Arte e cinema
Werner Herzog

UN ESPLORATORE
DEL DIVERSAMENTE UMANO

È un anno importante per Werner Herzog: ottant’anni a settembre e un'ottantina di opere tra film, documentari e non solo.
Romantico e antiromantico, amante dei contrasti e della forza visionaria delle immagini, il cineasta tedesco indaga l'uomo in condizioni estreme.

Luca Antoccia

Selvaggio e coltissimo, romantico e antiromantico, superomistico e profondamente umanista, sostenitore di una recitazione inespressiva come di quella più espressionista, così radicato nella cultura tedesca eppure tale da risultare il più cosmopolita dei registi viventi (ha girato film in tutti e sei i continenti, compresi Oceania e Antartide), Werner Herzog (1942) è a suo agio nelle contraddizioni e ama definire se stesso un artigiano, non un artista, un soldato del cinema e non un regista.
Di certo è un militante del cinema, un esploratore dei suoi confini, di ogni reame intermedio fra fiction e documentario, tra cinema, tv e installazioni.
All’età di ottanta anni (a settembre) conta un’ottantina tra film e opere di vario tipo, una cifra record, una longevità artistica che ha pochi uguali, una filmografia imponente che è molto più che la somma delle sue parti. È la mappatura più estrema e meticolosa, l’enciclopedia audiovisiva più accurata e delirante dell’essere umano, e forse proprio perché vista attraverso i suoi punti limite.
Un’enciclopedia del diversamente umano. Ancora negli anni Settanta-Ottanta ciò veniva scambiato per superomismo (Fitzcarraldo1982 o Aguirre, furore di Dio, 1972), ma tutta la sua produzione successiva è piuttosto una perlustrazione di ogni condizione diversa dalla norma. Non ci sono infrauomini o superuomini. Che siano i protagonisti di Anche i nani hanno cominciato da piccoli (1970), i sordo-ciechi del Paese del silenzio e dell’oscurità (1971), gli allergici all’elettromagnetismo di Lo and Behold - Internet: il futuro è oggi (2016), i misteriosi artisti preistorici delle caverne francesi o gli aborigeni australiani, c’è sempre l’uomo in condizioni limite. Come nella Soufrière (1977, sull’eruzione dell’omonimo vulcano), nell’Ignoto spazio profondo (2005, focalizzato in particolare sullo sbarco di una navetta terrestre in un lontanissimo pianeta a causa di una catastrofe che minaccia l’estinzione del genere umano), in Echi da un regno oscuro (1990, sulla figura di Jean-Bedel Bokassa, ex dittatore della Repubblica Centrafricana, artefice di crimini terribili e accusato di cannibalismo), in Fata Morgana (1971, ambientato in una sorta di spazio allucinatorio dei deserti africani). E ancora in Grido di pietra (1981) che tratta di una sfida tra alpinisti impegnati nella scalata del Centro Torre in Patagonia o in Cuore di vetro (1976) che ha come
tema l’esoterismo alchemico e l’uomo (e l’attore) in stato di trance da ipnosi. Una coerenza sotto questo aspetto che sarebbe inusuale perfino per uno scrittore, figuriamoci per un regista, che si specchia in alter ego altrettanto visionari: Chatwin (Nomad - In cammino con Bruce Chatwin2019), Gorbaciov (Herzog incontra Gorbaciov, 2018, diretto con André Singer), Timothy Treadwell (Grizzly Man, 2005).
E in questo ultimo documentario - ispirato alla storia dell’esploratore ambientalista americano che per molti anni visse a stretto contatto con gli orsi grizzly nel Parco nazionale e riserva di Katmai (Alaska) dove rimase ucciso da uno di loro - nel protagonista che accarezza gli orsi, e che finisce dilaniato, si consuma il distacco totale da ogni idolatria della natura e del superomismo.
Herzog ha più volte dichiarato di ammirare il pittore romantico tedesco Caspar David Friedrich: «Con lui ho una grande affinità. Nel Monaco sulla spiaggia e nel Viandante sul mare di nebbia un uomo sta solo in contemplazione del paesaggio. In confronto alla grandezza dell’ambiente, è minuscolo e insignificante. Ma Friedrich non dipingeva paesaggi fini a se stessi, ci rivelava invece paesaggi interiori, quelli che esistono solo nei sogni. Qualcosa che ho sempre provato a fare nei miei film».


Un frame da Cave of Forgotten Dreams (2010).


Un frame da Aguirre, furore di Dio (1972).


Un frame da Apocalisse nel deserto (1992).

Negli anni Ottanta era frequente associare il suo cinema al romanticismo, sebbene anche film come Cuore di vetro e L’enigma di Kaspar Hauser (1974), che attingono a piene mani al tempo e all’immaginario romantico, sfiorino il citazionismo senza mai toccarlo (l’isola nella sequenza finale di Cuore di vetro ricorda sorprendentemente nella forma e nella struttura Il naufragio della speranza e, poco prima, i personaggi che si affacciano sul mare fanno pensare alle Bianche scogliere di Rügen, entrambe opere di Friedrich). In seguito, Herzog sembra cercare nello stesso artista piuttosto quella relazione inedita che il romanticismo pittorico instaura tra spettatore e paesaggio.
Molte sono le figure di spalle nei due film sopra citati così come in Nosferatu, il principe della notte (1979) e Aguirre, furore di Dio.
«Friedrich ha conquistato il mondo, ma a un prezzo, il radicale fraintendimento di chi e di cosa la sua arte cercava di fare. Friedrich è diventata la suprema icona della visionarietà romantica, lo amiamo come amiamo Dracula, perché ci procura dei brividi», dichiara Herzog. Per lui, infatti, Friedrich è piuttosto il pittore politico che Anselm Kiefer e Gerhard Richter in modi diversi recuperano dopo il nazismo, un ribelle contro il nuovo ordine mondiale instaurato dal Congresso di Vienna del 1814-1815. Proprio il capolavoro assoluto del primo Herzog, L’enigma di Kaspar Hauser, apre su un’altra e forse più innovativa concezione di paesaggio: sono i paesaggi mentali di Kaspar, apparentemente immotivati, carovane nel deserto, città orientali, visioni insomma. Che sfociano nel grande film di riferimento del primo Herzog, Fata Morgana, e alle quali già il titolo allude col suo senso allucinatorio. Da quello rarefatto della Grande estasi dell’intagliatore Steiner (1974) o della Soufrière o di Dentro l’inferno a quello fittissimo e irrespirabile della foresta amazzonica in Aguirre, furore di Dio e Fitzcarraldo, pian piano il paesaggio tra anni Settanta e Ottanta si trasforma in qualcosa di diverso, approda a una dimensione anche spirituale cui non solo la musica ma ora anche l’immagine a pieno titolo concorre. In quella sorta di manifesto che sono le Minnesota Declarations (1999), Herzog dichiara che ci sono «strati più profondi della verità al cinema, qualcosa che può essere definita verità poetica o estatica. Misteriosa ed elusiva, essa può essere raggiunta solo attraverso la creazione, l’immaginazione e la stilizzazione».
Un paesaggio che al mondo non c’è. Come quelli di Hercules Seghers (1590-1640 circa) - scoperta tardiva ma folgorante - con i quali il regista allestisce una mostra nel 2012 al Whitney Museum of American Art di New York.
Una sorta di gigantesca installazione iniziatica ai paesaggi lunari, metafisici o fantascientifici, del pittore olandese.
«Le immagini possono essere come finestre che ci gettano in un mondo ultraterreno […]; e allo stesso tempo riconosciamo le visioni come qualcosa di non estraneo, che ci appartiene - nate centinaia di anni fa - come se esse fossero state dormienti in profondità dentro di noi […].
Le sue opere creano un’illuminazione dentro di noi, e noi sappiamo immediatamente che questa non è una verità fattuale ma estatica. La maggior parte delle sue stampe non sono paesaggi reali. Possiamo essere quasi certi che Seghers non ha mai visto una montagna o una formazione rocciosa nella sua vita».


HERZOG DICHIARA CHE CI SONO «STRATI PIÙ PROFONDI DELLA VERITÀ AL CINEMA, QUALCOSA CHE PUÒ ESSERE DEFINITA VERITÀ POETICA O ESTATICA.
MISTERIOSA ED ELUSIVA, ESSA PUÒ ESSERE RAGGIUNTA SOLO ATTRAVERSO LA CREAZIONE, L’IMMAGINAZIONE E LA STILIZZAZIONE»


Un frame da L’enigma di Kaspar Hauser (1974).


Caspar David Friedrich, Le bianche scogliere di Rügen (1818), Winterthur, Kunst Museum Winterthur.

La lunga ricerca sul paesaggio mentale sembra compiersi nel film Cave of Forgotten Dreams del 2010. Nel 1994 nell’Ardèche, in Francia, era stata scoperta la grotta Chauvet con centinaia di dipinti rupestri zoomorfi. Sono la prima testimonianza del bisogno di rappresentazione artistica dell’uomo risalente a trentaquattromila anni fa.
Herzog, unico cineasta, ottiene un permesso speciale e gira un film insieme personalissimo e universale. Nella parte iniziale dice: «Queste immagini sono ricordi di sogni a lungo dimenticati. Saremo mai capaci di capire la visione degli artisti oltre un tale abisso temporale? Un’aria di melodramma avvolge questo paesaggio. Potrebbe uscire da un’opera di Wagner o da un dipinto romantico tedesco. E se fosse questa la connessione che ci unisce? Questo inscenare il paesaggio come un evento operistico, non è proprio soltanto dei romantici. Gli uomini dell’Età della pietra, forse, avevano un simile sentire dei paesaggi interiori».
Ovunque si manifesti l’uomo in tutta la sua grandezza o abiezione, che sia l’artista più antico del mondo o il sanguinario despota di un oscuro regno africano, c’è la macchina da presa di Werner Herzog. Il suo discorso d’autore potrà forse essere compreso meglio, come Seghers, come l’anonimo artista della grotta di Chauvet a molta distanza di tempo. Alla fine, la domanda base per Herzog, di tutto il suo cinema, è quella stessa che lui rivolge all’archeologo alla fine di Cave of Forgotten Dreams: «Qual è la sostanza dell’essere umano?». Nella risposta, che conta comunque meno del porre la domanda, viene detto che la raffigurazione, l’arte delle immagini, trasmette informazioni superiori rispetto al piano del linguaggio verbale. Come tali le immagini sono capaci, da sole, di comunicare anche con ogni futuro. E non è poco.


Un frame da Cuore di vetro (1976).


Caspar David Friedrich, Il naufragio della speranza (1823-1824), Amburgo, Hamburger Kunsthalle.

ART E DOSSIER N. 401
ART E DOSSIER N. 401
SETTEMBRE 2022
In questo numero: ARTE CONTEMPORANEA - Luigi Ghirri: vedere oltre di Cristina Baldacci; STORIE A STRISCE - L’universo dei manga di Sergio Rossi; GRANDI MOSTRE. 1 - Somaini a Milano - L’ansia del furor costruttivo di Fulvio Irace; 2 - Il Settecento veneto a Trento - Un caleidoscopio cromatico di Marta Santacatterina; ....