«ABBIAMO SOLO NOI STESSI»:
NARCISISMO E PESSIMISMO

«Questa, disse, so cosa è. La chiesa dell’Estetica»(20).

Gli effetti della “damnatio memoriae” inflitta agli artisti vissuti tra XIX e XX secolo comprendono, insieme alla vendita all’asta dei loro fondi di atelier, anche la distruzione dei loro studi. Nel caso di Fernand Khnopff, la pena inflitta è stata doppia: nel 1922 il suo atelier venne messo all’asta dalla Galerie Giroux, e tra il 1938 et il 1940 venne completamente demolita la sua casaatelier(21). Questa abitazione, disegnata dall’artista nel 1900 insieme all’architetto Édouard Pelseneer (1870-1947), e nota internazionalmente perché pubblicata in numerose riviste europee, comprendeva uno spazio per il lavoro più ampio dello spazio domestico. Come è stato detto, la dimora rifletteva la personalità narcisistica e megalomane dell’artista tanto da essere chiamata, a turno, torre d’avorio, “temple du moi”, chiesa dell’estetismo ecc. Khnopff la concepì come specchio di sé, protezione dal mondo esterno, ma la utilizzò anche per la notorietà che ne traeva all’estero(22). Gli ambienti di lavoro e quelli domestici erano severamente distinti: l’attività artistica doveva svolgersi in uno spazio a sé che fosse anche escluso dal mondo esterno. Il visitatore era accolto in un vestibolo separato da una sbarra dagli altri ambienti, doveva soffermarvisi, raccogliersi in sé e subire come un’iniziazione prima di accedere al “tempio”. Nessun mobile, nessuna stoviglia, questi accessori venivano introdotti dai domestici se necessario, piuttosto vasi di fiori, statuette, opere d’arte, una vasca, delle tende da spostare secondo la volontà dell’artista. Pochissima luce naturale penetrava nello studio, le piccole finestre erano semi-sigillate, il bianco dominante – quasi un prototipo di “white cube” –, al contempo condensazione della potenza della luce e simbolo di purezza astratta. Il blu, invece, colore dalle implicazioni spiritualistiche e teosofiche, nonché il prediletto dell’artista, costellava angoli dell’abitazione e parti di soffitto e vetrate, mentre un ambiente interamente rivestito di lacca blu e di piccole decorazioni in bianco e oro, contenente le opere d’arte a lui più care, era situato al piano più alto della casa-atelier.

Incenso (1898); Parigi, Musée d’Orsay.


Con Grégoire Le Roy. Il mio cuore piange (1889).


foto della casaatelier di Khnopff.


foto di Khnopff con l’altare di Hypnos.

Una stanza per la meditazione, per ascoltare la musica in silenzio e ammirare le opere preferite: il ritratto della sorella, una sanguigna che Burne-Jones gli aveva dedicato, una scultura di Victor Rousseau (1865-1954), delle riproduzioni di Moreau e all’entrata il bozzetto per il Salon de la paix (1849-1850, Parigi, Hôtel de ville) di Eugène Delacroix. Decorazioni dorate si aggiungevano quali annotazioni pittoriche, analoghi contemporanei delle dorature bizantine. Un cerchio, in particolare, all’interno del quale l’artista si posizionava all’inizio della gestazione di un’opera, spesso a occhi chiusi e dopo aver odorato un fiore. Il motivo del cerchio torna costantemente nelle sue opere, come in Mélisande (1907), o Con Grégoire Le Roy (1889), come dispositivo per poter tenere confinata un’immagine, una visione, in modo da tenerla dunque lontana dalla realtà quotidiana.


Nella casa era collocato un altare dedicato al dio greco del sonno, Hypnos, dal quale pendeva una piccola icona bizantina e delle lettere formanti la scritta «On ne [sic] a que soi» (“Abbiamo solo noi stessi”), la divisa dell’artista, assieme a souvenir della famiglia e piccole sfingi dorate. On n’a que soi, non è soltanto un segno di narcisismo, ma è anche il riflesso di una temperie spirituale, opposta al pragmatismo, all’epoca incarnato dal positivismo e dal materialismo. È il ripiegamento su di sé, un pessimismo alimentato dalla consapevolezza che tutto è vanità. Non a caso tra le presenze di questo tempio si trovava un pavone bianco impagliato, animale dalle numerose interpretazioni iconologiche: simbolo di superbia (non si mescola agli altri animali), ma anche di morte, resurrezione ed eternità. L’altare era sormontato da una copia dell’Hypnos (I-II secolo, Londra, British Museum), ricorrente nell’opera di Khnopff; è rappresentato con una sola ala – che l’artista ha dipinto in blu – a ricordare la sua natura di creatura partecipe di due mondi, materiale e spirituale.

Compare in Un’ala blu (1894), ma anche in Chiudo la porta su me stessa (1891), uno dei dipinti più noti, che prende il nome da un verso di una poesia di Christina Georgina Rossetti (1830-1894) – sorella di Dante Gabriel, che Khnopff aveva conosciuto –: Chi mi libererà, che è anche il titolo di un altro disegno di Khnopff.


Foto di interni della casa-atelier di Khnopff.


Un’ala blu (1894); Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique. Khnopff disegnò la sua casa-atelier, ispirato dall’architettura di Joseph Hoffmann con il quale collaborerà per la decorazione del palazzo Stoclet nel 1905. Concepita come tempio dell’io, chiesa dell’estetica secondo alcuni, e situata in prossimità del Bois de la Cambre, grande parco cittadino, confinante con la Foresta di Soignes, allora alla periferia di Bruxelles, sarà distrutta alla morte dell’artista, tra il 1938 e il 1940.

Un’atmosfera autunnale fa da cornice al dipinto, in cui ciascun elemento contribuisce a una sospensione temporale, a una chiusura tanto claustrofobica quanto necessaria. Siamo probabilmente nell’atelier dell’artista: lo testimoniano il pannello di fondo con il gesso di Hypnos al quale è associato un papavero (oppio), fiore del sonno a sua volta, ma anche il telo nero e la presenza di un altro dipinto a destra. Tre emerocallidi sono raffigurate in primo piano, forse appassite o soltanto chiuse a indicare che ci troviamo in una scena notturna: simili a gigli, esse fioriscono al mattino ma al crepuscolo si chiudono. Sulla sinistra, Khnopff gioca con l’ambiguità, non è chiaro se siamo in un interno o in un esterno e se i cerchi siano specchi oppure solamente disegnati sulla parete, una lancia rimanda a un altro dipinto dell’artista (Giglio arum) e alle sue frequentazioni esoteriche. Anche la donna, dalla rossa capigliatura – eco preraffaellita – con la sua posa malinconica sembra condurre a una dimensione terza, alternativa alla morte così come alla veglia. Lo sguardo translucido, ambiguo, i gomiti né abbandonati né rigidi ne fanno un’icona simbolista, in stato meditativo se non addirittura ipnotico. «Chiudo la porta su me stessa», il verso di Christina Rossetti, tuttavia, non è tanto un invito alla meditazione o all’introspezione, ma quasi una risposta nevrotica, un’esigenza di chiusura alla realtà esterna e ai suoi abitatori. «God Strengthen Me to Bear Myself»: “Dio aiutami a sopportare me stessa”, scrive la poetessa sulla falsariga di Baudelaire. Il tutto avviene annullando la vitalità, in una declinazione simbolista del “memento mori”. L’opera fu uno dei primi successi internazionali di Khnopff, nel 1892 fu esposto dapprima ai XX, poi alla New Gallery di Londra e alla Walker Art Gallery di Liverpool, quindi nel 1893 al secondo Salon de la Rose-Croix e a Monaco, al Glaspalast, dove fu acquistato dallo Stato.

Chiudo la porta su me stessa (1891); Monaco, Neue Pinakothek.
Khnopff frequentò i pittori e i poeti preraffaelliti inglesi. Da Who Shall Deliver Me?, poesia di Christina Rossetti, sorella di Dante Gabriel, trasse ispirazione per il dipinto omonimo e per Chiudo la porta su me stessa, dipinto enigmatico e crepuscolare, tra i primi successi internazionali dell’artista. Lo scenario autunnale, l’espressione della donna e la scultura del dio greco del sonno, Hypnos, sono tra gli elementi che concorrono al sentimento di solitudine malinconica narrata dalla poetessa inglese.


Abbiamo solo noi stessi (1892), ex-libris dell’artista; Bruxelles, KBR - Bibliothèque Royale de Belgique.

L’opera forma una sorta di dittico insieme al pastello Vicino al mare (1890) eseguito appena un anno prima. Un’atmosfera comune pervade le due opere, anche qui Khnopff, in effetti, immortala una giovane donna dallo sguardo ipnotizzante, racchiusa, ancora una volta, in un mondo di ricordi. Tuttavia, alcuni elementi ne fanno il completo opposto di Chiudo la porta: alla totale chiusura di questo si oppone l’apertura sulla sinistra, che dà verso il mare, ai fiori appassiti risponde un fiore forse ancora non dischiuso, a uno sguardo melanconico risponde uno sguardo meno inquieto. La bolla, di maeterlinckiana e rodenbachiana memoria, tornerà altre volte nel lavoro di Khnopff, non sempre come simbolo di chiusura ma anche come elemento magico. Un anno dopo Abbiamo solo noi stessi diventa l’ex-libris dell’artista.


In riva al mare (1890).


Ritratto di Mademoiselle Van der Hecht (1883); Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique.

Vi ritorna l’emerocallide, stavolta in piena fioritura, insieme a una clessidra distesa, che rimanda a un altro motto dell’artista, ossia l’impossibilità di misurare il presente e il trascorrere del tempo, dal momento che nell’immaginario dell’artista esistono soltanto il passato e il futuro – «passé» e «futur» erano iscritti sul portone d’ingresso della sua dimora. In quest’ottica, allora, potremmo anche tentare di leggere Chiudo la porta e Vicino al mare come tentativi di immortalare la fugacità del presente. La chiusura, la sensazione di claustrofobia non è solamente il riflesso di uno stato d’animo inquieto, ma corrisponde anche all’esigenza di svuotarsi della realtà.


Anche la fotografia, che ha occupato un posto centrale nel lavoro di Khnopff, non soltanto sotto forma di riproduzioni, album di opere d’arte, antiche e contemporanee, ma in quanto pratica artistica vera e propria, rientra in questa ricerca sul tempo. Spesso l’artista ritoccava le sue fotografie o foto delle proprie opere, che faceva eseguire ad Arsène Alexander, mescolando varie tecniche. Non ci sono pervenuti autoritratti, l’artista si ritrasse molto raramente, cosa che potrebbe sorprendere visto che ci troviamo davanti a una personalità di tipo narcisistico. Tuttavia, la pratica dell’autoritratto appartiene a uno dei tanti generi esclusi da Péladan, al quale Khnopff era vicino; ritrarsi, inoltre, se assume delle sfumature introspettive, è anche un’analisi del reale, del fenomeno ottico, un’assunzione di esistenza. In altri lavori, invece, è Khnopff stesso che appare in forma idealizzata e metamorfizzata come androgino.

KHNOPFF
KHNOPFF
Laura Fanti
Fernand Khnopff (Dendermonde 1858 - Bruxelles 1921) doveva diventare avvocato,per tradizione familiare. Per fortuna frequentò le compagnie che i genitoriconsideravano sbagliate e divenne pittore. Si legò soprattutto all’ambientesimbolista, anche letterario. Perseguiva le vie che portavano al mistero, all’inspiegabile,in netta opposizione al clima razionalista e positivista dominantenelle élite intellettuali europee del suo tempo. Strade percorribili solo dall’arte,chiave privilegiata della porta che conduce in un altrove venato di misticismo.Ciononostante, le sue opere si presentano modernissime nella composizionee nel taglio “fotografico”, incardinate su una assoluta padronanza del disegno.Protagoniste frequenti, nelle sue opere, donne fatali e ambigue, insidiose, incantatricisfingi moderne. Molte mostre, a pandemia accantonata, celebrano ora ilcentenario della morte dell’artista.