Allo stesso modo le stagioni teatrali al Metropolitan Opera di New York e i concerti a San Francisco furono costellati dall’acquisto di dipinti rintracciati con fine intuito in collezioni private e nelle gallerie degli antiquari, in primo luogo presso il noto Frederick Mont che dal 1948 riforniva di dipinti antichi europei, e in particolare italiani, tanto i musei quanto le collezioni private americane, in primo luogo la Kress Collection. Mont aveva abbandonato precipitosamente Vienna nel 1938, al tempo dell’annessione dell’Austria alla Germania nazista, e, lasciata la galleria Sanct Lucas, si era rifugiato negli Stati Uniti dove si era legato a Wilhelm Suida e alla figlia Bertina Suida-Manning la quale andava incrementando con dipinti italiani del Sei-Settecento, scelti insieme al marito Robert Manning, la collezione ereditata dal padre nel 1959.
Presso Frederick Mont e in casa Suida-Manning il maestro Molinari Pradelli incontrava Federico Zeri, da subito estimatore della sua collezione che in quegli anni prendeva forma grazie al suo felice intuito e a un’indubbia competenza nella ricerca di opere sconosciute e nella riscoperta di artisti dimenticati. In una lettera del 21 ottobre 1968 Zeri si complimentava con il maestro per l’acquisto del Ratto di Europa del veronese Alessandro Turchi effettuato proprio nella galleria di Mont ed era felice di comunicargli che la tela, un tempo appartenuta a Lucien Bonaparte, fratello di Napoleone, era tra le poche riprodotte con trascrizione incisoria nel manuale di Giovanni Rosini edito nel 1852. Affrontava allora lo studio del dipinto il giovane Erich Schleier, all’Università di Pittsburgh come “Mellon postdoctoral fellow”, che incontrava il maestro nel caffè dell’Empire Hotel, di fronte al Lincoln Center.
L’epistolario di casa Molinari Pradelli svela un intreccio sorprendente di relazioni con gli storici dell’arte, agevolato dai frequenti viaggi internazionali cui il maestro era costretto dal successo della sua professione. Roberto Longhi, Giuliano Briganti, Mina Gregori, Ferdinando Bologna, Luigi Salerno, e inoltre Marcel Roethlisberger, Robert Enggass, Dwight C. Miller e numerosi altri illustri storici dell’arte figurano tra i suoi corrispondenti; ma si ingannerebbe chi pensasse che la collezione si sia formata grazie ai suggerimenti e alle segnalazioni degli storici dell’arte. Non era consuetudine di Francesco Molinari Pradelli servirsi di consiglieri al momento di acquistare un dipinto, né avvalersi di expertise commerciali. Uomo determinato, era capace di decisioni coraggiose e di scelte drastiche, pur consapevole degli inganni che il mercato d’arte tende ai dilettanti, e non solo, tanto da ribaltare gli orientamenti della collezione.
Era capace di decisioni coraggiose e di scelte drastiche, pur consapevole degli inganni che il mercato d’arte tende ai dilettanti, e non solo
Negli anni Cinquanta diede vita a una raccolta cospicua di dipinti dell’Ottocento italiano, ma alla fine di quel decennio si convertì alla pittura barocca liberandosi in breve di svariate decine di dipinti. Mina Gregori che aveva avuto modo di incontrarlo, a New York, nell’inverno del 1969-1970, aveva ricavato la netta sensazione che per la maggior parte degli acquisti il maestro avesse scelto da solo, in piena autonomia, «dovendolo fare alla prima», racconta. E sono ormai leggendari i suoi incontri con i conoscitori della pittura bolognese nel vecchio Istituto di storia dell’arte dell’Università, dove era solito recarsi portando con sé le fotografe e in qualche caso tenendo sotto braccio il dipinto di piccolo formato rintracciato in capo al mondo, per sollecitare i pareri di Stefano Bottari, di Francesco Arcangeli e dei giovani Carlo Volpe e Renato Roli, avendo in realtà per proprio conto riconosciuto la qualità, l’importanza storico-artistica e in più occasioni anche la paternità dell’opera assicurata alla collezione, come ha ricordato lo storico dell’arte Eugenio Riccomini, testimone oculare e neofita promettente di quel memorabile cenacolo bolognese, all’ombra di Roberto Longhi.
Nell’evocare il duplice aspetto della personalità di Francesco Molinari Pradelli quale direttore d’orchestra di fama internazionale e sensibile collezionista di pitture dei secoli barocchi, la mostra che si inaugura a Firenze nella Galleria degli Uffizi l’11 febbraio mette in fila cento dipinti della sua collezione, tra i duecento circa che la compongono, tuttora di proprietà degli eredi del maestro scomparso nel 1996; alterna dipinti e immagini fotografiche dei successi musicali del celebre direttore, con approfondimento dei rapporti trentennali con il Teatro comunale di Firenze e con il Maggio musicale fiorentino, nuclei di opere rappresentative delle diverse scuole artistiche del Sei-Settecento (da quella lombarda a quella veneta, da quella emiliana a quella toscana, da quella romana alla napoletana) e filmati di memorabili esecuzioni nei principali teatri, immagini della residenza del maestro nella pianura bolognese che ospita la collezione e, accanto, capolavori consacrati dalla critica quali il Ratto d’Europa di Guido Cagnacci, la Maddalena in estasi di Marcantonio Franceschini e la Sacra Famiglia di Sebastiano Ricci, dipinto di superba esecuzione pittorica cui andavano le predilezioni di Molinari Pradelli che l’aveva acquisito a caro prezzo presso l’amico Frederick Mont. Ma su tutti domina la sala con il nucleo strepitoso delle nature morte che ha reso universalmente nota la collezione già al tempo della storica mostra sulla natura morta italiana realizzata nel 1964 a Napoli e quindi a Zurigo e Rotterdam e che meritò al suo artefice il riconoscimento di antesignano dei moderni studi su quel genere di pittura.