Quando, nel 1866, Claude Monet presenta un proprio quadro al Salon di Parigi, l’artista espone il ritratto di Camille Doncieux, la diciottenne di cui si è appena innamorato. L’ha conosciuta in una libreria di rue Dante, dove la giovanissima lavora come commessa. Nel dipinto, Monet ritrae Camille mentre indossa con grave contegno un prezioso abito verde. L’opera riscuote un discreto interesse, forse perché il tradizionalista pubblico del Salon, incline a subire il fascino della citazione letteraria, intuisce, in quella posa teatrale, un sofisticato rimando al personaggio di Marguerite Gautier, la protagonista della Signora delle camelie, quell’autentico best seller, che era stato pubblicato nella stessa Parigi, circa vent’anni prima.
Durante la permanenza nella capitale inglese, dove peraltro l’artista non riscuote il plauso sperato, Monet ritrae la giovane sposa: Camille è irrorata
dalla diafana luce pomeridiana, con un libriccino tra le mani. Un dipinto che anticipa di qualche decennio uno di quei silenti interni, pervasi da
un’intima solitudine, realizzati dallo statunitense Edward Hopper.