridicole macchiette stereotipate e deformi, l’artista ci restituisce qui il ritratto di un uomo. Nella pittura di Ceruti, in particolare in questa fase bresciana, i sorrisi comici a bocca schiusa della tradizione di genere spariscono completamente e lasciano spazio agli occhi, che quasi mai mancano di interpellare direttamente l’osservatore, di coinvolgerlo in una riflessione.

I dipinti di poveri di Ceruti popolavano del loro linguaggio crudo e austero le dimore dell’aristocrazia bresciana, distribuiti tra le case di città e di campagna. Questa loro fortuna è, ai nostri occhi, un fenomeno difficile da spiegare: «qui non si trattava già di acquisire periodicamente, con benigna condiscendenza, qualche quadretto ad un pittore bizzarro (però di talento), ma di riempirsi casa e ville di questi suoi “memoranda” insolenti e giganteschi. Era per gusto della buona pittura? Impossibile, perché non era ancor nato il costume che potesse dichiarar buona, che dico, sopportabile, la pittura del Ceruti»(25).

Non sono mancati molti tentativi di spiegare le opere cerutiane realizzate per le dimore aristocratiche bresciane con ragioni di «condizioni di committenza e di fruizione molto favorevoli, forse legate a un particolare sentimento morale o religioso»(26). Le ipotesi avanzate dagli studiosi in questa direzione non hanno avuto sin qui particolari conferme, forse perché non si è ancora individuato con certezza il principale mecenate di Ceruti, ovvero il committente del cosiddetto ciclo di Padernello.

Risulta ormai chiaro che le tredici tele che Delogu vide nel castello bresciano debbano essere considerate parte di un insieme più ampio, che nel 1882 ammontava a ventidue pezzi; passati all’asta della collezione del nobile bresciano Gerolamo Fenaroli (sempre nel 1882), andarono poi dispersi in diverse collezioni.

L’originaria provenienza di queste opere non è documentata: di alcune si sa per certo che appartenevano alla famiglia Avogadro, mentre per altre si ipotizza che venissero dalle residenze di città e di campagna della famiglia Lechi(27). Sia come sia, a Brescia doveva esistere, a quanto sembra, almeno una famiglia che conservava più di quindici opere del pittore. Che l’aristocrazia bresciana fosse incline ad accogliere un linguaggio pittorico così particolare, del resto, è attestato anche dai ritratti che Ceruti realizzò per le famiglie nobiliari al suo esordio in città.



Spillatura del vino (1730 circa).


Incontro nel bosco (1730-1735 circa); Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo.


Filatrice (1730-1734 circa); Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo.

Pitocco seduto (1730-1735 circa); Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo.


Nano (1720 circa).

CERUTI
CERUTI
Roberta D'Adda, Francesco Frangi, Alessandro Morandotti
Giacomo Ceruti, detto il Pitocchetto (Milano 1698-1768), sarà uno dei protagonistidel 2023 nell’ambito delle celebrazioni di Brescia-Bergamo capitali italianedella Cultura. Arriva a Brescia da Milano ventitreenne, e lavora per la nobiltàlocale con ritratti e pale d’altare per più di un decennio; in seguito si trasferiràa Padova e poi definitivamente a MIlano. Soprattutto, è a Brescia che mette apunto un genere suo proprio, se vogliamo, una variante delle scene di stradache concentra l’attenzione sui poveri. Si dedica a dipinti, anche di grande formato,in cui restituisce alla figura del mendicante una dignità che lo distingue dallalegione da tutti quei pittori che vedevano in quei soggetti solo spunti grotteschie canzonatori. Al contrario, con Ceruti – detto il Pitocchetto per questa sua“vocazione” pauperista –si assiste a un primo tentativo di pittura “sociale”. Unagrande mostra, a Brescia (e dall’estate, a Los Angeles), ne ripercorre in questimesi la carriera.