Grandi mostre. 3
VAN GOGH A ROMA

UN CAMMINO
TORTUOSO


LA SUA ARTE ATTRAE, COMUNICA E CONTINUA A SORPRENDERE. IL PROGETTO ESPOSITIVO A PALAZZO BONAPARTE CON UN SIGNIFICATIVO NUCLEO DI OPERE PROVENIENTI DAL KRÖLLER-MÜLLER MUSEUM DI OTTERLO NE È L’ENNESIMA CONFERMA. DI QUESTO, MA ANCHE E SOPRATTUTTO DELLA PERSONALITÀ COMPLESSA DI VAN GOGH, VISSUTO SOLTANTO TRENTASETTE ANNI, CI PARLA QUI LA CO-CURATRICE.

MARIA TERESA BENEDETTI

Vincent non si smentisce neanche in questa occasione, quando incontra il pubblico – come accade nella mostra romana di Van Gogh a palazzo Bonaparte – la sua opera riesce a stabilire una comunicazione captante. È il caso di una personalità che ha avuto vita difficile, senza mai confidare in un’autentica sicurezza di sé, definendosi per esempio in una lettera al fratello Theo «come un cane ispido dalle zampe bagnate che ogni volta che entra in un luogo infastidisce»(1). Dal 1880 al 1890, anno della morte a soli trentasette anni, Van Gogh si dedica completamente all’arte, creando in un breve lasso di tempo una complessità di risultati ignorata totalmente dai suoi contemporanei e oggi riflessa anche in altissime valutazioni di mercato.


I primi cinque anni di attività sono riservati al rapporto con il mondo degli umili della terra olandese, “reinventati”, come afferma Francis Bacon(2), con un realismo che lascia trasparire una vocazione umanissima. Si avverte nei suoi personaggi il senso di fatica, di impegno nel lavoro ma anche la desolazione di esistenze ricche soltanto della speranza di salvezza. La morte di Vincent ha consentito la scoperta di un temperamento capace di toccare note tra le più segrete, individuate da personalità quali Antonin Artaud nello scritto Vincent van Gogh, le suicidé de la société del 1947, Giovanni Testori che ipotizza un luogo altissimo nel quale si può eternamente vivere o essere perduti per sempre e Karl Jaspers che associa la santa follia di Strindberg a quella di Van Gogh. Una testimonianza evidenziata oltre che nell’arte, nella ricchezza della corrispondenza dell’artista con il fratello Theo, la sorella e gli amici, rivelatrice, insieme agli oltre quaranta autoritratti da lui dipinti, della flessibilità e della dolcezza di una natura preziosa, anche nella sofferenza. La mostra che a Roma sta accogliendo folle di visitatori è la testimonianza di un’attrazione che non smette di stupire ma anche di confortare, dal momento che evidenzia la rara possibilità di una comunicazione diretta.

I dipinti del primo quinquennio si concentrano in una oscurità percorsa da barbagli di luce, divenuta luminosità essa stessa, un’energia creativa insolita, tumultuante. Insieme c’è la gratificazione nei confronti di un mondo che rimane immobile rispetto ai cambiamenti già in atto nella società. I suoi contadini che zappano la terra, i seminatori, i boscaioli, i tessitori, i costruttori di piccole capanne dal tetto di paglia, le donne che cullano bambini, cuciono, seminano frumento e raccolgono patate, trasportano il carbone per i minatori, si sottopongono a lavori pesanti, compongono un microcosmo analizzato con dolcezza, consapevolezza della ferocia del vivere. A questo mondo suscitatore di una tensione costante si sostituisce, una volta che l’artista abbandona la sua regione e si reca a Parigi, la scoperta progressiva della bellezza del colore, che incanta e seduce. I due anni parigini mettono Van Gogh a confronto con le direzioni innovatrici della cultura più avanzata: la scomposizione del colore, gli accostamenti di cromie pure, una tecnica che necessita anche di un approccio diverso, mentale, arricchisce la sua esperienza, apre a nuovi risultati. 


Il burrone (Les Peiroulets), Saint-Rémy, dicembre 1889.

L’inquietudine lo spinge a cercare una maggiore luminosità nel paesaggio del Sud; dal febbraio del 1888 si stabilisce ad Arles, in Provenza, dove tutto diviene più brillante e il portato dell’esperienza parigina si somma a un uso del colore sempre più deciso. La speranza di costituire un nucleo di artisti, il desiderio di comunicare con altri, guida Van Gogh al rischio di un’intesa problematica con Paul Gauguin che risulterà fatale, evidenziando le difficoltà di una psiche troppo tormentata per poter reggere il confronto con la realtà. Vincent vede con chiarezza la difficoltà di un avvenire senza controllo, l’eccesso lo disorienta, ha bisogno di essere contenuto nell’alveo di una struttura che lo preservi.

IL LUI SI ALTERNANO MOMENTI DI CRISI E DI FECONDITÀ CREATIVA SEMPRE SORPRENDENTE

Interno di un ristorante, Asnières o Parigi, estate 1887.


Donne nella neve che trasportano sacchi di carbone, L’Aja, novembre 1882.

Così si compie il tortuoso cammino di un vivere sorvegliato e accudito, che diverrà la regola dell’ultimo periodo; alle crisi che lo assalgono si contrappone il ritorno a una fecondità creativa sempre sorprendente, a un modo sempre più originale di penetrare il rapporto con ciò che lo circonda. Mutano decisamente le ampie distese dorate, l’azzurro dei cieli, le turbolenze della natura, la capacità di indagare il paesaggio, ora limpido e vitale ora percorso da fremiti. Turbamento e angoscia si introducono in un rapporto talvolta abbagliante con il mondo. C’è anche la gentile sapienza di raccontare le vicende del filo d’erba, della foglia, del fiore, di una natura che è sempre in grado di dominare lo stato di ansia, di avvertirne l’arrivo, di consumarne il disastro, di ritornare a una composta intesa con il reale. Tutto si svolge nell’ambito di un dramma personale, vissuto consapevolmente e spesso domato, anche se la quota di dolore diviene sempre più vasta e si intravede la necessità di una fine. Tutto si legge per esempio nell’amore del pittore per la complessità erbosa del prato, del giardino dell’ospedale (la struttura psichiatrica di Saint-Rémyde- Provence dove Vincent fu internato da maggio 1889 a maggio 1890) dove si alternano verde chiaro e verde scuro, a creare un’ombra che è anche l’ombra della psiche. La profondità di una forra aperta verso l’abisso è immagine di un abbraccio che si intuisce infine inevitabile. I pini, i cipressi, si ergono verso il cielo ma anche la profondità ha un suo fascino. Piccole figure minutamente delineate, quasi invisibili, raccontano la penetrazione di un mondo che può essere sublimato ma con il quale Vincent vuole mantenere un contatto reale, mai dotato di potere simbolico, perché sente di essere un pittore legato alla terra, alle stagioni.


Autoritratto, Parigi, aprile-giugno 1887.

Ciò è confermato dalla sua reazione di fronte al giovane critico George-Albert Aurier che in un articolo elogiativo sul “Mercure de France” (gennaio 1890) lo considera capostipite del simbolismo. Tutto si concentra su un esistere e un voler fuggire dall’esistere, fino a quando la lotta non diventa improba e non resta che l’abbandono. Tutto si legge nel lavoro dell’artista, il suo amore per la vita, per gli uomini, il suo rapporto con la natura nella quale sente infine il desiderio di abbandonarsi. Vive la conclusione in mezzo a quanto l’ha sempre attratto e conquista una tranquillità che gli è stata raramente riservata, in un epilogo senza drammi apparenti, nella conferma di una pace sempre ricercata e mai realizzata.

(1) Lettera a Theo van Gogh del 15 settembre 1883, in Vincent van Gogh. Scrivere la vita. 265 lettere e 110 schizzi originali (1872-1890), a cura di L. Jansen, H. Luijten, N. Bakker, Roma 2013, p. 476.
(2) Francis Bacon, appassionato estimatore di Van Gogh, dedica all’artista un’esposizione nel 1957 all’Hanover Gallery di Londra. Interesse riconfermato da una successiva mostra organizzata alla Tate di Londra nel 2008-2009.

IN BREVE:

Van Gogh. Capolavori dal Kröller-Müller Museum
a cura di Maria Teresa Benedetti e Francesca Villanti
Roma, palazzo Bonaparte
fino al 26 marzo orario: 9-19, sabato e domenica 9-21
catalogo Skira
www.mostrepalazzobonaparte.it

ART E DOSSIER N. 405
ART E DOSSIER N. 405
GENNAIO 2023
In questo numero: STORIE A STRISCE: Accendere la speranza di Sergio Rossi; BLOW UP: Klein e De Martiis di Giovanna Ferri; GRANDI MOSTRE. 1 - Ri-Materializzazione del linguaggio a Bolzano - Parola di donna di Marcella Vanzo; 2 - Ernst a Milano - Gli allegri mostri di Lauretta Colonnelli; ....