Il passo è illuminante. Constable sta prendendo atto che il virtuosismo incoraggiato e foraggiato dalle accademie è esattamente l’opposto della verità in natura. Verità che a sua irremovibile convinzione non nasce dall’imitazione e dell’abilità con cui la natura stessa viene rappresentata. È con l’intervento risanatore dell’artista che essa si rivela, stando a Kant, allo stato “noumenico”, da realtà in sé(7).
Questa, in sintesi, è la verità che Constable sta rincorrendo. Il limite che non potrà essere “scavalcato” se si vuole evitare che la realtà diventi mistificazione, “bravura”, appunto, cioè il suo stesso contrario. Sempre nel 1802 l’artista compie un viaggio, uno dei pochi fuori dal recinto sacro del suo Suffolk. Va a dipingere al Lake District, contea del Cumberland, nel Nord-Ovest del paese. Vi trascorre due mesi e rientra fortemente deluso, impressionato dal clima tempestoso di quelle montagne che avrebbero invece ispirato e fatto grande l’opera di Turner, anch’egli pellegrino in quei luoghi.
L’incompatibilità tra i due pittori, una perla biografica tra le più celebri della storia dell’arte, si manifesta fin dalle scelte tematiche, diventando negli anni un vero paradigma per estimatori e critici partigiani.
Di qui a coinvolgere la reciproca sfera privata e caratteriale non ci sarebbe voluto molto; quando in realtà Constable e Turner ebbero scarse occasioni di frequentarsi. Ma, a doverlo ricordare, l’esagerazione si addice al mito.
L’attenzione al fenomeno naturale contingente, al soggetto ravvicinato, prevede nel primo periodo di Constable una rinuncia al vedutismo o comunque al tema di respiro panoramico.
Prefigurando il macrocosmo nel dettaglio in natura - e qui si può trovare una certa sinestesia con Jane Austen, nei cui romanzi il minimo si trova sempre a doversi confrontare con il grandioso e l’estremo -, il pittore di Bergholt dovrà inventarsi una propria metodica: nel caso, concentrarsi sui più sottili passaggi cromatici e luminosi a cui l’azione del sole e dell’ombra sottopongono il suo soggetto. Che vuol dire non poter ricorrere, e lo vedremo anche in seguito, a nessun apporto dell’immaginazione, né a quelle licenze pindariche di cui il pieno romanticismo si sarebbe ampiamente servito. «Luce, brezza, fioritura, freschezza.
Nulla di ciò», riporta ancora Leslie dando la parola allo stesso Constable(8), «è stato fino a oggi rappresentato sulla tela da un qualsiasi pittore al mondo […] la mia arte limitata si trova in ogni sentiero, si pensi di ciò quello che si vuole, almeno questo è mio». E conclude con una metafora “naïve” e insieme sentenziosa:
«Preferirei avere la più piccola proprietà, fosse solo una capanna, che vivere in un palazzo che appartenga a un altro».
L’orgoglio si fa sentire. Constable sa che appartenere a se stessi non è impresa da poco, soprattutto per un soggetto naturalmente socievole e positivo qual era.
Ma accetta la sfida. Il buon carattere dà concretezza all’uomo che in fondo è un sognatore, e al realista che tra le righe è un romantico “in nuce”.
Su tale presunta bivalenza è venuta a crearsi quella che potremmo chiamare la “questione Constable”; secondo cui, a detta di una fronda critica britannica - con riferimento soprattutto al suo periodo più fecondo, che va dal 1819 al 1825 - nell’artista convivrebbero due anime: quella del realista, diligente e tenace, e quella del romantico, capace di esaltanti intuizioni visionarie. Perché il capolavoro venisse fuori, sempre secondo questa linea esegetica, bisognava che le due nature convergessero per attrazione spontanea.
In questo senso, spingendo oltre il discorso a rischio di essere frainteso, Francesco Arcangeli, in un saggio uscito su “Paragone” per la grande retrospettiva dedicata a Constable alla Biennale veneziana del 1950, parla di «limbo»(9). «[Constable] non era abbastanza e clamorosamente moderno», scrive Arcangeli, «da provocare scandalo. Lo fu tanto da non piacere che a pochi».
In realtà Constable è stato un pittore di “transito”. Cosa che allora non poteva essere facilmente avvertibile. La sua portata innovativa resta per così dire interna ai valori fondanti il processo pittorico, in qualche modo bisogna andarla a cercare.
È in silenzio che il pittore agisce e sembra contraddirsi.
Va ricordato che il Constable “tecnico” ricorreva a raffinati e non allora risaputi espedienti. A cominciare dall’utilizzo del colore “locale”: che è il colore proprio di un oggetto esposto alla luce naturale, al riparo da effetti che potrebbero modificarlo o da fattori quali la distanza o il riflesso di corpi vicini capaci di influire sulla sua “naturalità” e purezza. E ancora. Per preparare la tela, vi stendeva densi strati di biacca, in modo da ottenere una tavolozza estremamente luminosa e brillante, in grado di raggiungere sottigliezze cromatiche altrimenti non percepibili: come l’effetto della rugiada e dell’umidità sull’erba o la trasparenza dell’acqua su fondali bassissimi.
E poi la luce: che nell’“en plein air” preferiva quella del mezzogiorno, con il sole abbastanza alto da rimanere fuori dalla tela.
«Compito del pittore è una pura percezione del fatto naturale», scriveva ancora a Leslie a conferma di quella aderenza al dato reale così intensamente voluta che presto si sarebbe snaturata per convertirsi nella sua stessa sublimazione.