Quello del lavoro del resto è un tema che ricorre nella pittura di Ceruti: la sua lettura non è mai affidata alle scene chiassose dei mercati, poiché l’artista predilige sempre occupazioni silenti, quasi meditative. Così per esempio nei Calzolai o nella Donna che fa la calza, capolavoro pittorico nel quale una stesura rapida e definitiva, eppure capace di infinite variazioni, costruisce il contesto entro il quale va a collocarsi il profilo della donna, stagliato sullo sfondo quasi monocromo. Lo sguardo perso nel vuoto, gli sproporzionati scarponi scuri, l’accumularsi su di lei di troppi strati di vestiti sembrano trasmetterci l’idea dell’ineluttabilità della sua condizione.
Alcune delle scene di Ceruti sono animate da piccoli pretesti narrativi, mai prevaricanti rispetto all’intento principale, che rimane sempre per lui quello della restituzione del dato di realtà. Così per esempio nei Due portaroli che giocano – un tema che altri pittori avrebbero declinato sottolineando con intenti moraleggianti i temi dell’imbroglio e della furbizia – o nella Spillatura del vino, dove un cantiniere che sta riempiendo una brocca di vino rosso volge lo sguardo verso l’osservatore, forse nel tentativo di ignorare il giovane alle sue spalle che porge con invadenza una piccola tazza, elemosinando per sé un po’ della preziosa bevanda.
I dipinti che più ci colpiscono, però, sono quelli in cui non si svolge alcuna particolare azione, poiché questi, più di tutti, ci restituiscono la semplice e al contempo drammatica condizione di fragilità degli umili. Ad esempio, nei Due pitocchi le figure sedute sono rese, senza alcun intento moraleggiante, in gesti quotidiani e quasi senza tempo: il vecchio, a sinistra, stringe un gattino tra le mani, mentre l’uomo più giovane è immortalato nell’atto di aspirare una striscia di tabacco, appoggiata su una mano monca di parte delle dita. L’Incontro nel bosco, addirittura, è un soggetto talmente particolare da non avere precedenti iconografici: una scena inquietante e modernissima, nella quale si fronteggiano una figura femminile e un vecchio; lei, girata, ha il volto coperto, avvolta in una sorta di cumulo di stracci; il vecchio, invece, si volge verso l’osservatore, con lo sguardo strabico e privo di connotazioni emotive. Questo straordinario dipinto, come anche il Pitocco seduto, non sembra essere portatore di alcuna chiave di lettura narrativa o simbolica; ci presenta, piuttosto, la condizione della marginalità come una scena solenne, che trasmette con vividezza un senso di solitudine e miseria.
Tra le opere più stupefacenti di Ceruti va poi ricordato il Nano: rinunciando alle bizzarrie barocche che, da Jacques Callot in poi, giocavano con le figure dei nani trasformandoli in ridicole macchiette stereotipate e deformi, l’artista ci restituisce qui il ritratto di un uomo. Nella pittura di Ceruti, in particolare in questa fase bresciana, i sorrisi comici a bocca schiusa della tradizione di genere spariscono completamente e lasciano spazio agli occhi, che quasi mai mancano di interpellare direttamente l’osservatore, di coinvolgerlo in una riflessione.
I dipinti di poveri di Ceruti popolavano del loro linguaggio crudo e austero le dimore dell’aristocrazia bresciana, distribuiti tra le case di città e di campagna. Questa loro fortuna è, ai nostri occhi, un fenomeno difficile da spiegare: «qui non si trattava già di acquisire periodicamente, con benigna condiscendenza, qualche quadretto ad un pittore bizzarro (però di talento), ma di riempirsi casa e ville di questi suoi “memoranda” insolenti e giganteschi. Era per gusto della buona pittura? Impossibile, perché non era ancor nato il costume che potesse dichiarar buona, che dico, sopportabile, la pittura del Ceruti»(25).
Non sono mancati molti tentativi di spiegare le opere cerutiane realizzate per le dimore aristocratiche bresciane con ragioni di «condizioni di committenza e di fruizione molto favorevoli, forse legate a un particolare sentimento morale o religioso»(26). Le ipotesi avanzate dagli studiosi in questa direzione non hanno avuto sin qui particolari conferme, forse perché non si è ancora individuato con certezza il principale mecenate di Ceruti, ovvero il committente del cosiddetto ciclo di Padernello.
Risulta ormai chiaro che le tredici tele che Delogu vide nel castello bresciano debbano essere considerate parte di un insieme più ampio, che nel 1882 ammontava a ventidue pezzi; passati all’asta della collezione del nobile bresciano Gerolamo Fenaroli (sempre nel 1882), andarono poi dispersi in diverse collezioni.
L’originaria provenienza di queste opere non è documentata: di alcune si sa per certo che appartenevano alla famiglia Avogadro, mentre per altre si ipotizza che venissero dalle residenze di città e di campagna della famiglia Lechi(27). Sia come sia, a Brescia doveva esistere, a quanto sembra, almeno una famiglia che conservava più di quindici opere del pittore. Che l’aristocrazia bresciana fosse incline ad accogliere un linguaggio pittorico così particolare, del resto, è attestato anche dai ritratti che Ceruti realizzò per le famiglie nobiliari al suo esordio in città.