I DECENNI DEL
RISORGIMENTO

Una giovane donna, con un seno sensualmente scoperto, regge mestamente una croce e un libro.

Sulla costola, in rosso color sangue, il titolo Storia d’Italia, sulla croce le date delle Cinque giornate di Milano (marzo 1848). La Meditazione, ovvero L’Italia nel 1848, è il dipinto noto in due varianti che più d’ogni altro simboleggia i drammatici anni dei moti risorgimentali. Il suo autore, Hayez, aveva contribuito a finanziare i moti milanesi del Quarantotto. Nella figura discinta della “giovane Italia” alla quale forse non resta che meditare sulle proprie sventurate sconfitte e allattare i propri figli, il pittore lascia occulta allusione ai tragici eventi i cui esiti avevano offerto a Milano, Brescia, Venezia, Roma,


solo brevi illusioni di libertà. Dopo una pubblica esposizione a Verona nel 1852, il reale significato patriottico del quadro emerge quando l’opera rientra nella casa del proprietario, il conte Giacomo Franco, patriota veronese. Pare che Hayez avesse aggiunto solo allora le scritte in rosso, tanto allusive da non poter essere mostrate in pubblico, tantomeno al nemico. Già nei decenni prerisorgimentali, in epoca di romanticismo storico, Hayez aveva mostrato, con dipinti ispirati alla storia passata, un sostegno ideale alle prime rivolte, tanto che la sua pittura era considerata da Giuseppe Mazzini un efficace segno del nostro patriottismo. Talvolta si era ispirato anche a episodi contemporanei, come la guerra di liberazione ellenica contro gli ottomani (Gli abitanti di Parga abbandonano la loro patria, 1826-1831, Brescia, Civica pinacoteca Tosio Martinengo), già rievocata da Eugène Delacroix nel Massacro di Scio (1824, Parigi, Louvre).

Altri artisti avevano rappresentato storiche vittorie sugli invasori, come la Disfida di Barletta del 1503, dipinta nel 1829 da Massimo d’Azeglio «per mettere un po’ di foco in corpo agli italiani», tema al quale egli stesso poi dedicherà un romanzo storico, che sarà ridisegnato a Faenza in vari fogli da Tommaso Minardi, a partire dal 1831, per una serie pittorica mai realizzata.


La sofferenza acuta, la prostrazione soprattutto muliebre per le perdite che quegli scontri comportarono, riaffiorano in dipinti patetici come quelli di Giuseppe Molteni (Affori, Milano 1800 - Milano 1867). Noto anche come ritrattista di gusto Biedermeier, l’artista lombardo diviene interprete di più profondi e dolenti sentimenti nella Signora di Monza (1847), ispirata al personaggio manzoniano, o nella Desolata per la perdita dell'amante: qui, sotto un cielo cupo, nell’angolo semiabbandonato di un cimitero, una donna dalla pelle eburnea e il vestito impeccabile si dispera inginocchiata sulla terra fresca dov’è da poco seppellito l’amato.


Francesco Hayez, Gli abitanti di Parga abbandonano la loro patria (1826-1831); Brescia, Civica pinacoteca Tosio Martinengo.

Giuseppe Molteni, La Signora di Monza (1847); Pavia, Musei civici.


Giuseppe Molteni, La desolata per la perdita dell'amante (1850); Agliè (Torino), Castello ducale.


Una stanza in penombra, un rametto d’olivo alla parete, e sull’imponente comò la copia di un magnifico crocifisso d’avorio che sappiamo appartenuto a Gian Giacomo Poldi Pezzoli, amico e committente di Molteni (il crocifisso originale è conservato al Museo Poldi Pezzoli di Milano). Sul ripiano del mobile austero una rosa appena sbocciata poggia su un libro di preghiere.

La luce illumina una tipica sedia dall’alto schienale, di cui s’indovina il materiale di cuoio, con le borchie incastonate. Questa è la cella del monastero, dove la giovane Virginia manzoniana medita mestamente. Il volto perfetto è incorniciato dal bianco luminoso della veste monacale: un soggetto che avrà grande fortuna nel repertorio del pittore.

Ippolito Caffi, Bombardamento notturno a Marghera del 25 maggio 1849 (1849); Venezia, museo Correr, sezione museo del Risorgimento.


Ippolito Caffi, Il carnevale a via del Corso (1837); Venezia, Ca’ Pesaro, Galleria d’arte moderna.

L'artista soldato e i colori del Risorgimento
Si afferma anche, in questi anni, la figura dell’artista-soldato, che s’impegna contro l’invasione straniera e le disparità sociali, non solo tramite la pittura che pure è utile a rinnovare le coscienze ma con la diretta partecipazione. Fra questi, Ippolito Caffi (Belluno 1809 - Lissa 1866), maestro di notturni attraversati da bagliori di luce, che si è formato a Roma e poi ha viaggiato nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente. Il suo talento “luministico” è messo a frutto nel raffigurare la luce abbagliante di una girandola e i lampi lontani delle fiaccole e dei fuochi d’artificio d’una festa romana o il pulviscolo sabbioso dei paesaggi nordafricani. Ma poi Caffi vien fatto prigioniero a Venezia, assiste alla caduta della città, e restituisce simili effetti di lampo nel Bombardamento notturno a Marghera del 25 maggio 1849 (1849, Venezia, museo Correr, sezione museo del Risorgimento). Processato a Roma per attività antiaustriaca, Caffi affiancherà Garibaldi a Napoli. Infine, nel 1866, nella terza guerra d’indipendenza, muore a bordo dell’ammiraglia Re d’Italia, affondata a Lissa.

Adesso anche i colori assumono valenza simbolica. Molte sono le allusioni al tricolore: il bianco, il rosso e il verde della bandiera italiana nel celebre Bacio (1859) di Hayez, come pure nelle Cucitrici di camicie rosse del toscano Odoardo Borrani, caratterizzato da intensi riverberi di luce. In questo dipinto Borrani riesce a comunicare non solo l’atmosfera delle battaglie (qui evocata per allusione, nelle camicie rosse che vengono cucite dalle donne, nell’intimità domestica, per i propri garibaldini alle armi), ma anche la partecipazione al Risorgimento, corale e sentita, da parte di chi attende a casa le sorti dei combattimenti. E sono soprattutto donne, che rischiano peraltro di rimaner vedove.

Già in precedenza, nel 1861, il pittore toscano, fra i protagonisti della ricerca macchiaiola, aveva svolto un tema analogo (26 aprile 1859), e assai più tardi vi tornerà, con uno stile ormai mutato, con la raffigurazione di tre donne che leggono in un dispaccio la notizia della morte di Vittorio Emanuele II, attorno a un tavolo illuminato da una lampada (Il bollettino del 9 gennaio 1878, 1880; Firenze, palazzo Pitti, Galleria d’arte moderna).

Il rosso domina anche la ricchissima iconografia su Garibaldi. Basti l’esempio del ritratto di Silvestro Lega in cui lo scultoreo fazzoletto annodato al collo, quasi esercizio di pittura neoquattrocentesca, risalta sul rosso vivo della camicia.
Altri, invece, dipingono temi patriottici con vene popolaresche, come un allievo di Hayez, Domenico Induno (Milano 1815-1878), che nel Bollettino della pace di Villafranca (1862, Milano, museo del Risorgimento) ambienta in un’osteria di campagna l’arrivo della notizia umiliante dell’armistizio imposto da Napoleone III. Ancor prima il fratello di Domenico, Gerolamo Induno (Milano 1825-1890), ha raffigurato con esattezza storica, in quanto testimone, la Battaglia della Cernaia nella guerra di Crimea. Gerolamo si dedica anche alla raffigurazione della Battaglia di Magenta (1861, Milano, museo del Risorgimento), episodio celeberrimo della seconda guerra di indipendenza italiana, combattuto il 4 giugno 1859 dalle truppe franco-piemontesi contro gli austriaci.


Francesco Hayez, Il bacio (1859); Milano, Brera.

Il tema della battaglia di Magenta viene affrontato lo stesso anno da Giovanni Fattori in una grande tela, forse il capolavoro fra i dipinti presentati nel 1861 alla Prima esposizione nazionale di Firenze. Nell’originale taglio della nitida composizione Fattori indugia sul dopo battaglia, lasciandoci dettagli indimenticabili come il velo bianco delle suore che caricano i feriti sul carro, coperto da un telo color crema altrettanto memorabile. Le strisce marroni della tela grezza di quella copertura sono semplici particolari ai quali tuttavia Fattori, in un’estrema sintesi di luce e sostanza volumetrica della forma, presta accurata attenzione. E magistrale diviene pure la resa del bianco della divisa dell’ufficiale ferito soccorso dalla suora sul carro, con la giacca semiaperta, i bottoni dorati e una mano abbandonata sulla gamba. Questa grande tela (240 x 348 cm) è la redazione finale di un bozzetto con il quale nel 1859 il pittore toscano aveva vinto il Concorso Ricasoli, e rappresenta una sorta di manifesto delle indagini sulla forma, sul colore che si fa struttura e sulla luce, appunto, che Fattori andava sviluppando sulla fine degli anni Cinquanta. Il paesaggio, che digrada su diversi piani fino all’orizzonte, era stato studiato direttamente sul campo di battaglia dall’artista.


Il successo di questa fortunata composizione si ripeterà con altre opere di Fattori che rievocano importanti battaglie risorgimentali, come La carica di cavalleria a Montebello (1862, Livorno, Museo civico Fattori). In questa tela, peraltro di grandi dimensioni (204 x 290 cm), il campo dell’azione si restringe, per concentrarsi sul tumultuoso attacco tra fanti e cavalieri, con una pittura veloce, a “macchie”, che gli permette di sintetizzare le forme in primo piano, sullo sfondo di un lontano villaggio con chiesa e campanile che appena compare fra la polvere alzata dalla battaglia. Fattori vincerà nel 1868 il Concorso nazionale di pittura con un altro dipinto risorgimentale, L’assalto alla Madonna della Scoperta (1868, Livorno, Museo civico Fattori), che raffigura ufficiali e soldati nella campagna lombarda attorno a Solferino, e sullo sfondo il santuario della Madonna della Scoperta che dà il titolo al quadro.

Gerolamo Induno, La battaglia della Cernaia (1857).


Giovani Fattori, Il campo italiano dopo la battaglia di Magenta (1861); Firenze, palazzo Pitti, Galleria d’arte moderna.

Il realismo e l’esordio dei macchiaioli
Dunque i decenni risorgimentali corrispondono, nella pittura italiana, alla diffusione del realismo, linguaggio internazionale che ha per capofila ideale il francese Gustave Courbet (Ornans 1819 - La Tour-de-Peilz 1877): a Parigi, al Salon del 1850, Courbet aveva presentato un dipinto, Funerale a Ornans, in cui per la prima volta un soggetto popolare come quello di un funerale di campagna veniva raffigurato con tutta la potenza di una pagina di storia moderna.

Giuseppe Abbati, Campagna a Castiglioncello (1863 circa); Firenze, palazzo Pitti, Galleria d’arte moderna.


Adriano Cecioni, Il caffè Michelangelo (1867).

Nonostante i primi scandali, le critiche feroci ma anche le lodi, e i dibattiti sulla rivista “Réalisme” (1856-1857), il “fenomeno Courbet” ha immediata e diffusa influenza fra gli artisti e gli intellettuali di tutta Europa, e un grande poeta come Charles Baudelaire, che proclamava l’immaginazione come la «regina di ogni facoltà dell’anima», si troverà a riconoscere che Courbet aveva contribuito non poco a ripristinare «il gusto della semplicità e della schiettezza».
Come in Francia, anche in Italia la pittura comincia ad abbandonare le convenzioni della pittura ufficiale e accademica della Restaurazione o i sentimenti soggettivi del romanticismo, per ispirarsi al “vero”, rappresentando fatti contemporanei o di vita quotidiana. La pittura passa così dallo stile enfatico del genere storico a composizioni che comunicano semplici messaggi, più popolari e di facile comprensione, grazie a pennellate fluide, veloci. Fra i primi artisti a emergere, come si vedrà, sono i macchiaioli, che partendo dalla tradizione della pittura romantica toscana maturano i loro esperimenti attorno agli anni Sessanta, e per poco più di un decennio si avventurano in una nuova estetica, non solo «fedeli illustratori della natura e campioni di una fiorentinità soltanto gergale», come ben ha spiegato Carlo Sisi, ma anche «interpreti sensibili di una modernità velata di una lirica e contraddittoria nostalgia»: sensazioni percepibili nei loro rifugi a Castiglioncello, nei pressi di Livorno, dove è andato ad abitare il “teorico” del gruppo, Diego Martelli, come pure a Piagentina, negli immediati sobborghi di Firenze, dove alcuni di loro si recheranno in seguito a dipingere scene di intima quotidianità domestica, o piccoli scorci di campi e di case.

Un celebre acquerello di Adriano Cecioni, critico oltreché pittore del gruppo, raffigura in caricatura i personaggi che animavano fin dal 1856 le serate fiorentine al caffè Michelangelo, a pochi passi dal duomo. Sulle pareti del locale si scorgono diversi quadri incorniciati, che hanno per tema ritratti, ma anche paesaggi ed episodi storici. Sono proprio questi i soggetti che i macchiaioli tendono a rinnovare, opponendosi, fra i primi in Italia, e non solo, all’arte moralistica, didascalica, tipica dell’epoca della Restaurazione.

Le tante opere che nell’acquerello di Cecioni compaiono alle pareti del caffè Michelangelo sono in realtà “falsi quadri”, che nel 1852 erano stati affrescati dagli estrosi artisti frequentatori di quelle serate animatissime. Alcuni fra gli artisti presenti alle vivaci conversazioni dominate da «ironia, sarcasmo e canzonatura», come ricorderà Adriano Cecioni sono presenti anche in alcune fotografie dell’epoca, dove spiccano, fra gli altri, con pose allegre e provocatorie, quasi goliardiche: Serafino de Tivoli (Livorno 1826 - Firenze 1892), Saverio Altamura (Foggia 1826 - Napoli 1897), Odoardo Borrani, Telemaco Signorini, Vito d’Ancona (Pesaro 1825 - Firenze 1884). Ancora non si chiamavano macchiaioli, e non tutti erano toscani, ma tutti avevano alle spalle un passato di studi accademici, verso i quali provavano malcelata insofferenza.


Vincenzo Cabianca, I novellieri toscani del secolo XIV (1860); Firenze, palazzo Pitti, Galleria d’arte moderna.

Il fatto che all’epoca all’Accademia di Belle arti di Firenze non esistesse ancora, come si è accennato, una cattedra di paesaggio, significava per loro un motivo in più per apprezzare nuove indagini in un genere considerato ancora minore, ovvero la pittura «di paese», come allora veniva chiamata. Fra loro c’era, naturalmente, Fattori, che diverrà il più celebre e il più quotato del gruppo. L’artista, schivo e riservato, continuerà la propria carriera, tutta dedicata alla pittura, fra Livorno, sua città natale, Castiglioncello, e Firenze. Qui insegnerà all’Accademia, diventando, fra le altre cose, amatissimo maestro di molti giovani artisti. Peraltro Fattori stesso aveva studiato a Firenze, e proprio al caffè Michelangelo aveva dipinto in epoca giovanile un Trovatore.

Nel 1854 un altro livornese, De Tivoli, con altri artisti di origine meridionale, fra i quali il foggiano Altamura, era andato nella campagna senese, a Staggia, per sperimentare all’aperto una più attenta resa dell’amosfera: sarà, fra le altre cose, una ricerca ritenuta fondamentale per l’evoluzione della “macchia”: quella macchia era ottenuta giocando su contrasti di luci forti, per evidenziare le forme con effetti folgoranti di potente sintesi, quasi neoquattrocentesca, come si è già accennato per i dipinti di battaglia di Giovanni Fattori. Telemaco Signorini spiega in seguito che la macchia era come una sorta di «esagerazione del chiaroscuro pittorico, contro il sacrificio di solidità e di rilievo causato dalla eccessiva trasparenza dei corpi dei dipinti accademici».

Nel 1855, poi, l’Esposizione universale di Parigi è un’occasione importante di confronto: nella capitale francese si recano De Tivoli e l’amico Altamura. Al ritorno, entusiasta di ciò che ha visto, De Tivoli ne parla con gli amici del caffè Michelangelo. Anche per questo Signorini definirà De Tivoli «il papà della macchia». Il termine «macchiaioli», tuttavia, non era nato con toni elogiativi, ma era stato usato la prima volta con intento dispregiativo da un critico della «Gazzetta del popolo», nel 1862.

Al gruppo dei macchiaioli si era unito anche un artista veneto, Vincenzo Cabianca (Verona 1827 - Roma 1902), a Firenze dal 1853. Nel 1860 Cabianca era andato a dipingere all’aperto, con Borrani, Banti e Signorini, a Montelupo, nel Valdarno, non lontano da Firenze, e poi a La Spezia. Il suo scopo era quello d’indagare la possibilità di nuovi effetti cromatici e di chiaroscuro ma non esattamente secondo il «procedimento della macchia» che aveva poi risolto anche nei dipinti di storia: fra questi, la tela che raffigura, nei loro costumi medievali, I novellieri toscani del secolo XIV. Qui il colore, steso con “tasselli” cromatici netti, in luogo dei contrasti di colori dissonanti tipici della “macchia”, crea effetti tridimensionali simili a quelli di un mosaico.

Fra i frequentatori del caffè Michelangelo c’era pure il pesarese Vito d’Ancona, che a Firenze aveva studiato all’Accademia. Grazie a una situazione familiare particolarmente agiata il giovane aveva potuto viaggiare all’estero, e informare quindi gli amici toscani delle più aggiornate esperienze letterarie e artistiche europee. Alla fine degli anni Sessanta D’Ancona resterà a lungo a Parigi dove abitavano i familiari. Come lui risiederanno nella capitale francese, oltre a De Tivoli (che vi giunge da Londra nel 1873), diversi pittori di altre regioni, fra i quali l’emiliano Giovanni Boldini (Ferrara 1842 - Parigi 1931), il pugliese Giuseppe de Nittis (Barletta 1846 - Saint-Germain- en-Laye 1884), e il veneto Federico Zandomeneghi (Venezia 1841 - Parigi 1917). Proprio il ferrarese Boldini, giunto a Firenze nel 1862, sarà fra i primi a ritrarre gli amici del caffè Michelangelo: innanzitutto il teorico del gruppo, Diego Martelli, e poi i pittori Abbati, Cabianca, Fattori. Nel bellissimo ritratto di Giuseppe Abbati, che colpisce per l’orbita oscurata dell’occhio perduto in guerra, Boldini rappresenta l’amico col cane fedele, ispirandosi nella posa verticale ai tipici ritratti lombardi e veneziani del Cinquecento, come quelli di Giovan Battista Moroni e di Tiziano. Del dipinto rimane un sapido accenno in una lettera di Diego Martelli all’amante Teresa Fabbrini: «Ora voglio andare dal Conte bazza testone [Boldini] per veder il ritratto che ha fatto a Poldo [Pisani] e a Beppe [Abbati], i quali mi dicono essere somigliantissimi».

OTTOCENTO ITALIANO - LA PITTURA
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Fossi Gloria
Un dossier dedicato alla pittura italiana dell'Ottocento. In sommario: Premessa. Sfortuna e fortune dell'Ottocento italiano; Dall'Impero al Quarantotto; I decenni del Risorgimento; 1858-1870: Francia e Italia, primi intrecci cosmopoliti; Gli anni dell'Unità. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utilissimo quadro cronologico e di una ricca bibliografia.