PRIMA E DOPO

Quel che emerge da quanto abbiamo ripercorso nei capitoli precedenti – rapporti commerciali fra Toscana e Fiandre, scambi culturali, contributo fiammingo al definirsi del rinnovamento artistico nella Firenze del secondo Quattrocento – nasce dalla centralità del Trittico Portinari nella vicenda creativa di Hugo van der Goes.

Centralità rispetto a un prima e a un dopo compressi in appena una quarantina di anni di vita, periodi che è il momento di vedere più da vicino.

Le fonti esistenti dicono poco sulla biografia del pittore, soprattutto sui suoi primi anni. Le datazioni molto variabili delle sue opere risentono sia di questa carenza documentaria che delle molte attribuzioni di alcuni suoi lavori ad altri artisti, anche fino a tempi recenti. Per cui alcuni dipinti hanno fatto la loro comparsa nel suo catalogo un po’ alla spicciolata, costringendo la critica a reinventarsi ogni volta nuove ragionevoli cronologie che non smentissero del tutto le precedenti considerazioni.

Ci sono in pratica tre diverse linee parallele di documenti che ne tracciano il percorso: una nelle Fiandre, una nel Brabante brussellese, una italiana. Dal loro confronto si ricavano alcuni dati a oggi considerati attendibili. Le fonti fiamminghe dicono della sua nascita a Gand – al tempo una delle più popolose città d’Europa – da famiglia olandese, probabilmente attorno al 1440 (ma c’è chi retrocede l’evento di dieci o anche vent’anni).

Lo storiografo Jean Lemaire de Belges, in un componimento del 1505 destinato a Margherita d’Austria e di Borgogna, lo definisce significativamente «Hugues de Gand qui tant eut les tretz netz», da cui si ricava, oltre al dato anagrafico oggi prevalente, che fosse noto per la «nettezza del tratto». Per Vasari, come abbiamo visto (e per Guicciardini), era «Ugo d’Anversa», città dove operava uno stampatore con lo stesso cognome. Altri lo davano per nato in Zelanda o a Bruges, o a Leida. Il cognome a volte è trascritto “Goux”, probabilmente per l’assonanza con la corretta pronuncia fiamminga (“g” aspirata e un suono simile a “u” per il dittongo “oe”: “hus”).


attribuito a Giusto di Gand o a Hugo van der Goes, Trittico del Calvario (1465-1468), particolare; Gand, San Bavone.

Nel 1467 entrò nella gilda dei pittori di Gand, introdotto da Joos van Wassenhove (in Italia Giusto di Gand), pittore suo concittadino attivo anche alla corte di Urbino. Abitava in una grande casa, da solo. Nel 1468 venne chiamato a Bruges per contribuire alle decorazioni cittadine per il matrimonio di Carlo e Margherita, come abbiamo visto; l’anno successivo e nel 1472 svolse un ruolo analogo per due “gioiose entrate” dei duchi di Borgogna a Gand. Nel 1479-1480 fu convocato a Lovanio per esprimere un giudizio sulle tavole con gli Esempi di giustizia che Dirk Bouts aveva lasciato incompiute. Il suo talento era emerso subito con evidenza, la sua fama era ormai diffusa, ma con altrettanta forza in quegli anni erano maturati in lui conflitti morali ed esistenziali che finirono per dar luogo a disturbi del comportamento e ricorrenti crisi di coscienza, fino ad atti di autolesionismo e tentativi di suicidio.


Attribuito a Giusto di Gand o a Hugo van der Goes, Trittico del Calvario (1465-1468); Gand, San Bavone.

La sua carriera si svolse tutta nel corso di dodici-quindici anni, durante i quali riuscì comunque a dare un’impronta personale alle vicende della pittura fiamminga. Il suo catalogo, perlopiù attribuito, conta una quindicina di opere, ognuna marcata, in qualche modo, da scostamenti più o meno evidenti da tutte le altre.
Tra le prime il Trittico del Calvario (1465- 1468; Gand, San Bavone), a lungo attribuito a Giusto di Gand (e la critica tuttora non è affatto unanime sulla riattribuzione a Van der Goes). La scelta iconografica propone un accostamento fra la Crocifissione nella tavola centrale e scene dell’Esodo nei pannelli laterali; in particolare, a sinistra, il miracolo con cui Mosè rende bevibile l’acqua di Mara, nel deserto, immergendovi un bastone, riuscendo così a dissetare il popolo di Israele; e a destra l’episodio del Serpente di bronzo. I colori sono chiari, le scene vivaci, movimentate, disegnate con finezza e con un evidente gusto per l’episodio narrativo. Basti guardare alla scena in cui, nel pannello sinistro, gli ebrei si abbeverano alla sorgente, con le madri che dissetano i figli e il dettaglio estremamente realistico dell’uomo che raccoglie l’acqua nel cavo della mano per portarla alla bocca.


Pala di Monforte (Adorazione dei magi; 1470 circa); Berlino, Gemäldegalerie.

La Pala di Monforte (1470 circa; Berlino, Gemäldegalerie) prende il nome dal monastero spagnolo in cui si trovava nel Seicento, ed è senza dubbio una delle opere più straordinarie di Hugo van der Goes. Per secoli rimase come segregata, poco vista e per niente studiata, con un’attribuzione addirittura a Rubens. La sua uscita dall’anonimato con assegnazione a Van der Goes avvenne tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX, a scompigliare molte scansioni biografiche e cronologie dell’artista già ben assestate nella critica corrente. Probabilmente segue di poco il trittico di cui abbiamo appena parlato ma mostra un approccio al racconto del tutto differente. Si tratta di un’Adorazione dei magi, in origine un trittico di cui resta solo la tavola centrale, molto sviluppata in orizzontale e mutila di alcune porzioni di pittura nella parte superiore. Vediamo al centro la Vergine, di sovrumano pallore, nell’atto di esporre il Bambino alla preghiera devota dei tre re all’interno di quello che sembra un edificio in rovina. Al suo fianco Giuseppe. Molte le figure di contorno, passanti che si fermano a guardare la scena, servitori e più in lontananza un villaggio, i cavalli dei magi sulla riva di un fiume, dei pastori con le loro pecore. Sulla sinistra dei gigli, a destra una pianta di aquilegia, al centro in primo piano il dono del re inginocchiato – dell’oro – e la sua corona appoggiata a una pietra. Il personaggio in ginocchio è il perno della composizione, tutto gira intorno a lui, eretto ed elegante nella compunta adesione alla formula dell’ossequio feudale svolto secondo le regole che vediamo anche nell’analoga posa del cancelliere Rolin di Jan van Eyck (1437 circa, Parigi, Louvre); forse i suoi tratti rimandano a Guillaume Hugonet, a sua volta cancelliere e uomo di fiducia di Carlo il Temerario.


Gerard David, Adorazione dei magi (1490-1495); Monaco, Alte Pinakothek.


Jan Gossaert, Adorazione dei magi (1506-1525); Londra, National Gallery. L’influenza della Pala di Monforte risulta particolarmente estesa, a giudicare dalle molte opere che manifestamente vi si ispirano.

Dittico di Vienna (Peccato originale, Deposizione; 1479 circa), parte di un trittico smembrato; Vienna, Kunsthistorisches Museum


Dittico di Vienna (Peccato originale, Deposizione; 1479 circa), parte di un trittico smembrato; Vienna, Kunsthistorisches Museum


Jan van Eyck, Polittico di Gand (1426-1432 circa), particolare delle figure di Adamo ed Eva; Gand, San Bavone.

Adorazione dei pastori (1480 circa); Berlino, Gemäldegalerie.

Nella nicchia che si apre alle spalle di Maria delle stoviglie in terracotta e un cucchiaio di legno fanno contrasto all’oro dei doni dei re; in alto al centro, uno scoiattolo termina la sua corsa su una trave. Una composizione ricca di dettagli, come vediamo, eppure monumentale e solenne – alcuni studiosi la considerano la più “italiana” delle opere di Van der Goes, e qualcuno ipotizza un poco probabile suo viaggio nella nostra terra. Una composizione realistica nella scala dimensionale delle figure, tutta giocata nei toni del rosso e del bruno, in cui dominano calma ed equilibrio, nonostante la costruzione prospettica – tipicamente fiamminga e non ancora frutto consapevole della prospettiva geometrica di matrice italiana – renda irrealmente ripido il terreno su cui posano i protagonisti. Come abbiamo visto, lo stile di Van der Goes negli anni successivi, quelli del Trittico Portinari, cambia radicalmente. C’è un ritorno ai colori freddi, all’oro, le espressioni dei volti si fanno più accentuate, i gesti più espressivi, le proporzioni fra le figure tornano a una gerarchizzazione di sapore medievale in cui il Bambino Gesù quasi galleggia come una presenza extraterrena nel vuoto di uno spazio di nuda terra. La fase immediatamente successiva vede ancora uno scarto.


Al 1479 circa appartiene il Dittico di Vienna (Peccato originale, Deposizione; parte di un trittico smembrato; Vienna, Kunsthistorisches Museum). La scelta iconografica cade qui sui concetti di caduta e redenzione: Adamo ed Eva stanno commettendo il Peccato originale, la deposizione di Cristo dalla croce mostra il sacrificio del figlio di Dio che scende in terra per salvare l’umanità redimendola da quel peccato. Le figure dei progenitori ricordano da vicino le analoghe del Polittico di Gand di Van Eyck, con la differenza che qui non sono chiuse in una nicchia ma si collocano libere in un contesto naturale; Eva in particolare ha una straordinaria naturalezza nella postura e nei movimenti, nella mano destra ha una mela che sta passando ad Adamo dopo averle dato giusto un morso, mentre allunga un braccio a coglierne un’altra. Da notare la forte umanizzazione del “serpente” che induce Eva al peccato: un demonio in forma femminile, specchio di Eva stessa, la donna, additata secondo tradizione come debole e tentatrice, pericolosamente sensibile alle lusinghe di Satana. La metà inferiore del corpo – una sirena terricola – è quella di una lucertola gigante (d’altra parte se – come racconta Genesi 2, 23 – il serpente inizia a strisciare dopo la maledizione conseguente a questo atto di tentazione, vuol dire che prima doveva avere delle zampe…).


L’Adorazione dei pastori (1480 circa; Berlino, Gemäldegalerie) ci fa assistere a una sacra rappresentazione: ai lati del dipinto due profeti hanno il ruolo di aprire quello che appare quasi un sipario; lo spettacolo cui ci invitano è l’accorrere di alcuni pastori al cospetto della Sacra famiglia circondata da angeli in preghiera. In realtà era uso corrente tenere coperte da tendaggi alcune opere per svelarle solo in occasioni festive o comunque speciali; e questa potrebbe essere la ragione del curioso stratagemma espositivo(15). Ma qui l’effetto è decisamente teatrale. Uno dei due profeti guarda direttamente noi spettatori, con un bizzarro effetto di tensione fra il realismo del primo piano e l’oleografica recita di Natale che va in scena alle sue spalle. Una scena movimentata, peraltro, con i pastori che entrano in campo di corsa e un po’ scomposti. A colpire è anche l’orizzontalità della tavola, spiegabile con una destinazione (oggi ignota) a uno spazio precostituito: dal punto di vista compositivo sembra quasi un trittico aperto e senza incernierature.

Per alcuni studiosi si tratta di un’opera giovanile – del periodo di Gand – ma è ragionevole pensare che sia stata invece realizzata quando l’artista ormai viveva nel convento di Rooklooster. Ed è anche quella che più di altre manifesta l’idea del ruolo della pittura nella concezione di Van der Goes. Abbiamo abbastanza chiaro come nel Quattrocento il quadro stesse assumendo il ruolo di una “finestra aggiuntiva” per l’ambiente in cui si collocava(16). Per Van der Goes non è così: il quadro è un frammento di spettacolo teatrale; in questa Adorazione un sipario si apre e vediamo gli interpreti su un fondo di quinte, non vere ambientazioni ma simulacri abbastanza dettagliati da essere sufficienti a rendere l’idea. Quel che vediamo non è la realtà che sta “fuori” ma la sua rappresentazione. Il quadro è la rappresentazione di una rappresentazione, quindi. La visione del sacro ci è qui offerta attraverso un doppio filtro: il teatro e il dipinto. Un’illusione al quadrato. In cui il pittore, al contrario di chi mette in scena uno spettacolo, non deve fare uso di attori presi dalla realtà ma può dare forma ideale ai soggetti sacri grazie alla propria, esclusiva maestria tecnica(17).

Nell’Adorazione di Berlino il gioco è scoperto, ma alla luce di queste considerazioni possiamo leggere molte opere dell’artista di Gand, anche il Trittico Portinari. Degli stessi anni è la Morte della Vergine (1472 circa - 1480 circa; Bruges, Groeningemuseum). Una stanza chiusa, senza altre aperture che la visione ultraterrena di Cristo in un alone di luce, con due angeli, pronto ad accogliere la madre, distesa nel suo letto di morte. Tutto attorno si accalcano gli apostoli, ciascuno espressione di un diverso, seppur trattenuto, atteggiamento di dolore.


Morte della Vergine (1472 circa - 1480 circa); Bruges, Groeningemuseum.


Morte della Vergine (1472 circa - 1480 circa), due particolari; Bruges, Groeningemuseum.

Anche qui a colpire è la spazialità compressa, con il letto posto di sbieco, probabile prestito da un’incisione di Schongauer (Morte della Vergine, 1470 circa) e dal punto di vista compositivo vicino alla costruzione obliqua di uno spazio affollato e visto un po’ dall’alto che abbiamo visto nella Deposizione viennese. La costruzione di uno spazio credibile, compatibile con le regole della prospettiva non è il primo degli obiettivi, per Van der Goes, l’esigenza espressiva prevale sempre. Siamo su un palcoscenico, ancora una volta, uno spazio mistico; e anche qui, al centro, come illuminato da un onnipresente occhio di bue, il volto pallido della Vergine.

La Morte della Vergine è un’opera assegnata da alcuni studiosi ai primi anni Settanta, almeno come inizio; ma appare tipica dell’ultimo periodo di Van der Goes, in cui prevale il desiderio di espiare, di far emergere il sacro in primo piano, in un’atmosfera trasfigurata e irreale che contrasta con la pur sempre evidente maestria dell’artista nel rendere naturale, quasi tangibile, ciò che appartiene alla sfera ultraterrena.

Il tocco di colore, in Van der Goes, a volte lascia qui percepire la traccia del pennello, per la prima volta con un’evidente intenzionalità. Il colore è trasparente, diluito, lontano dalla densità di molti suoi colleghi del tempo, quasi un’anticipazione di certa pittura cinquecentesca, ed è uno dei tratti distintivi della sua maniera di dipingere, insieme alla sapiente messa in scena delle figure, uno degli elementi originali su cui aveva costruito la fama e l’apprezzamento di cui era ormai circondato, orgoglio e tormento della sua vita.


Da Hugo van der Goes, Compianto di Cristo (1480-1490 circa); Napoli, Museo nazionale di Capodimonte.

La sua fuga dal mondo, il ritirarsi in convento fu forse un modo per sottrarsi alla tentazione della superbia, al pensare se stesso come creatore di meraviglie capaci di suscitare emozioni; un percorso che lo aveva portato a camminare sull’orlo di un abisso in cui non riusciva più a guardare senza provare spavento. Meglio una regola ferrea come modello di comportamento, una disciplina condivisa con i confratelli come antidoto alla tentazione meravigliosa della fantasia, quella che il cronista Ofhuys con poca fantasia. appunto, chiamava «eccesso di immaginazione».


Polittico Bonkil (Pala della Trinità; 1480 circa), quattro pannelli superstiti; Edimburgo, National Gelleries of Scotland.

Dirk Bouts e Hugo van der Goes, Trittico di sant’Ippolito (1475-1480 circa); Bruges, San Salvatore. Van der Goes fu chiamato, dopo la morte di Bouts, a completare il pannello di sinistra, incompiuto, con i ritratti dei coniugi Berthoz. L’attribuzione rimane a tutt’oggi incerta.


Incontro di Giacobbe e Rachele (1470-1475), disegno; Oxford, Christ Church.

VAN DER GOES
VAN DER GOES
Claudio Pescio
Hugo van der Goes (Gand 1140 circa - Auderghem 1482) è con Van Eyck e Vander Weyden uno dei principali pittori fiamminghi del Quattrocento. Personalitàsfuggente, dalla vita tormentata, affetto da un disturbo della personalitàche lo spinge a chiudersi in un convento proprio nel momento in cui ragguingel'apice della fama rappresenta il momento fondamentale in cui nella pitturafiamminga vengono accolte e rielaborate le innovazioni introdotte dai suoipredecessori. La sua importanza è accresciuta dall'enorme influenza che unadelle sue opere, il Trittico Portinari, avrà sugli sviluppi della pittura fiorentinadel secondo Quattrocento. Il suo catalogo è scarso, quasi tutto fondato su attribuzioni,ma ogni sua opera è capace di imporsi alla nostra attenzione comeun capolavoro di espressività, cura del dettaglio, talento nell'impostazionequasi teatrale della scena.