I TURBAMENTI
DEL GIOVANE HUGO

Personaggio chiave in questo quattrocentesco giro di affari, interessi economici e mode collezionistiche è Tommaso Portinari (Firenze 1424-1501), protagonista di una storia di intrighi e bancarotta, rivalità carrieristiche e fallimenti, intuizioni geniali, doppi giochi e vendette.

Nel 1465, dopo vent’anni e passa di lavoro, litigi, colpi bassi e abili strategie autopromozionali, Portinari riuscì a scalzare Ippolito Tani dal ruolo di dirigente incapo del Banco dei Medici di Bruges (Tani rimase come socio e fu spedito a cercare di rivitalizzare la languente filiale londinese del Banco). Per alcuni anni Tommaso aveva dedicato tempo ed energie alla costruzione di un solido rapporto di fiducia con la corte borgognona fino ad arrivare a potersi considerare un buon amico e consigliere di Filippo il Buono e poi di Carlo il Temerario. Condizione, questa, che lo aiutò a prevalere nella corsa al ruolo di gestore principale degli interessi medicei in città, che svolse rischiando qualche mossa imprudente e in qualche caso usando denari dei Medici per tornaconto personale. In breve, Tommaso divenne l’italiano più potente di Bruges – si stabilì nello Hof Bladelin, una delle più belle residenze cittadine –, l’unico citato dalle cronache fra gli invitati al matrimonio di Carlo stesso con la ventitreenne Margherita di York (alla festa aveva peraltro contribuito lo stesso Portinari con molta generosità), che fu celebrato proprio a Bruges nel 1468 con la consueta spettacolare, fiabesca, eccessiva ostentazione di sfarzo che aveva sempre accompagnato le feste nuziali dei duchi di Borgogna. Vi si svolsero nove banchetti pantagruelici, preceduti da altrettanti tornei cavallereschi; tra gli spettacoli organizzati anche un carro gigantesco (diciotto metri) con la ricostruzione di una balena con occhi e coda mobili, nella cui bocca spalancata danzavano sirenette e tritoni; e poi un leone dorato e un unicorno a simboleggiare la verginità della sposa. Sposa per la quale in verità Carlo – già padre di Maria di Borgogna per uno dei suoi due precedenti matrimoni – non mostrò mai molta attenzione.

Ma si trattava pur sempre del matrimonio del duca con la sorella del re d’Inghilterra, Edoardo IV, e le ragioni della politica dinastica, materia in cui i Borgogna erano dei veri professionisti, reclamavano un appropriato clamore. Fatto sta che i preparativi per le nozze coinvolsero ben settantacinque fra artisti e artigiani, che al tempo erano addetti anche alla cura, progettazione e realizzazione di allestimenti, stendardi, stemmi, trionfi, scenografie per gli spettacoli, ridipintura di statue. Tra quegli artisti un giovane promettente, da poco ammesso alla corporazione dei pittori di Gand, Hugo van der Goes. Il fatto di aver già lavorato alle decorazioni per i funerali del padre di Carlo, Filippo il Buono, lo collocava una spanna sopra ai colleghi. E qui torna in gioco Tommaso Portinari. Il fiorentino – già committente di Hans Memling, al tempo il principale artista della città di Bruges – dovette notare Hugo van der Goes proprio in quell’occasione nuziale, e qualche anno dopo gli commissionò il maggiore esempio di pittura fiamminga che si trovi oggi agli Uffizi, l’Adorazione dei pastori (1473 circa - 1477) che oggi è più nota proprio come Trittico Portinari. In realtà non si ha documentazione diretta dell’incarico; l’attribuzione a Van der Goes deriva da un accenno di Vasari nella Vita di Andrea del Castagno, dove parla di un certo «Ugo d’Anversa che fe la tavola di Santa Maria Nuova»(8). Van der Goes per il vero era di Gand, ma l’attribuzione non è mai stata messa in dubbio.


Hans Memling, Ritratto di Tommaso Portinari e la moglie Maria Maddalena Baroncelli (1470-1480); New York, Metropolitan Museum of Art. Il dipinto fu commissionato da Portinari a Memling probabilmente in occasione del suo matrimonio con una giovane della famiglia fiorentina dei Baroncelli. Giovane davvero: la sposa aveva solo quattordici anni, lo sposo quarantadue. L’abbigliamento della giovane, la fronte rasata mostrano l’adesione della ragazza alla moda corrente nelle Fiandre.



Hof Bladelin, antica sede del Banco Medici a Bruges.

È il dipinto attorno al quale è stata costruita l’intera vicenda cronologica del catalogo delle sue opere, e decisamente la sua più importante. Prendiamo le mosse dal Trittico, quindi, che rappresenta una summa dell’intero suo lavoro, contenendo l’intera gamma del suo linguaggio pittorico.
Il dipinto fu forse, per breve tempo, nella cappella Portinari della chiesa di San Giacomo a Bruges(9), ma era destinato, come accennato, alla cappella di famiglia nella chiesa di Sant’Egidio nello Spedale di Santa Maria Nuova a Firenze. A questo scopo fu spedito via mare, nonostante il precedente sfortunato del citato attacco pirata che nel 1473 aveva dirottato su Danzica un trittico di Memling; opera che viaggiava, per l’appunto, proprio su una galea armata dallo stesso Portinari. Il danno (la nave trasportava molti altri beni di pregio) aveva messo definitivamente in luce l’avventatezza delle iniziative di Portinari. La morte di Carlo il Temerario nel 1477, e la successiva insolvenza delle sue casse esauste dopo anni di guerra, rese inesigibili i prestiti che il fiorentino gli aveva elargito. Lorenzo de’ Medici lo accusò più volte in modo esplicito di sconsideratezza e di opacità gestionale: «Et egli mi restava ad avere, quando morì detto duca [Carlo il Temerario] da lire 16.150 di grossi […] per entrare in grazia del prefato Ducha et farssi grande alle nostre spese, non se ne churava […] Fui inghannato; et non lo fecie buon fine, amzi, per partecipare più n’ ghuadangni et meno nelle perdite»(10). Nel 1480 chiuse con Portinari e con l’attività bancaria a Bruges. Tommaso, inseguito dai creditori, si riciclò brillantemente come diplomatico e concluse la sua carriera, e la vita, a Firenze nel 1501.

Il Trittico di Van der Goes, in ogni caso, evitò i pirati e dopo un lungo viaggio via mare, partendo dal Mare del Nord, toccando la Sicilia e poi Pisa, giunse via Arno a Firenze, dove sedici uomini lo scaricarono a Porta San Frediano, il 28 maggio 1483, per trasferirlo in Sant’Egidio.

In fondo, uno dei compiti attribuiti dai nuovi ricchi – mercanti e banchieri – alle opere d’arte era di giustificare con la bellezza e la devozione dei soggetti un potere e uno status acquisiti spesso con sistemi poco compatibili col Vangelo. Senza contare l’inedita familiarità con la bellezza che si andava gradualmente estendendo dalle élite di corte a settori nuovi della società; e i risultati in termini di prestigio che potevano derivare dall’abbellire una chiesa o un edificio di fronte ai propri concittadini. L’incontro fra la pittura di Hugo van der Goes e la comunità artistica fiorentina – come vedremo – ebbe però un effetto ancora ancora più profondo che non la semplice attestazione di status del suo committente.

Sant’Egidio era la chiesa dello Spedale di Santa Maria Nuova, fondato da un Portinari, Folco, nel XIII secolo. Era affrescata (ma di queste opere non resta più traccia) con opere di Domenico Veneziano, Andrea del Castagno e Alesso Baldovinetti. Tommaso Portinari dovette aver commissionato il trittico negli anni immediatamente precedenti al 1473, anche in competizione con Angelo Tani e il suo Giudizio di Memling, come accennato anch’esso destinato, nelle intenzioni, a una chiesa fiorentina.

Hugo iniziò il lavoro a Gand attorno a quel 1473; nel 1476 aveva probabilmente terminato la tavola centrale. In quello stesso anno si traferì in un convento agostiniano presso Bruxelles, al Rooklooster (Rouge-Cloître), dove svolse il suo noviziato e prese i voti di fratello converso. I pannelli laterali furono forse iniziati nel 1477 e un anno più tardi il trittico dovette essere completato. Il 1483, anno in cui l’opera arrivò a Firenze, è anche probabilmente il successivo a quello della morte del pittore; in ogni caso non è noto se fosse ancora in vita in quel mese di maggio in cui il trittico giunse in città. Sappiamo però che quegli ultimi anni, per l’artista ormai monaco, furono particolarmente difficili a causa di una sua malattia mentale.

In area germanica e nei Paesi Bassi, tra XIV e XV secolo, si era diffuso un sentimento nuovo nei confronti della fede, fondato sulla meditazione, e un atteggiamento venato di malessere e riprovazione verso quella che veniva percepita come una deriva mondana, nella Chiesa, che rischiava di deviare dal solco dell’insegnamento evangelico. Atteggiamento trasversale agli strati sociali che aveva i suoi capisaldi nella “Devotio moderna” – movimento spirituale pauperista che cercava il recupero di una dimensione più intima del rapporto con la fede – e nel De imitatione Christi, testo di autore incerto, forse di Tomaso da Kempis (attorno al 1441), collegabile proprio alla Devotio moderna. Posizioni che troveranno sbocco nella Riforma protestante, ma che avranno una lunga tradizione anche all’interno della Chiesa cattolica.

Oscuri sensi di colpa portarono Van der Goes ad aderire al movimento, e successivamente a entrare in convento; il Rooklooster era affiliato alla congregazione fondata dai Fratelli della vita comune e partecipava attivamente ai tentativi di riforma all’interno della Chiesa.


Il Rooklooster (Rouge-Cloître) nel particolare di una tappezzeria della serie Le cacce di Massimiliano (atelier brussellese, 1540 circa); Parigi, Musée du Louvre.

Il Trittico Portinari era divenuto in qualche modo la manifestazione massima dell’orgoglio professionale dell’artista di Gand. Alcuni dei suoi conoscenti attribuirono la sua follia proprio a un eccesso di ambizione, che un umanista del tempo, Hieronymus Münzer, attribuiva al desiderio di Hugo di raggiungere e superare il talento artistico espresso qualche decennio prima dai fratelli Van Eyck nel capolavoro che si trovava nella sua stessa città, l’Agnello mistico tutt’oggi visibile in San Bavone a Gand. Non per caso, forse, il polittico di Gand e il trittico di Van der Goes sono le due opere di maggiori dimensioni del Quattrocento fiammingo. Alcuni storici hanno accostato la follia di Van der Goes alla frustrazione rispetto a un modello inarrivabile, cosa che ovviamente non chiarisce davvero le ragioni della malattia mentale di Hugo ma dice molto sull’alone di magica perfezione che circondava il polittico dei Van Eyck. Opera questa, di quarant’anni precedente, e ormai superata soprattutto dal punto di vista del modo di strutturare un racconto per immagini.

In convento, la fama acquisita consentiva a Hugo alcuni privilegi – tra i quali dipingere – e un minor carico di lavoro rispetto ai confratelli. In quel periodo ricevette addirittura la visita dell’arciduca Massimiliano, futuro imperatore, e di molte altre personalità desiderose di vedere o acquisire suoi lavori. Le cronache della comunità riportano accuratamente le diverse fasi della sua malattia mentale. A volte gridava, diceva di essere dannato, tentava di farsi del male. Il priore cercò di curarlo con la musicoterapia, memore dell’episodio biblico di Saul che dimentica le proprie angosce al suono della cetra di David. E in realtà molti luminari anche esterni al convento tentarono di migliorare la sua situazione. Alcuni parlavano di “frenesia”, altri di possessione demoniaca. Con un atteggiamento pragmatico (Panofsky definisce la sua cronaca «un capolavoro insieme di osservazione clinica e di ipocrita malignità») il cronista del convento, frate Gaspar Ofhuys (1456-1523), riporta le diverse posizioni elencando le ragioni degli uni e degli altri, e le molte possibili cause naturali dell’infermità di Van der Goes(11); quel che è certo, scrive, è che «il nostro fratello ne era assai sofferente. Era gravemente preoccupato, per esempio, per il compimento delle molte tavole che doveva ancora dipingere […] si dedicava anche, troppo spesso, alla lettura di un libro fiammingo. Se si aggiunge a ciò il fatto che beveva vino, sebbene indubbiamente soltanto per un riguardo verso i suoi ospiti, io per parte mia non posso astenermi dal temere che esso contribuì purtroppo ad aggravare la sua naturale disposizione»; e qui si coglie un’evidente disapprovazione per i privilegi, rispetto ai confratelli, che un semplice converso, per quanto di talento, aveva potuto ottenere in quel convento(12). In un altro passo allude alla sua divorante ambizione, da cui non era riuscito a liberarsi con la scelta di farsi converso, ambizione superiore alle forze di un essere umano, e ipotizza una causa sovrannaturale: «Dio, non volendo la di lui rovina, gli inviò per sua grande misericordia questa afflizione redentrice, che invero lo umiliò grandemente; perché frate Hugo si pentì, e quando si fu ristabilito si diede a vivere con moltissima umiltà». La cronaca di Ofhuys fu pubblicata alla metà del XIX secolo da Alphonse Wauters, archivista della Biblioteca nazionale di Bruxelles, e in epoca romantica l’immagine dell’artista ispirato e sconvolto insieme dalla propria follia contribuì alla fama di Van der Goes. Nel 1872 il pittore di storia Émile Wauters, nipote di Alphonse, presentò al Salon di Bruxelles un quadro che fece scalpore, La follia di Hugo van der Goes, iscrivendo definitivamente l’artista quattrocentesco nel pantheon della neonata nazione belga (regno indipendente dal 1839). In quel periodo ci fu anche chi fece circolare la convinzione (non suffragata da documenti) che la sua “follia” fosse causata da una delusione amorosa.


Il modello di vita austera e lontana dalle lusinghe mondane proposto dal De imitatione Christi era in contraddizione con ogni minima traccia di ambizione professionale, e il groviglio di senso di colpa che dovette provocare in Hugo sentirsi incapace di aderirvi potrebbe essere alla radice del suo profondo, morboso tormento esistenziale. Le sue ultime opere – in particolare la Morte della Vergine – appaiono abbastanza evidentemente segnate dal desiderio di allontanarsi dallo stile virtuosistico e compiaciuto che gli aveva dato fama, per trovare un linguaggio più sobrio, meno ambizioso, improntato a fervore religioso.


Ma torniamo al dipinto attorno al quale abbiamo deciso di iniziare a svolgere la nostra analisi sull’opera e la figura di Van der Goes, il trittico con l’Adorazione dei pastori che si trova oggi agli Uffizi e che prende il nome da Tommaso Portinari. In quell’opera confluiscono in qualche modo le ambizioni del pittore e quelle del committente. Ma le vicende della sua realizzazione coincidono con un periodo critico per entrambi.



Robert Campin, Trinità (1430-1432); Francoforte, Städelsches Kunstintitut.

Tommaso acquistò il già citato Hof Bladelin nel 1466, come sede del Banco Medici, proprio di fronte ai rivali banchieri della “nazione” lucchese. Palazzo signorile al quale invitò anche Lorenzo de’ Medici (che non riuscì mai ad andarci). Fu l’inizio del periodo migliore per gli affari fiorentini a Bruges, e anche delle grandi committenze di Portinari. La tavola centrale del trittico probabilmente fu dipinta quando Van der Goes era ancora a Gand, quindi entro il 1477. Anno orribile, come abbiamo visto, per Portinari e per i suoi rapporti con i Medici. Dato che Tommaso in quello stesso anno rientrò a Firenze, dovette aver posato per il suo ritratto – che compare nell’anta sinistra del polittico, realizzata, come la destra, quando Van der Goes era già in convento – prima di partire. L’intero trittico doveva essere pronto già nel 1477- 1478, ben cinque anni prima di arrivare a Firenze, quindi.


Come nel polittico eyckiano dell’Agnello mistico, anche il Trittico Portinari, da chiuso, presenta un’Annunciazione (nient’altro, trattandosi di sole due ante). Van der Goes, però, al contrario di Van Eyck – che rappresenta in forma di statua i due san Giovanni, Evangelista e Battista, ma come figure reali la Vergine e l’angelo annunciante –, trasforma in sculture i protagonisti della scena, senza per questo negare loro una vitalità tutt’altro che statuaria. Come vedremo altrove, anche qui Van der Goes usa il linguaggio di Jan van Eyck, il suo vocabolario formale, per dire però altre cose. Van Eyck tende a dare forma realistica, terrena, alla rappresentazione del sovrumano. Alcuni decenni dopo, Van der Goes, invece, usa il realismo per animare due simulacri della sacralità. In questa Annunciazione la profondità è maggiore, rispetto a quella di un gruppo scultoreo in una nicchia, il gioco delle ombre raddoppiate è vivace, i movimenti naturali. L’artificio della pittura che simula di essere scultura è un banco di prova di talento mimetico a cui i pittori fiamminghi ricorrevano spesso; lo vediamo anche, precocemente, nella Trinitˆ di Robert Campin, del 1425-1430. L’imitazione di qualcosa che a sua volta imita la realtà (una scultura, appunto), è una specie di mimesi al quadrato, in cui la pittura rivendica un primato sulle altre arti. A questo serve la monocromia, in questo caso: a dimostrare che la pittura può raggiungere risultati di verosimiglianza assoluta anche rinunciando alla facilità di effetto che il colore le consentirebbe.

Trittico Portinari (Adorazione dei pastori; 1477-1478); Firenze, Uffizi.


Rogier van der Weyden, Natività, tavola centrale del Trittico Bladelin (dopo il 1446); Berlino, Gemäldegalerie.
Le figure della Vergine e del Bambino furono di ispirazione per Van der Goes nel Trittico Portinari.

All’interno, sulle tre tavole si distende in un ampio scenario paesistico un’Adorazione dei pastori popolata – oltre che dai protagonisti essenziali, la Sacra famiglia e i pastori – di sante e santi, di angeli, dei committenti e della loro famiglia, di figure sullo sfondo. La scelta del soggetto inseriva così il trittico nella decorazione della cappella a cui era destinata in Sant’Egidio, affrescata con scene della Vita di Maria. Van der Goes, in alcuni dei dettagli della composizione, specie nella figura della Vergine, mostra di conoscere scene analoghe come la Natività parte del Trittico Bladelin di Rogier van der Weyden (dopo il 1446, Berlino, Gemäldegalerie) e nella Natività di Robert Campin (1420- 1425, Digione, Musée des Beaux-Arts). La scena appare però più ricca di profondità e maggiormente consapevole nell’utilizzo della prospettiva centrale.

Nella tavola centrale, dietro la stalla, un palazzo che, per lo stemma con l’arpa, è individuabile come il palazzo di re David, biblico progenitore della tribù di Cristo; oltre il palazzo, un villaggio con costruzioni a graticcio di impianto nordico.

Le figure si dispongono concentricamente attorno al Bambino; alcune, come il pastore che si avvicina sulla destra, le levatrici dietro una staccionata al centro (citate da un vangelo apocrifo), il valletto dei magi che chiede lumi sul tragitto a un paesano fanno da collegamento fra il primo piano e lo sfondo. Dietro al gruppo dei pastori, in alto sulla collina, il momento dell’annuncio dell’avvenuta natività da parte di un angelo a due spaventati pecorai. Nell’anta sinistra, in alto, la scena in cui Giuseppe fa smontare dall’asino Maria, esausta per il viaggio.

Nella tavola centrale si trovano i protagonisti principali dell’evento. Da sinistra san Giuseppe, la capanna con l’asino e il bue, la Madonna inginocchiata, pallida e sofferente, a mani giunte, e il Bambino, raffigurato nudo, a terra, con delle lame di luce che partendo da lui si irraggiano in ogni direzione mischiandosi al fieno e alle spighe che sono sparsi sul terreno; sulla destra tre pastori e un quarto che si avvicina, dai tratti fortemente caratterizzati, figure fra le più realistiche e monumentali dell’intera composizione; e poi angeli, in volo o inginocchiati. Una composizione tutt’altro che statica, in cui ogni figura assume una propria posizione o compie un gesto; risalta soprattutto, fra gli altri, il pastore che si erge più in alto, con la bocca semiaperta e lo sguardo sbarrato, emblema di stupore ed emozione.

Trittico Portinari (Adorazione dei pastori; 1477-1478), particolare della tavola centrale; Firenze, Uffizi.


Trittico Portinari (Adorazione dei pastori; 1477-1478), particolare della tavola centrale; Firenze, Uffizi.

In primo piano una perfetta natura morta con due vasi (spaiati, uno in terracotta e uno di vetro), dei gigli rossi, degli iris bianchi e blu, dei garofani, delle viole, dell’aquilegia e un covone di frumento, simboli della Passione di Cristo, della purezza della Vergine e dei suoi dolori, dell’Eucaristia. Il dettaglio dei vasi in quella collocazione riprende anche l’uso, diffuso allora come ancora oggi, di porre dei vasi con fiori sull’altare, davanti alla pala dipinta. Ma rappresenta anche uno schermo, una separazione tra noi che guardiamo e i protagonisti della scena sacra. In un angolo uno zoccolo allude all’importanza di essere scalzi, su un terreno sacro. Da notare la centralità della Vergine, in questo caso allusione alla centralità dell’istituzione fiorentina a cui l’opera era destinata, Santa Maria Nuova, sia rispetto al contesto urbano che alle fondamentali funzioni assistenziali a cui si dedicava.


L’irruzione dei pastori in una grande pala d’altare, con la loro irruenta ingenuità, è una prima volta, almeno con questa verosimiglianza; è il popolo, sono i contadini che prendono la scena fra santi, angeli e ricchi borghesi. In questo si può già leggere una traccia della Devotio moderna.

Nei pannelli laterali sono collocati i committenti, partecipi della stessa scena sacra – quindi non isolati in uno spazio a sé stante – ma raffigurati in dimensioni ridotte rispetto ai santi che li accompagnano (col risultato di far giganteggiare questi ultimi); cosa che crea una curiosa dissonanza rispetto al naturalismo che governa buona parte della composizione, quasi un tributo a un rispetto ancora pienamente medievale delle doverose gerarchie fra sacro a profano. (Naturalismo, se ci pensiamo, contraddetto a sufficienza dalla disinvoltura con cui si inseriscono nella scena esseri volanti. Solo nella pittura fiamminga troviamo tanta libertà nel mescolare dettaglio naturalistico e irreali visioni celesti). A sinistra vediamo Tommaso Portinari con i figli Antonio e Pigello e i santi Tommaso e Antonio abate (per Pigello niente santo…).

Nell’altra anta la moglie di Tommaso, Maria Baroncelli, e la graziosa e compunta figlia Margherita; dietro di loro le sante onomastiche: Margherita in piedi su un drago atterrato - molto simile a una rana pescatrice, per la verità - e Maria Maddalena col suo vaso di unguento.


In tutto il dipinto si percepisce una tensione, come uno squilibrio, eco e manifestazione di uno stato d’animo travagliato. Niente di più distante dall’estatica immobilità ultraterrena delle composizioni di Van Eyck. Eppure, come Van Eyck, anche Van der Goes è consapevole di trovarsi nel pieno di una rivoluzione in corso. Il naturalismo, la finzione, non servono solo a simulare la realtà, sono l’orgogliosa affermazione della capacità intrinsecamente creativa dell’artefice; l’opera d’arte è una realtà “aggiuntiva”, opera dell’ingegno di un individuo. L’arte è invenzione, non copia. Daido Moriyama, fotografo giapponese contemporaneo, sostiene con un paradosso che la fotografia non è arte: «la macchina fotografica è un dispositivo per copiare immagini esistenti». Affermazione in cui in realtà espone la propria poetica di cacciatore seriale di inquadrature dal vero apparentemente casuali che si fanno opera creativa, e che ci aiuta a capire di quale rivoluzione parliamo. Ed è probabile che fosse proprio l’orgoglio inevitabilmente sotteso a questa convinzione a turbare i sonni di Hugo: quando l’artista si paragona al creatore pecca di superbia.

 
Eppure Van der Goes rimase soprattutto un artista di riferimento per la borghesia, più che per la corte. Al contrario di Jan van Eyck non ebbe incarichi ufficiali e non firmò mai una propria opera, rivelando così una diversa considerazione del ruolo sociale dell’artista: dipingere è un’attività artigianale in cui è possibile eccellere, non un mezzo per salire di un gradino nella gerarchia sociale.


Trittico Portinari (Adorazione dei pastori; 1477-1478), sportello destro, intero e particolari del vaso di unguento della Maddalena e del drago sotto i piedi di santa Margherita; Firenze, Uffizi.


VAN DER GOES
VAN DER GOES
Claudio Pescio
Hugo van der Goes (Gand 1140 circa - Auderghem 1482) è con Van Eyck e Vander Weyden uno dei principali pittori fiamminghi del Quattrocento. Personalitàsfuggente, dalla vita tormentata, affetto da un disturbo della personalitàche lo spinge a chiudersi in un convento proprio nel momento in cui ragguingel'apice della fama rappresenta il momento fondamentale in cui nella pitturafiamminga vengono accolte e rielaborate le innovazioni introdotte dai suoipredecessori. La sua importanza è accresciuta dall'enorme influenza che unadelle sue opere, il Trittico Portinari, avrà sugli sviluppi della pittura fiorentinadel secondo Quattrocento. Il suo catalogo è scarso, quasi tutto fondato su attribuzioni,ma ogni sua opera è capace di imporsi alla nostra attenzione comeun capolavoro di espressività, cura del dettaglio, talento nell'impostazionequasi teatrale della scena.