FIRENZE A BRUGES

La nostra storia prende avvio da piazza Affari, nella sua versione fiamminga e quattrocentesca.

Una vicenda in cui si intrecciano arte e finanza internazionale.

Bruges nel XV secolo era il principale centro di scambi commerciali delle Fiandre e dell’intero ducato di Borgogna (era anche una delle sedi di corte), e uno dei più attivi in Europa. Una città di centomila abitanti, crocevia tra Mare del Nord e Mediterraneo; luogo di scambio per lane, tessuti, cereali, vino; una metropoli cosmopolita e accogliente. In città i mercanti italiani, e in particolare i fiorentini, erano attivi fin dal XIII secolo; ci fu una pausa dopo il fallimento dei banchieri Bardi e Peruzzi nel 1345 ma gli scambi ripresero nel secolo successivo. I traffici commerciali e finanziari coincidevano spesso con i rapporti artistici, e coinvolgevano proprio le stesse figure. Il Banco dei Medici, con la sua filiale di Bruges (la principale delle sue succursali europee, fondata nel 1439 al tempo del ducato di Filippo il Buono), fu il fondamentale fulcro di questi scambi, particolarmente attivi fra il centro fiammingo e la città di Firenze, ma estesi a tutta la Toscana. La precoce vocazione capitalistica della Toscana e delle Fiandre – basata sull’intraprendenza di mercanti che si facevano volentieri banchieri – finì inevitabilmente per far coincidere gli interessi delle due regioni europee; e durò fino a quando, a cominciare dalla seconda metà del Quattrocento, l’abilità e le competenze in materia finanziaria non erano ormai più patrimonio quasi esclusivo dei toscani(1). Lodovico Guicciardini, nella sua Descrittione di tutti i Paesi Bassi (Anversa 1567), descrive i fiamminghi come «gran mercatanti e intendentissimi di tutte le mercantie, essendo fondato il paese in gran parte in su la mercatura, in su le arti, onde sono medesimamente artefici eccellenti in tutte le cose manuali».

Nel Quattrocento le famiglie fiorentine e lucchesi attive in affari - i Portinari, i Baroncelli, i Tani, i Pagagnotti, i Cambi, gli Orlandini, gli Arnolfini, i Paoli, i Guinigi, i Rapondi, gli Antelminelli - a Bruges erano perfettamente integrate, anche dal punto di vista abitativo. Le loro sedi-foresteria e le loro abitazioni si trovavano in una sorta di quartiere degli italiani, nelle strade attorno al Beursplein (piazza della Borsa), vicino ai genovesi, tra le comunità più popolose insieme ai veneziani. Il nome della piazza, e della Borsa - intesa come luogo di scambi commerciali-finanziari -, deriva proprio da una famiglia di Bruges, i Van der Beurze, che in quel quartiere avevano una locanda che era divenuta luogo di ritrovo per chi cercava notizie, informazioni sul corso delle monete e sull’andamento dei prezzi in Europa, incontri con mercanti e produttori. È ancora oggi una delle attrazioni della città.

I rapporti commerciali riguardavano soprattutto il comparto tessile, con scambi prevalenti di panni e stoffe destinate al mercato italiano e di allume (sostanza fondamentale per la tintura della lana) che viaggiava in senso inverso; ma erano fortissimi anche quelli puramente finanziari, che vedevano i banchieri fiorentini in veste di prestatori. Erano loro i principali sovvenzionatori dell’alto tenore di vita e delle abitudini - che oggi definiremmo eccessive, perennemente al limite dell’esibizionismo - della corte di Borgogna, i cui domini si estendevano alla contea delle Fiandre e oltre, fino a comprendere i Paesi Bassi settentrionali, rinomata per le sue follie in caso di feste leggendarie e banchetti memorabili, per la cura dell’abincomprensibile […] si ungono i capelli di burro rancido […] e le loro pietanze odorano di aglio e cipolla in eccesso»(2).

A Firenze, come a Venezia, Urbino, Napoli e in altre città italiane, l’apprezzamento per la pittura nordica era molto diffuso. La novità della pittura a olio, attribuita a Jan van Eyck (che in realtà si limitò a perfezionare una tecnica esistente), la capacità di utilizzarla, da parte dei pittori fiamminghi, per ottenere risultati mai visti bigliamento, nel non tollerare limiti di spesa per tutto ciò che è bello, dalle opere d’arte ai codici miniati, dalle oreficerie agli arazzi.


Una spettacolarizzazione del lusso che era anche uno straordinario strumento di marketing. La “ricchezza percepita” per qualche tempo può abbagliare rivali, avversari, potenziali alleati, concorrenti, fornitori; almeno fino a quando la realtà e i creditori richiamano all’ordine.


Antonius Sanderus, la piazza della Borsa a Bruges in un’incisione del suo Flandria illustrata (Colonia 1641).

Una bella differenza rispetto alla descrizione che dei burgundi fece il funzionario gallo-romano (e poi vescovo di Clermont, oggi Clermont-Ferrand) Sidonio Apollinare, il quale alla metà del V secolo li descriveva come «giganti dai capelli lunghi […] che cianciano in una brutta lingua prima di lucentezza nei colori, il realismo, l’efficacia nella resa espressiva, l’attenzione al paesaggio e all’individuazione psicologica delle figure erano ritenuti strumenti comunicativi capaci di suscitare emozioni profonde nel pubblico dei devoti come in quello dei più esperti acquirenti di opere d’arte(3).

Gli esempi della nuova pittura nordica (non solo dipinti, ma anche arazzi e codici miniati) viaggiavano sulle medesime rotte delle merci, e lo stesso facevamo molti artisti. Tra gli altri Rogier van der Weyden, che proprio a Firenze è attratto dalla pittura del Beato Angelico, ripreso dal fiammingo in un Compianto di Cristo (1450 circa) destinato alla villa medicea di Careggi e ora agli Uffizi. Il rapporto era scambievole e andava oltre le arti visive. La polifonia fiamminga, elaborata da musicisti anche borgognoni e francesi, rappresentò anch’essa una novità di rilievo a livello internazionale. Il suo principale interprete, il compositore borgognone Guillaume Dufay (1397-1474), viaggiò e operò a lungo anche in Italia, da Rimini a Ferrara, a Pesaro, in Vaticano, a Bologna, a Firenze, alla corte di Amedeo VIII e poi di Ludovico di Savoia. Una sua composizione fu scelta per la cerimonia di consacrazione del duomo di Firenze nel 1436.


Beato Angelico, Compianto e sepoltura di Cristo (1438-1443); Monaco, Alte Pinakothek.

La tavola con San Girolamo di Jan van Eyck (oggi a Detroit) compare negli inventari medicei del 1456-1463 e del 1492 («una tavoletta di Fiandra suvi uno san Girolamo a studio, chon un armarietto di più libri di prospettiva e uno lione a’ piedi, opera di maestro Giovanni da Bruggia, cholorita a olio»), e fu certamente il modello per il San Girolamo nello studio del Ghirlandaio (1480) affrescato nella chiesa fiorentina di Ognissanti. I Medici erano fra i più convinti fautori della moda collezionistica filofiamminga. Possedevano anche un certo numero di “panni dipinti” della stessa provenienza. Si trattava di tele di lino dipinte a tempera (di minor prezzo rispetto alle pitture a olio) che arredavano soprattutto la loro villa di Careggi e il palazzo di via Larga (l’attuale palazzo Medici-Riccardi). Data la fragilità dei supporti e della tecnica usata, nessuno di quei dipinti è sopravvissuto; ma erano così diffusi, a Firenze, che finirono per essere tra gli oggetti maggiormente presi di mira dai “piagnoni” savonaroliani e spediti al rogo delle vanità di piazza della Signoria del 7 febbraio 1497 in quanto «panni forestieri preziosi, dipinti di bellissime figure con molta impudicità»(4).


Molte di queste opere non riuscivano però a raggiungere la destinazione finale. Il Trittico di Danzica, o del Giudizio universale (1470 circa), commissionato a Memling da Angelo Tani – uno dei direttori del Banco dei Medici a Bruges – era destinato alla Badia fiesolana; solo che il 27 aprile 1473 la nave su cui viaggiava fu aggredita dai corsari di Danzica (oggi Gdansk) e derubata del suo carico(5). Il dipinto fu donato dal devoto capo dei corsari proprio alla cattedrale della città portuale della Pomerania, e nonostante le proteste di papa Sisto IV e dello stesso Lorenzo de’ Medici lì rimase fino al secolo scorso, e solo per passare al vicino Museo nazionale che tuttora lo ospita(5).


Tra i pittori della generazione successiva a quella di Van Eyck e Van der Weyden spiccavano a Bruges proprio Hans Memling, il Maestro della Leggenda di sant’Orsola e Hugo van der Goes. Le molte opere che questi artisti realizzarono su committenza fiorentina ebbero una notevole influenza sugli sviluppi delle arti in Toscana. Nella seconda metà del Quattrocento l’esistenza di questo rapporto era ancora percepita come fondamentale nella trattatistica ed emerge nella frequenza di nomi fiamminghi in documenti e inventari. Col tempo questa attenzione iniziò a sbiadire, Vasari manteneva ancora viva una certa consapevolezza di questo apporto, ma nel Seicento alcuni polittici fiamminghi vennero smembrati, alcune tavole vennero attribuite a pittori fiorentini e nei secoli successivi molte opere finirono all’estero.

Spesso si è tracciato un solco netto tra il Rinascimento italiano e quello nordico, in particolare tra il composto e colto classicismo fiorentino e il realismo spigoloso dei maestri fiamminghi. Quel che è certo è che il quel Quattrocento in cui Firenze poneva le basi della sua rivoluzione artistica, quel contrasto non appariva affatto scandaloso e incompatibile. Le opere di Van der Weyden e Van Eyck, di Memling e Van der Goes (tra l’altro gli unici citati da Vasari nelle sue Vite come i principali esponenti della pittura fiamminga del secolo XV) coesistevano pacificamente nelle residenze e nelle cappelle di famiglia dei loro committenti, insieme a Piero della Francesca, Domenico Veneziano, Verrocchio, Botticelli, Lippi, Ghirlandaio, tra i più sensibili all’influenza nordica; e poi fra Bartolomeo e lo stesso Raffaello. Gli artisti toscani inseguirono per decenni gli effetti di virtuosismo naturalistico che consentiva la tecnica della pittura a olio. A volte unendola alla tradizionale pratica della pittura a base di tempera all’uovo; con alterni risultati, più brillanti in artisti come Ghirlandaio e Leonardo, che apprezzava gli effetti di trasparenza che la pittura a olio consentiva. Lo stesso Michelangelo, notoriamente avverso a tutto quanto la pittura fiamminga aveva espresso fino allora, non rinunciò nel Tondo Doni agli effetti della mescolanza di oli e tempera (tempera grassa). La generazione di Verrocchio, Pollaiolo e del giovane Leonardo riprese l’utilizzo del paesaggio visto in lontananza e un po’ dall’alto – tipico di Van Eyck – come artificio per ottenere una profondità di campo capace di far risaltare meglio le figure in primo piano. I paesaggi di Memling ispirarono successivamente Ghirlandaio, Filippino Lippi e Perugino; più tardi nei fondali di Piero di Cosimo saranno riconoscibili i paesaggi fantastici di Joachim Patinir. Lo stesso successo della ritrattistica – che nel Quattrocento esce dall’ambito cortese per entrare nelle case borghesi –, spesso collegata dagli studiosi a una ripresa di modelli romani antichi, è collegabile a un’influenza franco-fiamminga. È da quell’area, e segnatamente dagli esempi di Van Eyck e Memling che venne l’affermarsi della postura di tre quarti del ritrattato, lo sporgersi delle mani oltre il bordo del quadro a “invadere” il nostro spazio(6). Alcuni confronti, come quelli fra il Ritratto di uomo con medaglia di Botticelli (1480) o il Ritratto di uomo con medaglia di Cosimo il Vecchio, ancora di Botticelli (1474-1475, Uffizi) o i due ritratti di Agnolo e Maddalena Doni di Raffaello (1506 circa, Uffizi) e ritratti fiamminghi come quello di Jan de Leeuw di van Eyck (1436, Vienna, Kunsthistorisches Museum), o il Ritratto di giovane uomo con medaglia romana di Memling (1480, Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten) chiariscono a sufficienza l’esistenza di rapporti di scambio nell’impostazione delle figure così come negli sfondi di paesaggio.



Domenico Ghirlandaio, San Girolamo nello studio (1480); Firenze, Ognissanti. In questo confronto vediamo un altro esempio dei rapporti che intercorrevano fra artisti fiamminghi e fiorentini nel XV secolo. In questo caso Ghirlandaio ha come modello un san Girolamo di Van Eyck, probabilmente quello ora a Detroit che vediamo alla pagina precedente, forse lo stesso che compare nell’inventario dei beni del Magnifico del 1492. A quarant’anni di distanza dal dipinto a olio di Van Eyck, Ghirlandaio trasferisce ad affresco sulle pareti della chiesa fiorentina di Ognissanti la posa quieta del santo-studioso, con la stessa attenzione meticolosa per ogni dettaglio ambientale, dai libri agli arredi, agli strumenti di lavoro.

Hans Memling, Trittico di Danzica (o del Giudizio universale; 1470 circa), intero e particolare dell’anta sinistra, esterno, con il ritratto di Angelo Tani inginocchiato; Danzica, Muzeum Narodowe.


Alla pittura fiamminga veniva riconosciuta anche, da parte italiana, una particolare capacità di coinvolgimento emotivo nella resa dei soggetti devozionali; in particolare suscitava meraviglia la capacità di Rogier van der Weyden di assegnare ai suoi personaggi un’amplissima gamma di espressioni in una varietà capace di andare dalla passione al dolore, alla partecipazione, all’afflizione e all’angoscia.

 
La costruzione del linguaggio nuovo della pittura da parte dei maestri toscani, come vedremo meglio nel terzo capitolo, si nutrì quindi anche di questo lungo e stretto rapporto fra Nord e Sud. E gli umanisti del Quattrocento – come Bartolomeo Fazio, Ciriaco d’Ancona, Giovanni Pontano – non mancarono di testimoniare nei loro scritti la diffusa ammirazione per la pittura fiamminga. Che non veniva allora in alcun modo percepita come in opposizione ai modelli dell’antichità classica, anzi, il suo realismo perseguito con evidente efficacia richiamava a molti il virtuosismo di Apelle.

 
Nel corso del Cinquecento queste stesse caratteristiche saranno al tempo stesso riconosciute e disprezzate da Michelangelo. Celebre e molto citata l’invettiva attribuitagli da Francisco de Hollanda(7).

 
Non sappiamo se Michelangelo pronunciò mai questo giudizio in questa forma, ma l’atteggiamento degli intellettuali italiani del XVI secolo era evidentemente cambiato, rispetto al secolo precedente. I modelli di gusto propugnati da Vasari e dalla soverchiante personalità artistica di Michelangelo – dominanti nel contesto tosco-romano – privilegiavano il disegno rispetto al colore, capace di ingannare l’occhio con artifici virtuosistici, ma non la mente. Il processo fu comunque graduale e non pervasivo. Le stampe nordeuropee continuavano a circolare (soprattutto Dürer, Schongauer, Luca di Leida) e se il baricentro della circolazione delle idee artistiche trovò la sua nuova collocazione in Italia, restarono forti gli scambi, e proprio una scultura di Michelangelo, una Madonna col Bambino, giunse nel 1506 a Bruges (è infatti nota come Madonna di Bruges), nella chiesa di Nostra Signora, dove ancora si trova, a fare da modello per nuove generazioni di artisti locali.

VAN DER GOES
VAN DER GOES
Claudio Pescio
Hugo van der Goes (Gand 1140 circa - Auderghem 1482) è con Van Eyck e Vander Weyden uno dei principali pittori fiamminghi del Quattrocento. Personalitàsfuggente, dalla vita tormentata, affetto da un disturbo della personalitàche lo spinge a chiudersi in un convento proprio nel momento in cui ragguingel'apice della fama rappresenta il momento fondamentale in cui nella pitturafiamminga vengono accolte e rielaborate le innovazioni introdotte dai suoipredecessori. La sua importanza è accresciuta dall'enorme influenza che unadelle sue opere, il Trittico Portinari, avrà sugli sviluppi della pittura fiorentinadel secondo Quattrocento. Il suo catalogo è scarso, quasi tutto fondato su attribuzioni,ma ogni sua opera è capace di imporsi alla nostra attenzione comeun capolavoro di espressività, cura del dettaglio, talento nell'impostazionequasi teatrale della scena.