XXI SECOLO
INTERVISTA A MIKE SMITH

SOCIAL
ANIMALS

L’occhio sull’uomo, profondo ed essenziale, è quello che Mike Smith rivela con Streets of Boston, volume pubblicato lo scorso anno da Stanley/Barker. una carrellata di ritratti in bianco e nero colti a metà anni settanta nelle vie della città americana. un progetto diverso da east Tennessee, ancora in corso, con il quale il fotografo, usando il colore, punta il suo obiettivo sul territorio, perlopiù rurale, dove vive. ecco cosa ci ha raccontato nella nostra intervista.

Francesca Orsi

Pubblicato recentemente da Stanley/Barker, Streets of Boston di Mike Smith (Heidelberg, 1951) si configura come un atlante, intimo ed emozionale, dell’umanità che animava le strade di Boston nella metà degli anni Settanta del secolo scorso. Seguendo l’approfondito e minuzioso lavoro editoriale di recupero di progetti, spesso inediti, degli anni Settanta e Ottanta, l’editore inglese dà alla luce l’ennesimo gioiello che sa di passato ma che sottolinea anche come lo sguardo contemporaneo provenga da un certo approccio al soggetto, e da una certa profondità di sguardo sull’umanità. Il passato non solo fa scuola, ma spesso serve anche a leggere, con una prospettiva più complessa e completa, l’attualità.

Mike Smith ha sempre avuto come focus preferenziale l’uomo quale animale sociale, la rappresentazione della sua vita, dei suoi riti, delle sue relazioni; con Streets of Boston il suo occhio diventa ancora più penetrante, come una lente di ingrandimento nell’interiorità dei soggetti che gli si parano davanti, e i suoi ritratti, in questo modo, risultano portatori di una rigenerata dimensione psichica e introspettiva. Quella stessa dimensione che nel 1967, con la mostra New Documents al MoMA di New York – del “giovane” trio Arbus, Winogrand e Friedlander, a cura di John Szarkowski – segnava la nuova soglia del linguaggio fotografico. «Il loro scopo non è stato quello di riformare la vita, ma di conoscerla», scriveva Szarkowski. Coglierla senza lirismi o sentimentalismi, focalizzandosi sulla banalità delle dinamiche umane che animavano la vita di tutti i giorni. Così fu anche per Mike Smith, o comunque quel passaggio fu sicuramente la pietra miliare su cui imbastire la propria visione.

Hai iniziato a fotografare quando eri arruolato nell’esercito americano durante la guerra del Vietnam. Cosa fotografavi e cosa ti spinse a farlo per la prima volta?
Mentre prestavo servizio in Vietnam ho fatto occasionalmente foto dei miei amici dell’esercito, del paesaggio e del popolo vietnamita. Tutte le immagini sono state realizzate su diapositiva, ma poi le ho successivamente scartate. Lo stimolo è stato un amico che aveva comprato una fotocamera 35mm e mi ha mostrato alcune delle sue stampe che ha ricevuto per posta. Erano del suo pappagallo e sono rimasto colpito dalla chiarezza e dal colore delle immagini.


Immagini dove si intravede tutta la tradizione della ritrattistica fotografica, da Walker Evans ad August Sander


Come è nato Streets of Boston?
Sono stato iscritto come studente di fotografia al Massachusetts College of Art and Design (ora MassArt), studiando con Gus Kayafas, Nick Nixon e Tod Papageorge. Prima avevo completato tre semestri in un college statale studiando lavoro sociale. Suppongo che il mio interesse nel fotografare le persone si sia radicato in qualche modo durante quell’esperienza.
Inoltre, ricordo che, una volta, Gary Winogrand, rispondendo a chi gli chiedeva perché fotografasse le persone, disse: «Siamo tutti animali sociali». Quel commento è sempre rimasto nella mia testa. In seguito, l’idea di rendere libro Streets of Boston fu il suggerimento di Mark Steinmetz.

Il lavoro di Mark Steinmetz è molto vicino al tuo, per profondità di sguardo e per approccio al soggetto. Come hai conosciuto Mark e cosa lega il vostro lavoro?
Ho incontrato Mark poco dopo che ha lasciato Yale, nella metà degli anni Ottanta. Io mi ero laureato nel 1981. Lui e io eravamo studenti di Tod Papageorge e Richard Benson. Abbiamo un certo numero di amici comuni, compagni di classe e colleghi professionisti. Yancey Richardson e Jackson Fine Art rappresentano il nostro lavoro e ci facciamo visita occasionalmente.
Credo che Baldwin Lee e io siamo stati i primi artisti invitati a partecipare al workshop organizzato da Mark e Irina Rozovsky al The Humid di Athens, in Georgia. Mark è stato il primo a fare una selezione di Streets of Boston per la pubblicazione. Mi ha anche fornito i contatti degli editori, Gregory e Rachel Barker.

Negli anni Settanta accadde un fatto specifico che ti fece cambiare tipologia di macchina fotografica e approccio alla tua narrazione. Un cambiamento che ti fece prediligere un certo tipo di ritratto: intimo e profondo sull’umanità che ti si mostrava davanti. Cosa successe?

Ho avuto una sfortunata esperienza mentre fotografavo per strada, usando la Leica, con un uomo che non voleva che lo fotografassi. È caduto e si è fatto male cercando di fermarmi. A quel punto, ho riconsiderato il mio approccio e ho comprato una macchina fotografica più grande con l’intento di fare ritratti. Streets of Boston è stato realizzato, infatti, utilizzando una Linhof Press 23, prodotta negli anni Cinquanta. Si tratta di una macchina fotografica insolita, a bobina di medio formato (6 x 7 cm) con un obiettivo Zeiss Planar da 100 mm. Quel formato e la lente di quella lunghezza focale hanno funzionato abbastanza bene per il tipo di ritratto che stavo cercando di fare. La fotocamera era relativamente grande, ben visibile e richiedeva una notevole quantità di preparazione per esporre un fotogramma.


La rappresentazione della cultura visiva del luogo, le tracce di un’umanità che compare ma viene spesso anche solo evocata


Nelle immagini di Streets of Boston si intravede tutta la tradizione della ritrattistica fotografica, da Walker Evans ad August Sander. Chi sono stati effettivamente i tuoi modelli? E c’è un fotografo, o anche più di uno, che pensi possa essere il legittimo erede di quel modo di cogliere la profondità umana?

Sì, sia Evans che Sander hanno avuto, su di me, forti influenze. In particolare Sander, il cui libro Men Without Masks è stato forse il mio volume più logoro. Da studente ho approfondito il lavoro di molti artisti: certamente Diane Arbus, Helen Levitt, Gary Winogrand e Lee Friedlander. Tutti loro, in quel momento, hanno alimentato il mio pensiero. I miei insegnanti alla Yale University, Tod Papageorge e Richard Benson, continuano entrambi a essere parti importanti della mia comprensione del mezzo. Per quanto riguarda i fotografi contemporanei che portano avanti quella tradizione, penso che tra i migliori ci sia Mark Steinmetz. Naturalmente ce ne sono molti altri, per esempio Joel Sternfeld e Judith Joy Ross. Parlando di “catturare la profondità umana”, non vedo l’ora di vedere il prossimo libro di Tod (Papageorge), Guerra e pace a New York City. Sono sicuro che stabilirà un nuovo standard.



Unicoi, Tennessee 1998.


Bumpus Cove, Tennessee 2001.

Dell’editing di Streets of Boston colpisce l’immagine finale: un uomo sulla spiaggia dorme rannicchiato dando le spalle all’oceano. Boston nel libro compare evanescente e frammentata, connotando il progetto più per la dimensione interiore e quasi psicologica dei ritratti che per le ambientazioni della città. Nell’ultima immagine, però, il contesto della sabbia, dell’acqua e del cielo avvolgono l’uomo con potenza, diventando elementi importanti della composizione. Ci racconti di questa fotografia e del perché, con l’editore, hai deciso di usarla come chiusura dell’editing?

La dimensione psicologica che noti può essere il risultato dell’isolamento degli individui, dell’avvicinamento e del permettere al soggetto di presentarsi senza troppe indicazioni da parte mia. Li ho lasciati, praticamente, da soli. L’ultima immagine, credo, è stata un’idea di Alice Rose George, ma potrei sbagliarmi, non me ne vogliano Gregory o Rachel. Sentivo che era un grande finale, un riposo pacifico, un ambiente naturale, lasciando alcune domande sospese e senza risposta. È un senzatetto, ubriaco, malato o semplicemente sta riposando? Alice, poco prima della sua prematura scomparsa, mi ha aiutato con l’editing iniziale e la sequenza della versione che ho presentato a Stanley/Barker. Mark Steinmetz mi ha aiutato, inizialmente, a selezionare il lavoro che gli ho inviato.


Non ci sono testi nel libro, solo immagini. Perché?

Non ho mai pensato di chiedere a uno scrittore di contribuire al progetto né l’editore ne ha chiesto o suggerito uno. Non credo che questi ritratti abbiano bisogno di spiegazioni, ogni individuo ritratto, infatti, si mostra in tutta la propria presenza e identità. Mi ha fatto piacere che Gregory e Rachel sentissero che il lavoro stava in piedi da solo.


Dopo Streets of Boston hai iniziato a fotografare, a colori, la città e il territorio dove vivi, Johnson City, nel Tennessee, nel cuore degli Appalachi meridionali. Un racconto intimo di ciò che, immagino, consideri “casa”. A differenza di Streets of Boston in questo progetto prediligi maggiormente la resa paesaggistica del luogo, la rappresentazione della sua cultura visiva, le tracce di un’umanità che compare ma viene spesso anche solo evocata. Ci racconti il passaggio dalla narrazione di Streets of Boston a quella di East Tennessee?

Streets of Boston, nel suo complesso, crea una narrazione fluida, sembra avere un filo conduttore che la attraversa: l’idea del rispetto dell’identità individuale e del valore. Il mio lavoro nell’East Tennessee, invece, non è ancora concluso, rendendo difficile per me riassumerlo. È vero che il paesaggio, modellato dai suoi abitanti, gioca un ruolo importante. La principale distinzione tra il lavoro qui, in Tennessee, e quello di Boston è la natura delle due culture e il loro rapporto con il mondo che le circonda. Il Tennessee, dove vivo, è perlopiù rurale, con città più piccole, le persone possiedono e vivono sulla loro terra, conoscono i loro vicini e spesso sono imparentati. A Boston, invece, la vita era vissuta sulle strade, popolate da estranei. Lì, infatti, i soggetti che sceglievo apparivano semplicemente di fronte a me, in Tennessee, invece, per lavorare, devo bussare alle porte e chiedere il permesso.

Streets of Boston

Mike Smith
124 pagine
Stanley/Barker, Londra 2021

www.stanleybarker.co.uk

ART E DOSSIER N. 403
ART E DOSSIER N. 403
NOVEMBRE 2022
In questo numero: STORIE A STRISCE -  Nuove speranze per il fumetto di Sergio Rossi; BLOW UP: Civilization di Giovanna Ferri; GRANDI MOSTRE. 1 - L’arte inquieta a Reggio Emilia - Una, nessuna, centomila identità di Giorgio Bedoni; 2 - Cézanne a Londra - Da una mela partì la sua sfida di Valeria Caldelli; ....