XXI Secolo
INTERVISTA A GREGORY CREWDSON

IL SIGNORE
DELLA STAGED

Francesca Orsi

Cinema, letteratura e arte figurativa sono le fonti di ispirazione di Gregory Crewdson, narratore visivo capace di creare nelle sue fotografie “palcoscenici” attraversati da un’atmosfera sospesa e noir.
Lo abbiamo intervistato per conoscere la sua trilogia - Cathedral of the Pines, An Eclipse of Moths ed Eveningside (quest’ultimo ciclo inedito) - in mostra per la prima volta nella sua interezza alle Gallerie d’Italia - Torino.

A Torino, nella nuova sede delle Gallerie d’Italia, museo di Intesa San Paolo specificatamente dedicato alla fotografia, è in mostra - fino al 22 gennaio, a cura di Jean-Charles Vergne - Eveningside, l’ultimo atto della trilogia di Gregory Crewdson (New York, 1962). Il fotografo americano, di fama internazionale, conosciuto in tutto il mondo per la sua “staged photography”, continua, anche in questo caso, ad animare le sue immagini di quel noir cinematografico che lo ha reso famoso. Utilizzate spesso anche dagli editori di tutto il mondo come copertine di libri - è il caso per esempio dei romanzi di Joël Dicker pubblicati in Italia da La Nave di Teseo - le fotografie di Crewdson attingono dal cinema la loro natura narrativa e dall’arte figurativa la loro composizione di luce e ombre, immergendo il tutto in ambientazioni sospese nel tempo. Abbiamo parlato con lui della sua trilogia, esposta insieme per la prima volta a Torino, del suo particolare linguaggio, della sua complessa realizzazione e anche delle sue origini creative in riferimento a lavori del passato come Fireflies, in mostra anch’esso nelle sale delle Gallerie d’Italia.


Dalla serie An Eclipse of Moths (2018-2019): Redemption Center;


Dalla serie An Eclipse of Moths (2018-2019): Starkfield Lane.

Com'è nata l’idea della trilogia composta da Cathedral of the Pines (2012-2014), An Eclipse of Moths (2018-2019) e l’ultimo progetto, ancora inedito, Eveningside (2021-2022)? Cosa congiunge un lavoro all’altro?

Quando ho iniziato a lavorare su Cathedral of the Pines nel 2012, stavo giusto uscendo da una pausa creativa di tre anni. Mi ero trasferito da New York City al Massachusetts occidentale, spostando lì casa e studio; inoltre ero concentrato anche su altre mie questioni personali. Tutto ciò mi ha portato lontano dal mio lavoro per un po’ di tempo, ma una volta che mi sono sistemato e ho ritrovato uno spazio, anche mentale, in cui potevo sentirmi creativo, qualcosa dentro di me si è rimesso in moto. I corpi di lavoro della trilogia - Cathedral of the Pines, An Eclipse of Moths ed Eveningside - si sono inseriti in questo nuovo capitolo del mio lavoro. Poi ovviamente, tra di loro, ci sono connessioni anche estetiche: sono tutti e tre realizzati usando il digitale piuttosto che l’analogico; c’è, nell’illuminazione, negli elementi narrativi e nella tavolozza dei colori, una moderazione consapevole; inoltre c’è meno teatralità rispetto ai lavori passati. 


Con Eveningside hai concluso la trilogia. Perché una trilogia? Ha qualche connessione con la simbologia numerica? 

Sicuramente nel numero tre c’è qualcosa che sembra chiudere un cerchio. Ma le tre serie rappresentano anche esattamente dieci anni di lavoro, il che lo rende simmetrico. 


Nella trilogia hai riversato anche molto della tua storia privata. Le tue origini, le tue radici, la tua vita. È stata un’esigenza per te? 

Cathedral of the Pines è sicuramente il mio lavoro più personale, in termini di temi, oltre al fatto che molti soggetti nelle immagini sono persone che mi sono vicine nella mia vita privata. Anche i luoghi ritratti, in molti casi, mi riguardano personalmente. 


I soggetti fotografati ricompaiono spesso nell’arco dell’intera trilogia. Pensi che il loro ruolo si diversifichi progetto dopo progetto o è anche la loro essenza psicologica e mentale, la loro fisicità estetica che ricollega tutti e tre i lavori? 

Per questa trilogia volevo creare un mondo che sembrasse coerente. Alcuni soggetti appaiono più volte e, in alcuni casi, anche i luoghi. Mi piaceva il fatto che si avvertisse il trascorrere del tempo, anche all’interno di questi momenti congelati. Nella mia visione il mondo delle immagini deve essere un luogo da esplorare e in cui perdersi, trovando connessioni incrociate, evoluzioni, un vero viaggio. 


La persistenza del corpo nudo nel tuo lavoro cosa rappresenta? C’è un legame tra questo contenuto, le ambientazioni delle tue messe in scena e la dimensione psichica dell’immagine? 

Con il tema della nudità - maggiormente presente in Cathedral of the Pines - intendo far emergere un concetto di vulnerabilità, un elemento leggermente surreale, una dimensione interiore che fuoriesce verso l’esterno. La serie, però, è anche molto legata alla natura e al sentimento contradditorio, che scaturisce nell’uomo, di libertà e paura. 


I tuoi progetti sono spesso caratterizzati dalla presenza di finestre, specchi, strutture visive che direzionano lo sguardo dello spettatore. Una questione di meta-visione, che conferisce all’immagine una dimensione di profondità, oltre che fisica anche mentale… 

Adoro lavorare con dispositivi di inquadratura, come finestre e porte, strutture di proscenio, come ponti e linee del tetto a strapiombo e specchi. Mi piace il modo in cui spingono e attirano lo sguardo dello spettatore, il modo in cui isolano le figure nel loro spazio per la contemplazione, separandole sia da chi le guarda ma anche da tutto ciò che le circonda nella dimensione dell’immagine. Probabilmente la cosa più importante, però, è che fanno riferimento all’atto stesso del fotografare, il modo in cui la fotocamera crea rimozione funge da mediazione tra il fotografo e il soggetto. 


Il tuo lavoro non si realizza solo in fase di scatto, ma richiede una preparazione molto elaborata. Qual è il tuo “modus operandi”, partendo dall’idea fino alla sua ultima realizzazione? 

Il processo inizia con la ricerca delle ambientazioni. Giro molto in auto, capendo quali luoghi mi attraggono. Ci ritorno ancora e ancora e ancora, e a un certo punto la storia emerge. Cerco determinate cose mentre guido, anche se non riesco subito ad articolarle: una certa qualità senza tempo, la forma delle strutture e la natura che le circonda per esempio.


Dalla serie Eveningside (2021-2022): Madeline's Beauty Salon.


Dalla serie Eveningside (2021-2022): Morningside Home for Women.


Dalla serie Eveningside (2021-2022): The Family Doctor.


Dalla serie Cathedral of the Pines (2012-2014), The Haircut (2014).

Il tuo lavoro è sempre stato una stratificazione di influenze che attingono dal cinema, ma anche dalla letteratura e dall’arte figurativa. Quale dei tre linguaggi ti ha fornito il primo stimolo che ti ha portato a creare il tuo codice visivo? 

Quando ero uno studente universitario alla State University of New York pensavo di voler seguire le orme di mio padre, psicanalista, e studiare psicologia, ma la materia non mi appassionava. Ero uno studente terribile anche perché sono dislessico e leggere, scrivere e studiare mi risultava un po’ complesso. Per caso, ho iniziato il corso di Fotografia base, tenuto da Laurie Simmons. Subito mi sono sentito connesso a quel linguaggio: le fotografie erano qualcosa che potevo leggere e capire, e attraverso le quali potevo raccontare delle storie. Era la prima volta che mi sentivo completamente a casa in una classe, in un ambiente scolastico, senza dover lottare contro parole o numeri su una pagina. Da quel preciso momento, non mi sono mai più guardato indietro. 


L’ultimo lavoro, Eveningside, è interamente in bianco e nero, a differenza della tua precedente produzione a colori. Perché? 

Dopo aver realizzato An Eclipse of Moths, mi era già ben chiara l’idea di voler utilizzare il bianco e nero per l’ultimo progetto della trilogia. Forse perché, in generale, ho sempre amato la fotografia e il cinema in bianco e nero, ma forse anche perché ero attratto dalle capacità tecniche e dalla resa della fotografia digitale in bianco e nero ad alta definizione. E anche se prima avevo già lavorato in bianco e nero, non l’avevo mai fatto con il mio team di illuminazione cinematografica al completo. Ero entusiasta di sperimentare. Prima di tutto abbiamo dovuto fotografare tutti gli oggetti e i costumi di scena in bianco e nero, assicurandoci che la resa fosse quella voluta. Sono molto contento del risultato finale. 


Nel tuo percorso artistico e creativo cosa congiunge Fireflies (1996) alla trilogia? 

Abbiamo deciso di includere in mostra Fireflies come contrappunto e come tessuto connettivo tra le immagini della trilogia. Per certi versi, rispetto al mio ultimo lavoro, è molto diverso: fotografie in bianco e nero fatte senza il mio team e senza la mia solita predisposizione di luci, solo io e due macchine fotografiche. Le immagini di Fireflies (lucciole) sono molto intime, di piccole dimensioni. Ho usato la luce di questi minuscoli insetti come codice narrativo, come congiunzione del tutto. In natura, infatti, la loro luce rappresenta un rituale di accoppiamento, non è casuale: i maschi producono una sorta di danza, una forma d’arte unica e irripetibile. In un certo senso ho rivisitato questo tema anche in An Eclipse of Moths, intitolato così per descrivere un raggruppamento di falene. 

Le falene, infatti, volando solitamente attratte dalla luce lunare, rimangono disorientate dalle fonti di luce artificiale e cercando la loro strada, si perdono. Questa mi sembrava una bella metafora per i personaggi di quella serie: vedevo i lampioni come fari e i soggetti attratti da loro ma anche persi, alla perenne ricerca di redenzione, di significato, di trascendenza.


Dalla serie Fireflies (1996): Untitled [12-35].


Dalla serie Fireflies (1996): Untitled [46-69].


Dalla serie Cathedral of the Pines (2012-2014), Woman at Sink (2014).


«Adoro lavorare con dispositivi di inquadratura, come finestre e porte. Mi piace il modo in cui spingono e attirano lo sguardo dello spettatore, il modo in cui isolano le figure nel loro spazio per la contemplazione»
(Gregory Crewdson)

Gregory Crewdson. Eveningside

a cura di Jean-Charles Vergne
Gallerie d’Italia Torino
fino al 22 gennaio 2023
orario 9.30-19.30, mercoledì 9.30-22.30,
chiuso il lunedì
catalogo Edizioni Gallerie d’Italia - Skira
www.gallerieditalia.com

ART E DOSSIER N. 404
ART E DOSSIER N. 404
DICEMBRE 2022
In questo numero: FINESTRE SULL’ARTE: Crivelli, una rivelazione di Federico D. Giannini; BLOW UP: Avedon - di Giovanna Ferri; GRANDI MOSTRE. 1 - Olafur Eliasson a Firenze - Ognuno vede a modo suo di Lauretta Colonnelli; 2 - Freud a Londra - Quel senso di tragicità a fior di pelle di Valeria Caldelli; ....