Il primo Outsiders è uscito nel 2017, il secondo nel 2019, il terzo – Outsiders 3 – è appena arrivato in libreria. Li ho contati, sono più o meno centoventi, gli Outsiders. E so che i tuoi archivi ne conservano molti altri. La tua definizione di un Outsider, cinque anni fa, era: «Schegge di creatività che lasciano sbalorditi, che non scelgono mai i luoghi e le date giuste per nascere, creare, amare, morire. Vivono in mondi paralleli. E hanno sempre l’indirizzo sbagliato». Ho visto che la riprendi nell’introduzione al terzo volume. Significa che le tue ricerche hanno confermato che i meccanismi dell’esclusione sono sempre gli stessi?
Al pari di un atleta ogni Outsider ha la sua specialità autodistruttiva, se non è stato falciato direttamente dalla storia. Il talento, a loro, non è bastato, anche perché critica, mostre e mercato editoriale hanno continuato a proporci sempre i soliti nomi anziché esplorare territori più complessi, a volte più rischiosi. Non è cosa di oggi, basti pensare a Caravaggio, riscoperto da Roberto Longhi dopo secoli di oblio. Per questo ringrazio “Art e Dossier” che, quando ancora mi presentavo come blogger anonimo, ha avuto il coraggio di guardare al di là delle solite cose ospitando la rubrica di un “perfetto sconosciuto”.
Outsiders ha finito per diventare una specie di serie: storie diverse unite da un unico filo. Un meccanismo che può spiegarne il successo?
Secondo me ciò che è stato apprezzato è stato l’approccio narrativo, quasi colloquiale, che mi ha permesso di far conoscere maestri mai sentiti, quasi stessi parlando di amici comuni, spaziando in libertà tra tecniche, stili, linguaggi espressivi. Credo che i lettori si siano immedesimati nella mia ricerca, ne abbiano apprezzato l’onestà intellettuale e la passione, e colto il mio invito: quello di poter iniziare a ripercorrere, anche da soli, questo tragitto di scoperta, sfruttando le incredibili potenzialità della rete.