TerribiliTà e fierezza:
gli esordi del rosso‌

Il giudizio che Giorgio Vasari dà del Rosso Fiorentino è uno dei più elevati fra quelli che si possono leggere nelle sue Vite.

Non tanto perché il biografo sia alieno dal pronunciare encomi (talora perfino sperticati, rispetto all’effettive virtù dell’interessato), quanto perché si tratta d’un elogio d’ampio spettro, il Rosso «era, oltra la pittura, dotato di bellissima presenza; il modo del parlar suo era molto grazioso e grave; era bonissimo musico, et aveva ottimi termini di filosofia, e quel che importava più che tutte l’altre sue buonissime qualità, fu che egli del continuo nelle composizioni delle figure sue era molto poetico, e nel disegno fiero e fondato, con leggiadra maniera e terribilità di cose stravaganti, e un bellissimo compositore di figure. Nella architettura fu eccellentissimo e straordinario, e sempre, per povero ch’egli fosse, fu ricco d’animo e di grandezza» (Vasari, IV, pp. 473-474).


Con quello che le fonti e poi gli storici hanno tramandato riguardo alle stravaganze (per non dire stramberie) degli artisti di primo Cinquecento e con quanto dello stesso Rosso spregiudicato com’era per solito si pensa, le parole di Vasari suonano financo inattese. Andrà però subito detto che sul giudizio dell’aretino hanno un loro peso anche le vicende occorse al Rosso nell’ultimo tratto della sua esistenza: quello che va dal 1530 al 1540, la stagione cioè che lui visse alla corte del re di Francia, Francesco I. Non che prima di quei tempi davvero fulgidi e d’altissimo prestigio il Rosso fosse stato digiuno di musica o di filosofia o di poesia e non fosse stato un gran pittore, certo è però che a Parigi e a Fontainebleau (luoghi dell’apoteosi di lui, divenuto artefice internazionale) la sua cultura s’affinò di molto nelle relazioni ch’ebbe modo d’allacciare nella cerchia degl’intellettuali vicini al re. Fra i quali, molti peraltro erano toscani. E Vasari non manca di serbarne memoria, quando scrive che al suo arrivo «fu con molte carezze dalla nazione fiorentina ricevuto» (Vasari, IV, p. 486).

Di sicuro il Rosso poté contare alla corte di Francia sul sostegno di tanti suoi consentanei che avevano lasciato non solo Firenze ma anche l’Italia per ragioni politiche. Qualcuno l’aveva conosciuto prima di pervenire nelle stanze di Francesco I. Saranno, anzi, stati soprattutto gli uomini che avevano potuto apprezzare le doti di lui avanti la trasferta francese, a dare referenze decise delle sue capacità. Referenze che dovevano essere d’assoluta attendibilità, altrimenti non si spiegherebbe la fiducia che il re gli dette subito dopo il suo arrivo. Scrive di nuovo Vasari cui non avranno fatto difetto le informazioni che proprio dalla Francia venivano per bocca di coloro che rientravano in patria che il re dette al Rosso, appena arrivato, «una provisione di quattrocento scudi» e gli regalò una casa a Parigi; dove l’artista tuttavia visse poco perché il suo luogo obbligato era Fontainebleau. Era lì che Francesco I, dotandolo d’una residenza, l’aveva nominato «capo generale sopra tutte le fabriche, pitture et altri ornamenti» (Vasari, IV, p. 486).


Se Vasari dice il vero riguardo alle cariche così precocemente assegnate dal re al Rosso, è difficile pensare che gli fossero

state affidate senza che lui fosse stato preceduto da una fama indiscussa di pittore, ma anche d’architetto (visti gl’incarichi ardui che gli furono dati proprio nella progettazione d’edifici); soprattutto se si pensa che davvero Francesco in pratica gliele assegnò appena il fiorentino mise il piede a Parigi. Davvero la «presenza, il parlare e la maniera del Rosso» avranno sedotto il re; e del pari n’avrà sentito il fascino per esser lui «in tutte le sue azzioni grave, considerato e di molto giudizio» (Vasari, IV, p. 486).


Pietà (1537-1540); Parigi, Louvre.


La Vergine sul poggio del santo sepolcro (1513 circa); Marignolle (Firenze), tabernacolo in via delle Campora.

Al di là d’ogni considerazione, quel che balza evidente è che il Rosso godé in Francia di riconoscimenti regali, potendo beneficiare d’una considerazione che mai in patria aveva neppur lontanamente conosciuta. I soggiorni in molti differenti luoghi d’Italia non erano stati cagionati da commissioni pervenutegli numerose. Le sue trasferte erano state, anzi, più che altro conseguenza della necessità di trovare mecenati o della ricorrente insoddisfazione da parte di chi gli aveva ordinato un’impresa restandone poi deluso. Piombino, Napoli, Volterra, Roma, Borgo San Sepolcro, Città di Castello, Arezzo, Venezia: queste le città in cui il Rosso operò in una decina d’anni, o poco più; dal 1519 al 1530. E vi lasciò opere di gran piglio; senza però un pari riscontro nell’apprezzamento degli altri. E in nessun luogo trovò posa.


Fu la sua lingua a incontrare le maggiori difficoltà. Cultore appassionato della tradizione fiorentina, ne prospettava una lezione spregiudicata e anticonformista, che quasi sempre risultava di comprensione disagevole. Né si può dire che in futuro egli abbia potuto contare su letture benevole o almeno chiarificatrici. Di tutte le lodi che Vasari gli tributa è difficile trovar traccia nell’esegesi della sua espressione, preferendo, i più, insistere su quei caratteri essi pure peraltro tramandati dal biografo aretino che finiscono per intrupparlo nel novero degli artefici bizzarri, cui si ama riferirsi in ossequio ai luoghi comuni del cosiddetto “manierismo”.

In Francia, dove invece s’è visto fin da subito apprezzato, il Rosso chiude la sua vita (tragicamente, si narra) con un Cristo morto “in pietà” di lirica altissima, ora conservato al Louvre. Quello del Cristo morto è un tema che costella tutta l’attività del pittore. È, anzi, suggestivo rammentare che proprio con un «Cristo morto» principia la Vita vasariana di lui. 

Opera importante per la comprensione del Rosso; non solo perché iniziale, ma anche perché Vasari ne fa l’emblema del suo eloquio d’esordio: «Disegnò il Rosso nella sua giovanezza al cartone di Michele Agnolo, e con pochi maestri volle stare all’arte, avendo egli una certa sua opinione contraria alle maniere di quegli; come si vede fuor della Porta a S. Pier Gattolini di Fiorenza, a Marignolle in un tabernacolo lavorato a fresco per Piero Bartoli con un Cristo morto, dove cominciò a mostrare quanto egli desiderasse la maniera gagliarda e di grandezza più degl’altri, leggiadra e maravigliosa» (Vasari, IV, p. 474). L’affresco, creduto perso, è stato nel 1989 rinvenuto, ancorché in una condizione, purtroppo, larvale. Ma quanto è sopravvissuto alle intemperie basta a certificare la veridicità del giudizio di Vasari, giacché l’impaginazione non convenzionale del dramma una Madonna col Bimbo seduta sul medesimo poggiolo del sepolcro in cui il cadavere del Figlio, sorretto da un uomo barbuto, sta per esser tumulato, al cospetto d’un adunco san Girolamo è specchio fedele dell’anticonformismo e della fierezza evocati dal biografo. E parimenti lo sono, sia la cromia asprigna e rossiccia di panni e carni, sia taluni brani di sembianze grifagne, com’è la mano artigliata di Maria (caratteri che fra poco ritroveremo nell’Assunzione del Chiostrino dei voti all’Annunziata di Firenze, di poco successiva alla pittura del tabernacolo di Marignolle).


Assunzione della Vergine (1513-1514); Firenze, Santissima Annunziata, Chiostrino dei voti.

Ritratto di giovane in nero (1512-1513); Firenze, Uffizi. Gli alteri ritratti maschili di Rosso Fiorentino, eseguiti probabilmente prima di allontanarsi da Firenze intorno alla fine del secondo decennio del Cinquecento, sono contraddistinti da un naturalismo intenso e da una vivace adesione al naturale, resa anche grazie alla vibrante stesura pittorica che caratterizza le vesti gonfie e le peculiari sembianze anatomiche proprie dei suoi modi espressivi.


Ritratto virile (1514 circa).


Ritratto di giovane (1513-1514); Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie.

Nella letteratura critica s’è tuttavia troppo insistito sulle parole che Vasari spende per esibire l’originalità del Rosso: «con pochi maestri volle stare all’arte, avendo egli una certa sua opinione contraria alle maniere di quegli». Parole forzate fino al segno d’indurre all’ipotesi che lui di maestri non n’avesse voluti (il che ovviamente dava fiato all’immagine vagheggiata d’un Rosso ribelle e un po’ bohémien). Però «pochi maestri», non vuol dire nessun maestro. Può semmai significare che il Rosso abbia frequentato in maniera anomala più d’una bottega. E la congettura sarebbe confortata dall’evocazioni (che si scorgono nelle sue prime prove) della “scuola di San Marco” (Fra Bartolomeo in testa) insieme a quelle della “scuola dell’Annunziata” (Andrea del Sarto e, forse soprattutto, il Franciabigio; che d’Andrea fu nella forma più massiccio e financo rude). D’altronde il Rosso già nel 1511 è nel Chiostrino dei voti dell’Annunziata, s’è vero come io convintamente ritengo, che la sua mano si possa cogliere nel Viaggio dei magi, affrescato quell’anno dal Sarto giusto nel chiostrino. È sua sia nell’invenzione che nella fattura la figura di giovane altero che si volta di scatto verso lo spettatore; cui mostra le spalle, intabarrato in vesti ridondanti: presenza talmente icastica, viva e monumentale, da bilanciar da sola la calca del séguito dei magi, assiepata nella metà destra del lunettone.

Un confronto con la quasi dirimpettaia Assunzione, commissionata al Rosso nel 1513, mi pare avvalori la congettura del suo intervento nell’affresco allogato ad Andrea: gli apostoli, a naso ritto e occhi semichiusi per guardare una Vergine che sale nella chiarità dei cieli, sono letteralmente ingolfati di panneggi a crescenza e sono stipati sul proscenio con la stessa aspirazione alla grandiosità del giovane sulla ribalta del Viaggio dei magi. Scrive Vasari a proposito degli apostoli del Rosso all’Annunziata: «fecevi gli Apostoli carichi molto di panni, e di troppa dovizia di essi pieni: ma le attitudini et alcune teste sono più che bellissime» (Vasari, IV, p. 475).

Dalle ultime parole di questa frase si potrebbe prendere lo spunto per assegnare al Rosso la paternità di due ritratti che, proprio per il loro naturalismo vibrante, verisimilmente rimontano a questa stagione di lui. Vien di dire, anzi, che soltanto le teste «più che bellissime» degli apostoli (informate a un realismo spiccato) giustificano l’ascrizione al Rosso di due effigi che, senza il termine di riferimento dato dall’affresco all’Annunziata, sarebbero d’assai ardua decifrazione attributiva: uno è il Ritratto di giovane in nero degli Uffizi, l’altro è un Ritratto virile di collezione londinese. Entrambe l’effigi segnate da un’adesione al naturale che nelle fisionomie si fa financo acre, come appunto accade nelle facce degli apostoli del chiostrino si situano ai primi anni del secondo decennio del Cinquecento. Mentre però il quadro fiorentino, che nell’abito si mostra di più fluente e morbida maniera, trova un’adeguata sistemazione in prossimità del discepolato col Sarto (sul 1512-1513 circa), l’altro manifesta ormai una sintonia formale coi dodici sotto l’Assunta, andando a disporsi sul 1514. I due ritratti sarebbero pertanto parte di quel gruppo d’opere di cui serba memoria Vasari quando prima di rammentare l’impegno del Rosso per l’ingresso trionfale di papa Leone X a Firenze (1515) e prima di ragionare della trasferta di lui a Piombino (1519) scrive: «E per le case de’ cittadini si veggono più quadri e molti ritratti» (Vasari, IV, p. 476). La sequenza dei quali allo stato delle conoscenze correnti vedrebbe il giovane in nero degli Uffizi seguìto dall’uomo di collezione londinese, e poi il Ritratto di giovane della Gemäldegalerie di Berlino (dove un tempo si voleva riconoscere il volto del Rosso da lui medesimo dipinto) e il Ritratto di giovane con lettera della National Gallery di Londra, datato 1518. Poco avanti alla generica segnalazione dei «molti ritratti» nelle dimore dei fiorentini, Vasari che per il Rosso è teste per lo più affidabile, avendolo anche direttamente conosciuto aveva raccontato una vicenda ch’è fra le più famose delle Vite (Vasari, IV, pp. 475-476). La storia riguarda la tavola degli Uffizi nota come la Pala dello spedalingo, in cui è figurata una Madonna col Bimbo in braccio al centro d’un convegno di quattro santi. L’opera era stata nel 1518 allogata al Rosso da Leonardo Buonafede (spedalingo, appunto, di Santa Maria Nuova) in veste d’esecutore d’un lascito di una vedova catalana. Il Buonafede, a detta del biografo, sarebbe fuggito inorridito alla vista della tavola «abbozzata», dove «tutti quei santi» gli eran sembrati «diavoli». Vasari precisa che lui, essendo «poco intendente di questa arte», ignorava che il Rosso aveva «costume nelle sue bozze a olio di fare certe arie crudeli e disperate, e nel finirle poi addolciva l’aria e riducevale al buono».


Madonna col Bambino e quattro santi (Pala dello spedalingo) (1518); Firenze, Uffizi. Alla fine di gennaio del 1518 Leonardo Buonafede, che ricopriva l’incarico di spedalingo di Santa Maria Nuova, affidò al Rosso l’esecuzione di una pala d’altare per la chiesa fiorentina d’Ognissanti. La tavola degli Uffizi, che rappresenta la Madonna in trono col Bambino e i santi Giovanni Battista, Antonio abate, Stefano e Girolamo, rimase incompiuta e fu in parte ridipinta per contrasti di natura ideologica intercorsi tra il Rosso e il monaco certosino. Per questa ragione i santi Benedetto e Leonardo, previsti nell’originario atto di commissione, furono mutati in Antonio abate e Stefano, e la tavola venne confinata nella chiesa di Santo Stefano a Grezzano in Mugello, pieve di patronato dell’ospedale di Santa Maria Nuova.

Lo spedalingo per conseguenza, ritenendosi ingannato, scappò via da quella casa e «non volle la tavola», che avrebbe dovuto andare su un altare della chiesa fiorentina d’Ognissanti e finì invece a Santo Stefano a Grezzano nel Mugello. Il ragguaglio, quantunque abbia il sapore dell’aneddoto, contiene un fondo di verità. Carte d’archivio e analisi scientifiche hanno infatti confermato che una controversia ci fu davvero; e fu così dura da portare alla rottura delle relazioni fra la committenza e l’artista, e addirittura a cambiare l’identità di quei santi che nella tavola evocavano, per omonimia, i protagonisti dell’allogagione. Ma la ragione del conflitto non risiedeva verisimilmente nell’ignoranza del Buonafede; che fra l’altro d’arte invece s’intendeva assai: a Firenze, per esempio, promosse commissioni cospicue, fra cui andrà rammentata quella che alla metà degli anni Venti portò il Pontormo ad affrescare le storie della Passione nel Chiostro grande della certosa del Galluzzo.


È senza dubbio più credibile che a indurre il Buonafede a rigettare l’opera sia stata semmai una disposizione ideologica distante da quella del Rosso. E forse proprio l’allogagione al Pontormo degli affreschi alla certosa può esserne una prova. Si sa che Jacopo fu artista vòlto all’eclettismo linguistico; e le storie da lui dipinte nel chiostro della certosa lo testimoniano apertamente con quell’adesione risoluta alle stampe di Dürer d’identico soggetto. Il Rosso, invece, che tenne sempre a modello la tradizione fiorentina, a quella si rifece convintamente ognora, mai o quasi mai indulgendo ad assunzioni da lingue allogene. E se si osserva la pala rifiutata dal Buonafede (oggi agli Uffizi) ci s’accorgerà che le figure dei santi e della stessa Madonna sarebbero difficilmente comprensibili senza la scultura di Donatello, da tutti a Firenze guardato come uno dei padri dell’Umanesimo e dunque rappresentante d’assoluto spicco di quella stessa tradizione.

ROSSO FIORENTINO
ROSSO FIORENTINO
Carlo Falciani, Antonio Natali
Giovanni Battista di Iacopo di Rossi detto Rosso Fiorentino (Firenze 1494 Parigi 1540) è considerato uno dei massimi interpreti del manierismo italiano. Sin dalle prime, importantissime opere che gli vennero commissionate risulta evidente il suo slancio ribelle alle costrizioni di un classicismo ormai in crisi. Spirito aggressivo e iconoclasta, Rosso Fiorentino diede nelle opere successive un contributo fondamentale alla corrente più ricca e inquietante della maniera, proponendo composizioni tormentate, convulse e animate da un espressionismo tale da rasentare la caricatura. Tra il 1523 e il 1527 fu a Roma, dove venne a contatto con le opere di Raffaello e di Michelangelo. Operò quindi a Sansepolcro, a Venezia e infine in Francia, dove venne chiamato da Francesco I e nominato pittore ufficiale di corte, dedicandosi, negli anni trenta del Cinquecento, alla decorazione del Padiglione di Pomona e alla decorazione della Galleria del Re nel Castello di Fontainebleau, opera che resta la più grande dell'artista e alla quale si rifaranno i maestri del manierismo internazionale. L'autore, profondo e appassionato conoscitore dell'artista, traccia nelle pagine di questo volume un suo personale profilo, offrendo numerosi spunti di riflessione sull'arte di uno dei più spregiudicati e poetici artefici della storia artistica dell'Occidente.