Da aristocratico
aD artista boh mien

Accade spesso che un destino capriccioso decida di deviare il corso di eventi che sembravano scontati. Questa è anche la storia di Henri de Toulouse-Lautrec che per nascita avrebbe dovuto condurre una vita da nobile aristocratico e che invece si ritrovò a vivere da artista bohémien in un contesto agli antipodi rispetto a quello di origine.

Henri nasce il 24 novembre 1864 dal conte Alphonse-Charles-Marie de Toulouse-Lautrec-Montfa e da Adèle- Zoë-Marie-Marquette Tapié de Céleyran, sua cugina di primo grado, appartenente a un’antica famiglia della provincia di Aude. Il parto avviene in uno dei palazzi di famiglia, l’Hôtel du Bosc di Albi, una città della Francia del Sud-Ovest, ottanta chilometri a nord di Tolosa.

Nelle numerose proprietà dei Toulouse-Lautrec, Henri cresce vezzeggiato, coccolato e anche molto fotografato nei suoi primi anni, quando i suoi nomignoli sono “petit bijou”, il gioiellino, e “bébé lou poulit” che in langue d’oc, l’antica lingua della tradizione locale, significa “bambino grazioso”. Nessuno ancora sospetta che sia affetto da una malformazione genetica dovuta a un matrimonio tra consanguinei. Anzi, nel 1867 Alphonse e Adèle mettono al mondo un altro figlio, Richard. Ma in capo a un anno il bambino muore; in seguito il conte abbandona la famiglia e di lì a breve i coniugi si separano. All’epoca, Henri non ha che quattro anni, ma il corso della sua vita non sembra risentirne e il piccolo continua la sua esistenza più che altro in compagnia della madre, ma frequentando anche il padre tra ambienti aristocratici, oggetti preziosi e raffinati, cavalli, gite in campagna, cacce col falcone (di cui il conte Alphonse è un patito), soggiorni nelle nobili magioni di cui è proprietaria la famiglia: lo château du Bosc, lo château de Céleyran, ricche dimore a Parigi e Neuilly nonché, dal 1883, lo château de Malromé, non distante da Bordeaux, acquistato dalla contessa Adèle che ne farà il suo ritiro dorato.

Verso i dieci anni, ecco però che la salute del piccolo Henri comincia a destare serie preoccupazioni. Stabilitosi a Parigi con la madre nel 1872, dove inizia gli studi al Lycée Fontanes (poi Condorcet), il bambino è così gracile che nel 1875 la contessa pensa sia meglio riportarlo ad Albi per fargli seguire dei corsi privati e mandarlo ad Amélie-les-Bains per delle cure termali, terapia cui d’ora in poi Henri si sottoporrà ripetutamente durante tutto il periodo della sua adolescenza. Niente di tutto quanto la scienza medica dell’epoca consiglia rimane intentato, ma alla fine i sogni di guarigione si infrangono contro l’imprevisto delle due rovinose cadute nelle quali il quattordicenne Henri, a distanza di un anno, si frattura prima la gamba sinistra e poi la destra compromettendone per sempre il normale sviluppo. In realtà, le fratture di per se stesse non sarebbero state sufficienti a causare danni irreparabili, ma il problema di Henri è la sua congenita, estrema fragilità ossea della quale le fratture sono essenzialmente il segno rivelatore e allarmante.

D’ora in poi la sua crescita si arresta (la sua statura non andrà oltre il metro e cinquantadue), le sue gambe prendono a deformarsi, si torcono sotto il peso del busto, l’andatura diventa caracollante. Per colmo di sventura, i suoi lineamenti appaiono enfiati e come involgariti, le labbra si ispessiscono in modo innaturale e così pure la lingua, aumentando un suo già evidente difetto di pronuncia.


Autoritratto allo specchio (1882-1883); Albi, Musée Toulouse-Lautrec.

Nei periodi di convalescenza o di cura, costretto spesso all’immobilità, il ragazzo legge, disegna e dipinge. All’epoca dei due successivi incidenti, attorno ai quattordici-quindici anni, risalgono alcune operine con scene di caccia, di cavalli, che hanno talvolta per protagonista il padre.

Quadretti esili ma già pieni di talento influenzati ancora dai gusti e dalle aspettative del conte Alphonse, che intende plasmare il proprio erede a sua immagine e somiglianza, facendone un nobile gentiluomo di campagna con l’obbligo dell’equitazione e della caccia ed eventualmente anche con l’hobby della pittura, proprio come se stesso e i suoi fratelli, Charles e Odon, tutti e tre artisti dilettanti. Anzi, a questo proposito Alphonse aveva anche stretto amicizia con un pittore non disprezzabile, René Princeteau, specializzato in dipinti di animali, di corse di cavalli e di ambienti sportivi, che gli aveva impartito perfino qualche lezione e aveva insegnato al piccolo Henri i primi rudimenti del disegno ai tempi del soggiorno parigino del 1872. Una cosa era però avere un altro artista dilettante in famiglia, un’altra averne uno di professione.

E invece era proprio ciò che si andava profilando, date le condizioni fisiche di Henri, che gli impedivano sia di cavalcare sia di andare a caccia, diversamente da come sperava suo padre. Così, da iniziale stratagemma per ingannare il tempo, disegnare e dipingere si precisano per il giovane Lautrec come un’autentica passione, finché, alla fine, il ragazzo non penserà di fare della carriera artistica la sua ragione di vita.

Alphonse de Toulouse-Lautrec alla guida della sua carrozza (1880); Parigi, Musée du Petit Palais.


Souvenir d’Auteuil (1881).


Princeteau nel suo studio (1881 circa).

Conscio del suo talento naturale ma anche consapevole della necessità di una guida, inizia a studiare con un artista accademico di solida fama, Léon Bonnat, frequentandone l’atelier a partire dall’aprile 1882. L’insegnamento di Bonnat è severo, comporta una pratica del disegno ferrea che Lautrec accetta sottoponendosi a un duro lavoro. Ma presto Bonnat chiude i battenti in previsione della sua nomina a professore dell’Accademia, conferitagli nel 1883, così Henri passa a studiare con Fernand Cormon, un altro pittore accademico specializzato in soggetti storici. Nel suo atelier, dove sono confluiti quasi tutti gli allievi di Bonnat, il giovane Lautrec si ritrova con molti, promettenti compagni: Henri Rachou, Albert Grenier, Charles Laval, François Gauzi, Louis Anquetin.


Sempre qui ha poi modo di conoscere sia Emile Bernard, che con Anquetin avrà un ruolo di primo piano nel gruppo d’avanguardia riunito da Gauguin a Pont-Aven, sia Vincent van Gogh, quando nel 1886 il pittore olandese si stabilisce a Parigi. Questo è anche l’anno che segna la finedella permanenza di Lautrec nell’atelier di Cormon dopo circa quattro anni di frequenza, seppure intermittente. Ormai il giovane artista si è impadronito di una solida tecnica, conosce perfettamente le leggi della prospettiva, ha fatto propri i metodi tradizionali per restituire luci e volumi. Eppure, mettere in pratica alla lettera tutto ciò che ha imparato non gli interessa. È invece alla ricerca di uno stile personale, di una propria strada. Dai suoi insegnanti ha preso ciò che voleva, ovvero un bagaglio tecnico per tradurre visivamente senza esitazioni ciò che vuole esprimere, ma i suoi maestri “spirituali” non sono né Princeteau, né Bonnat, né Cormon. Praticamente, anzi, non ce ne sono. 


Palafreniere con due cavalli (1880); Albi, Musée Toulouse-Lautrec.

Anche se è innegabile che Lautrec avrà un occhio di riguardo per artisti come Degas, soprattutto, e Manet, manifestando anche un certo interesse per Van Gogh che per inciso, all’epoca è un illustre sconosciuto e subendo lui pure il fascino delle stampe giapponesi, entrate in voga con gli impressionisti. Né vanno trascurati i suoi contatti con gli ambienti più avanzati della pittura contemporanea, dai rapporti con artisti simbolisti come i già ricordati Bernard e Anquetin a quelli con neoimpressionisti (Seurat e Pissarro) e Nabis (Bonnard, Vuillard, Sérusier, Denis).


Ma in definitiva Lautrec è uno spirito libero, un artista indipendente che si lascia influenzare da ciò che più gli aggrada. La sua è una pittura antiaccademica, “speciale”, come la definisce lui stesso in una lettera, un’arte fuori dagli schemi. È un anticonformismo cui non sembra estraneo il suo temperamento snob che,pur maturato nell’ambiente di origine, induce paradossalmente in questo raffinato aristocratico un assoluto disprezzo delle convenzioni, un rifiuto del perbenismo della sua classe di appartenenza e delle classi borghesi, così come dei gusti che le contraddistinguono in fatto di arte come di vita. Da certi passaggi della sua corrispondenza, appare infatti chiaro che la scelta di Lautrec è consapevole e meditata, quasi autoimposta.

Studio di nudo (1883); Albi, Musée Toulouse-Lautrec.


La lavandaia (1886).

A partire dalla decisione di stabilirsi a Montmartre, lontano in tutti i sensi dal suo terreno d’elezione, cioè i quartieri eleganti attorno alla chiesa della Madeleine, a rue Royale, a quel faubourg Saint-Honoré dove non per caso era lo studio del suo primissimo maestro e amico di famiglia Princeteau. Scrive Henri a sua nonna nel 1886: «Ho dovuto fare uno sforzo, dal momento che (voi lo sapete, tanto quanto lo so io), contro la mia volontà, vivo una vita da bohémien e non riesco ad abituarmi a questa atmosfera. Il fatto che mi senta assediato da una quantità di considerazioni sentimentali che devo assolutamente accantonare se voglio conseguire qualche risultato, mi mette ancor più a disagio qui sulla collina di Montmartre». La Butte su cui sorge quel quartiere all’epoca non ancora famoso è per l’artista ai suoi esordi un mondo da scoprire, che lo turba e insieme lo attrae.

Dal 1884 Montmartre, ai cui margini già si trovavano gli studi di Cormon e di Bonnat, diventa il suo luogo di residenza. Dapprima va a vivere in subaffitto da Albert Grenier al 19bis di rue Fontaine, poi quello stesso anno si sposta da altri amici: a casa di Rachou, in rue Ganneron 22 e quindi da Gauzi, in rue Tourlaque 7.


Il lucidatore di marmo (1884 circa).
Si tratta di uno studio eseguito all’epoca dell’apprendistato di Lautrec nell’atelier di Fernand Cormon, uno dei pittori accademici più reputati del suo tempo. Sebbene disattesi dalla sua pittura matura, dai caratteri estremamente personali, gli insegnamenti volti a impadronirsi di una solida tecnica tradizionale sono vagliati con attenzione da Henri nei suoi anni giovanili.

È negli anni Ottanta e Novanta del XIX secolo che si costruisce il mito di Montmartre culla dell’arte d’avanguardia e della trasgressione. Nel 1882, quando Lautrec giunge negli atelier di Bonnat e quindi di Cormon, sono passati soltanto una ventina d’anni dalla data in cui quel distretto rurale destinato a diventare uno dei quartieri-icona di Parigi era stato inglobato nel circondario cittadino, entrando a far parte nel 1860 dell’area urbana. Ancora ai tempi di Lautrec, nella parte alta della Butte, Montmartre conservava la sua fisionomia agreste, con campi di grano e vigneti sparsi, piccoli appezzamenti di terra a metà tra l’orto e il giardino e qualche mulino superstite dei molti che un tempo si innalzavano sulla collina. Il versante nord della Butte era anzi rimasto impervio e selvaggio, un’area isolata e remota dove albergavano miseria e desolazione, con pochi abitanti che tiravano avanti vivendo di espedienti. Era il regno del “maquis”, dove a dominare era la macchia, un intrico di rovi, siepi e gineprai attraversati da sentieri polverosi poi scomparso alle soglie della prima guerra mondiale.


Dal punto di vista sociale, ai tempi di Lautrec Montmartre era un quartiere decisamente popolare. Le classi meno abbienti vi si erano installate, attratte da affitti più bassi e dal costo della vita in generale meno caro che altrove. Anzi, tra povertà e isolamento, la Butte era diventata anche il rifugio ideale di fuorilegge e gente di malaffare, di criminali comuni come di sovversivi, dagli anarchici ai comunardi. Se tuttavia marginalità e degrado caratterizzavano la sommità della Butte, nella parte bassa della collina la situazione era diversa.

Il cambiamento e la fortuna di Montmartre partono in effetti da qui, dalla zona a ridosso del boulevard de Clichy e del boulevard de Rochechouart, i due viali che corrono ai piedi della Butte formando una sorta di anello che in pratica fungeva da spartiacque tra Montmartre e l’“altra” Parigi. Negli anni Ottanta, attorno ai due boulevard si era sviluppata un’area in forte espansione, “colonizzata” da tutta una serie di locali e piccoli esercizi, trattorie, caffè, mescite, sale da ballo che attiravano una clientela eterogenea, costituita prevalentemente da gente del luogo e artisti. Questi ultimi avevano cominciato a frequentare Montmartre fin dal 1850, facendone uno dei luoghi prediletti del loro lavoro e dei loro incontri. E se è d’obbligo citare gli impressionisti e i neoimpressionisti, bisogna ricordare anche tutta una schiera di artisti minori e di illustratori che apparivano variamente legati al mondo di Montmartre.

Tra i molti artisti che gravitavano attorno al quartiere, alcuni avevano scelto di aprire i loro atelier nei suoi margini immediati, mentre altri vi erano andati anche ad abitare. Uno dei pittori più importanti con studio a Montmartre era Degas, che proprio all’epoca in cui Lautrec viveva in subaffitto da Albert Grenier, in rue Fontaine, aveva il suo atelier nella casa di fronte, cosa che dette modo al giovane Henri di conoscerlo e frequentarlo. Un altro era Renoir, che non solo ebbe diversi atelier sulla Butte, tra cui uno in rue Tourlaque (altra strada dove Lautrec, oltre ad abitare per qualche tempo in casa di Gauzi, come si è visto, aprirà poi il suo studio nel 1886) ma che aveva addirittura preso in affitto una casa in allée des Brouillard 6, in pieno “maquis”. 


La contessa Adèle de Toulouse- Lautrec mentre fa colazione al castello di Malromé (1881-1883); Albi, Musée Toulouse-Lautrec.

Un angolo al Moulin de la Galette (1892); Washington, National Gallery of Art.


Valentin le Désossé addestra le nuove arrivate (1889-1890); Filadelfia, Museum of Art.

Oltre a Degas e a Renoir, infine, anche un terzo artista oggi famosissimo, ma allora totalmente ignorato, viveva all’epoca nelle strade che salgono alla Butte. Si tratta di Van Gogh, che nel 1886, per un certo periodo, abitò col fratello Theo (direttore della famosa galleria d’arte Boussod & Valadon, ex Goupil, in boulevard Montmartre 19) prima in rue Laval (oggi rue Victor Massé) e quindi in una delle vie più caratteristiche del quartiere, rue Lepic, la strada del Moulin de la Galette (oggi l’unico superstite, col vicino Moulin Radet, dei vecchi mulini della Butte, poiché quello del celebre Moulin Rouge è un finto mulino, costruito appositamente per l’apertura del locale, nel 1889).

Proprio grazie alla presenza sempre più massiccia di artisti d’avanguardia nella zona della Butte, dal 1870 Montmartre aveva assunto via via i caratteri di fucina sperimentale, di banco di prova delle nuove concezioni artistiche. Ma se tra Otto e Novecento gli artisti sono da ritenere senz’altro tra i primi responsabili della fortuna di Montmartre, va detto che però essi non ne sono gli unici artefici. Il vero boom della zona bassa della Butte ha infatti inizio con l’apertura, negli ultimi decenni del XIX secolo, di una miriade di locali notturni ed equivoci, che trasformano Montmartre in una sorta di quartiere “a luci rosse” ante litteram (oggi Pigalle è essenzialmente questo), scatenando l’interesse trasversale delle più diverse classi sociali. In questo anzi consiste la vera carica trasgressiva di Montmartre: l’osmosi tra le varie categorie, lo scambio tra rappresentanti del bel mondo ed esponenti del cosiddetto “demi-monde”, tra artisti e gente del popolo; una varia umanità dove aristocratici in cerca di sensazioni “forti” si trovano gomito a gomito con borghesi e arrampicatori sociali di vario genere, procedono al fianco dell’uomo della strada e si mescolano alla folla degli artisti e delle donnine allegre.

E ciò sullo sfondo di spettacoli allora decisamente “hard”, dove le ballerine si lanciavano in danze indiavolate come il can-can e lo chahut, con mostra di gambe e non solo, visto che ogni sera i poliziotti della buoncostume erano incaricati di controllare che le “chahuteuses” portassero la biancheria intima. Tutto si consumava tra commerci carnali e notti brave spese in questa terra di nessuno, in questa “zona franca” dove per ognuno la motivazione primaria era la ricerca del piacere.

La cattiva reputazione di Montmartre era dunque un fatto assodato negli anni in cui Lautrec varca le soglie del quartiere.
Lautrec vi si addentra attingendo a piene mani alla sua inesauribile riserva di personaggi e situazioni. 


L’inglese al Moulin Rouge (1892); New York, Metropolitan Museum of Art.


Al Moulin Rouge: l’inizio della quadriglia (1892); Washington, National Gallery of Art.

Montmartre diventa così il perno attorno al quale ruota la sua arte. I locali con le loro vedettes e il variegato pubblico dei frequentatori, ma anche le prostitute o la massa dei derelitti che trascorrono sulla Butte la loro esistenza storditi tra povertà e alcolismo diventano i temi principali della sua opera. Si tratta di un nutrito corpus che comprende, senza contare i lavori perduti, oltre settecento dipinti, più di quattromila disegni e circa quattrocento litografie, di cui una trentina di manifesti. Una produzione di indubbia originalità, che tuttavia per la scelta dei soggetti, puntualmente tratti da contesti quotidiani e urbani, non può non rimandare in primo luogo alla pittura realista e poi all’impressionismo, che del realismo aveva raccolto il messaggio rivoluzionario “aggiornandone” i contenuti. Nell’arte di Lautrec, in effetti, risultano sostanzialmente attuali e ancora operanti i concetti espressi da Baudelaire nel suo scritto sul Salon del 1846 dove si legge: «La nostra epoca non è meno ricca di temi sublimi di quella precedente [...]. Lo spettacolo della vita alla moda e le migliaia di esseri criminali e mantenute che galleggiano alla deriva nei bassifondi di una grande città [...] non abbiamo che da aprire gli occhi». Di fatto, il nucleo della produzione di Lautrec può essere considerato come uno sviluppo della tematica baudelairiana della strada, dell’alcol, della prostituzione.

Soggetti, questi, già tutti trattati, “mutatis mutandis”, nei dipinti dei realisti prima e degli impressionisti poi e che adesso ritornano nelle opere di Lautrec in ancora nuove accezioni e con esiti dirompenti, ai quali hanno contribuito in parte, nel frattempo, anche le recenti conquiste dell’arte simbolista, il cui manifesto è del 1886. Con Lautrec irrompono sulla tela nuove “ossessioni” tematiche (i locali notturni, le ballerine, i cantanti e tutto il complesso “popolo della notte” o, ancora, il bordello e le prostitute). Compaiono inoltre nuove atmosfere cariche di uno spirito graffiante, ironico se non addirittura beffardo, nuovi tagli delle scene, con inquadrature particolari e insolite, nuovi colori e giustapposizioni di colori. Questi raggiungono la massima espressività e originalità nel periodo centrale e più fecondo della sua arte, gli anni Novanta dell’Ottocento. Prima di allora, infatti, negli anni dell’apprendistato (o poco oltre), prevale nella sua pittura la gamma dei toni chiari e morbidi tipici della tavolozza impressionista, in composizioni che sembrano voler emulare la luminosità aperta e diffusa dei modelli di partenza. Tali appaiono per esempio i primi cinque dei sei ritratti della madre, quelli cioè realizzati tra il 1881 e il 1883; o anche opere come Il giovane Routy, del 1882, La lavandaia, del 1886 chiaramente influenzata da Degas fino a Polvere di riso, del 1887-1888. 


Jane Avril mentre balla (1892); Parigi, Musée d’Orsay.


Monsieur Boileau (1893); Cleveland, Museum of Art.

Poi, invece, si manifesta una predilezione per i toni acidi e decisi, per le combinazioni di colori stridenti con cui ottenere effetti allucinati, antinaturalistici, tinte crude e abbaglianti che illuminano facce-maschera (come per esempio i volti delle “donne-faro” in Al Moulin Rouge, del 1892-1893, o il viso stravolto della “cocotte” nel tardo Una saletta privata al Rat Mort, del 1899), una texture reticolata, “perturbata” da graffi e tratteggi, pennellate liquide e non rifinite che trasmettono una sensazione di incompiutezza, un’esecuzione volutamente lontana da quella tradizionale.

Per l’attenzione e l’acume con cui raffigura i protagonisti delle sue opere, Lautrec è essenzialmente un ritrattista, o meglio un artista il cui interesse esclusivo è rivolto al personaggio, al “tipo” umano. Sia che ritragga uno o più modelli, è infatti sempre l’individuo nella sua unicità, la sua personalità, i tratti significativi di un volto, di un atteggiamento, di un corpo ciò che gli preme evidenziare. Per questo motivo, anche nel caso di scene di gruppo, la sua attenzione è rivolta non al contesto ma ai personaggi. 

Sono questi a essere posti in risalto tramite il gioco dei piani, delle luci e dei colori. Da qui, il disinteresse di Lautrec per lo sfondo, accennato solo quel tanto che basta a definire meglio i suoi protagonisti, ridotto a una funzione allusiva o decorativa per evocare con macchie indistinte un giardino, un atelier, l’angolo di una sala da ballo o di un caffè. Lautrec punta il suo obiettivo sui personaggi, li mette bene a fuoco, in piena luce, vuol farne delle “maschere nude”. Di volta in volta, la sua lente inquadra personaggi diversi facendo emergere il “tipo” che è in ognuno di loro.

Polvere di riso (1887-1888); Amsterdam, Van Gogh Museum.


La Goulue entra al Moulin Rouge (1892); New York, Museum of Modern Art. La Goulue fu con Valentin le Désossé la star indiscussa del Moulin Rouge negli anni compresi tra il 1890 e il 1895. Il suo soprannome (l’Ingorda) le veniva dal suo appetito insaziabile che alla fine le rovinò la linea stroncandole prematuramente la carriera di ballerina. Lautrec la ritrasse in numerose opere, tra cui il manifesto del 1891 per il celebre locale dal rosso mulino, che dall’oggi al domani lo rese famoso.

Ora si tratta di chi è già avvezzo a stare al centro della scena, vedettes come la Goulue, Valentin le Désossé, Cha-U-Kao, Jane Avril, Yvette Guilbert, Loïe Fuller, Chocolat; ora di chi si trova “dall’altra parte della barricata”, gli habitué o i “curiosi” della notte come Monsieur Delaporte, Monsieur Boileau e ancora altri avventori; ora, semplicemente, di chi ha attratto il suo interesse nelle più diverse circostanze: Paul Sescau, Louis Pascal, Henri Fourcade tra i molti. Per la stessa ragione, Lautrec non ama ritrarre il paesaggio, in piena controtendenza rispetto alla pittura impressionista. Scrive l’artista nel 1896, mentre con l’amico Maurice Joyant attraversa la valle della Loira: «Il paesaggio è e non può essere altro che un accessorio [...]. Solo il volto conta [...].

Il paesaggio non deve servire che a far conoscere meglio il carattere del volto». Dagli impressionisti Lautrec si distingue anche per un altro fondamentale motivo, la tendenza a disertare la pittura “en plein air”, uno dei cardini della poetica e della prassi di quello storico gruppo. Se infatti è vero che Lautrec prende schizzi dappertutto, disegnando per strada, a teatro e nei ritrovi dove si reca quotidianamente («Tutte le sere vado al caffè a lavorare», scrive alla madre), le sue opere sono però generalmente realizzate in studio.


Chocolat mentre danza (1896 circa); Albi, Musée Toulouse-Lautrec.

La loro elaborazione prendeva abbastanza tempo e dalla scoperta dello spunto iniziale alla fase della stesura poteva passarne anche molto, poi però l’esecuzione procedeva spedita. Una volta trovato il soggetto adatto, l’artista pensava a come svilupparlo tornando incessantemente a rivedere il modello per fissarne bene i caratteri nella mente, via via prendendo qualche schizzo veloce e a volte servendosi anche di fotografie; poi, dopo questo lungo periodo di incubazione, l’opera vedeva finalmente la luce.

La rappresentazione di Lautrec è icastica, va subito al sodo, coglie solo il necessario. Ed è importante sottolineare che l’incisività con cui l’artista dipinge i suoi personaggi, la concisione con cui tratteggia la sua galleria di tipi sono le stesse in tutta la sua produzione, che si tratti di disegni, di dipinti o di litografie. Sempre, l’espressione è più importante della narrazione, la pregnanza di significato prevale sulla messa in scena.

Per il pubblico odierno l’opera di Lautrec non riveste solo un significato artistico ma è importante anche per il suo valore documentario. Con la carrellata dei personaggi da lui ritratti, l’artista francese si è ritagliato infatti un posto di primo piano anche nella storia del costume, fornendoci preziose indicazioni sulla vita e la società parigina dell’ultimo ventennio del XIX secolo, momento culminante di un periodo particolarmente felice e spensierato della storia europea, noto col nome di Belle Epoque.

Così, se le sue opere sono paragonabili a un’autobiografia per immagini che parlano dell’artista attraverso i luoghi e i personaggi che hanno colpito la sua immaginazione, esse costituiscono anche la storia di una generazione attraverso una sorta di diario visivo di Montmartre e della Parigi di fine Ottocento. Ma a differenza di altre voci che colgono gli aspetti più superficiali ed esteriori di un’epoca apparentemente presa nel vortice del divertimento, Lautrec non ne mostra solo i lati gaudenti, ma riesce a trasmetterne anche le ombre e le inquietudini, le nubi sempre più cupe che si addensano all’orizzonte. Quei tratti fissati senza abbellimenti, quelle espressioni di cui emergono le note dissonanti sono la spia di un mondo che andava alla deriva senza accorgersene, di una generazione che procedeva inconsapevole verso il baratro della prima guerra mondiale.


Yvette Guilbert canta “Linger Longer Loo” (1894); Mosca, museo Puškin.

TOULOUSE-LAUTREC
TOULOUSE-LAUTREC
Enrica Crispino
Un dossier dedicato a Henri de Toulouse-Lautrec (1864-1901). In sommario: Da aristocratico ad artista bohémien; I manifesti del successo; Un autore scandaloso; Gli ultimi anni. Come tutte le monografie della collana Dossier d'art, una pubblicazione agile, ricca di belle riproduzioni a colori, completa di un utile quadro cronologico e di una ricca bibliografia.