IL MOSAICO DEL MONDO.
LA MIA VITA MESSAA FUOCO
Molti della generazione di Maurizio Galimberti (classe 1956) hanno “giocato” con la Polaroid. Personalmente rammento la Swinger bianca del 1963, l’odore acido della carta fotografica che “usciva” ancora umida, le mani sporche, curiose di toccare l’immagine che appariva come per miracolo, gli scatti men che amatoriali. Ben altro da ciò che Galimberti sperimenta dagli anni Ottanta, con modelli e metodi ingegnosi che lo hanno affermato originalissimo “istant artist”: soprattutto, come racconta, a partire dalla sua icona-talismano, il ritratto a “mosaico” di Johnny Depp, che nel 2003 alla Mostra del cinema di Venezia lo ha consacrato al pubblico internazionale e gli ha fatto consolidare il rapporto con la Polaroid, prima del fallimento dell’azienda nel 2008, poi rinata grazie al brand Impossible Project, che – chi l’avrebbe mai detto in era digitale – ne ha arricchito i modelli in sintonia coi mutamenti tecnologici. La fotocamera istantanea è il principale strumento professionale, ma anche di vita, dell’autore di questo bel libro, scritto in collaborazione con il curatore e critico Denis Curti, suo amico e mentore da sempre. L’amore viscerale di Galimberti per la fotografia tocca tutti i sensi, non solo il tatto (usa spesso la manipolazione sull’immagine ancora umida), ma ama anche annusare i suoi scatti, fin quasi a “mangiarli”. Il libro può interessare non solo chi ama la storia della fotografia istantanea; molti sono infatti i riferimenti ai maestri dell’analogico in bianco e nero, come Frank, Kertész, Adams, Cartier-Bresson, Newton, Berengo Gardin. Due almeno gli aspetti che rendono unica la narrazione: da una parte il metodo, un processo creativo che ha attraversato molte fasi, sempre con uno sperimentalismo appassionato fino ai readymade e ai più recenti, meditati coinvolgimenti con la grande pittura del passato, dal Cenacolo di Leonardo ai dipinti del Perugino: contaminazioni, queste, che mostrano affinità con gli sperimenti futuristi e quelli dada di Duchamp e Man Ray, sino a quelli pop di Warhol e Schifano. L’altro binario è la rievocazione senza filtri della propria vita: fatti quotidiani che s’intrecciano con la professione. Non è un caso che la griglia delle sbarre dell’orfanotrofio, dove trascorse i primi cinque anni di vita, appare rievocata, soprattutto in modo inconscio, nelle sue opere, composte da inimitabili, poetici assemblaggi: mosaici “del mondo”, appunto, composti da decine di istantanee.