Grandi mostre. 1 
LOUISE NEVELSON A VENEZIA

DARE ORDINE
ALLE COSE PERSE

Ha dato nuova vita agli scarti. Ha dipinto, assemblato, disegnato ma soprattutto scolpito. Ora, un nucleo significativo delle opere monumentali create da Nevelson è visibile in un progetto espositivo collaterale della Biennale di Venezia, a cui l’artista partecipò sessant’anni fa.

Lauretta Colonnelli

Parlando della sua infanzia nel Maine, Louise Nevelson raccontava che era cresciuta in campagna e da piccola si sentiva sopraffatta da tutti quegli alberi nella foresta: erano troppi. Solo dopo essere stata a New York e aver studiato pittura, poté tornare in quei luoghi e sentirsi libera: «Avevo imparato a conoscere la luce e l’ombra e il movimento, in altri termini le cose che andavano in primo piano e le cose che stavano sullo sfondo, e non mi sentivo più sopraffatta, perché possedevo un ordine. E quell’ordine mi sostiene da allora. Per dipingere le mie sculture monocrome, ho stanze diverse per colori diversi. Ho uno studio nero, uno studio bianco, uno studio dorato, di modo che la mia mente non si confonda. E quando vado nello studio nero non è che assemblo i pezzi e poi li dipingo, niente affatto. Prima li dipingo e poi li uso, in modo da non confondermi, perché se li usassi allo stato grezzo e poi li dipingessi, avrebbero dimensioni diverse e superfici diverse». Agli altri artisti, che le chiedevano come mai sprecasse tutto quel tempo a immergere nella tinta pezzi di legno come se fossero stoffe, e non li assemblasse prima, rispondeva: «Be’, non funziona così, se voglio ottenere questo risultato».

I suoi bagni nel colore erano una sorta di immersione battesimale, per far rinascere a una vita nuova, a un diverso significato, quei rottami che la gente aveva buttato via. Nacquero così i monumentali rilievi neri, bianchi e dorati esposti ora nelle nove sale al secondo piano delle Procuratie vecchie, affacciate su piazza San Marco, per celebrare il sessantesimo anniversario della partecipazione di Nevelson alla Biennale del 1962. E più di sessanta sono le opere in mostra: le grandi sculture che l’hanno resa famosa, e i collage, meno noti, ma anch’essi fatti con oggetti recuperati per strada o nei mucchi di rifiuti.


I suoi bagni nel colore erano una sorta di immersione battesimale, per far rinascere quei rottami che la gente aveva buttato via


Nei collage, i materiali sono assemblati senza essere ridipinti, con margini strappati, pieghe e tagli e tracce di sutura e frattura. «Amo mettere insieme le cose», diceva. Pezzi di legno grezzo e frammenti di impiallacciatura, cartone e carta vetrata, nastro adesivo e fogli di alluminio, vinili e pagine di giornale con le notizie di anni trascorsi. Nevelson ha riordinato i frammenti di un mondo quotidiano esploso in mille pezzi. Oggetti che ogni giorno vengono fabbricati, venduti, comprati, e buttati via a una velocità sempre più ossessiva per far posto ai nuovi, nel tentativo di mondarsi di ogni impurità rimuovendo i resti dell’esistenza di ieri, che una volta espulsa si vuole dimenticare. Nevelson li ha raccolti, e ricomposti in un organismo armonico, che suggerisce un ritmo, un equilibrio, un senso, un riposo.


Negli anni Sessanta e Settanta ha cominciato a salvare dalla discarica anche oggetti fabbricati nei nuovi materiali, sempre più indistruttibili, eppure con una vita sempre più breve nella girandola del consumismo: alluminio e acciaio, plexiglas e plastica. Ha raccolto, come si vede nel collage Untitled (1985), il coperchio di plastica di una pattumiera, insieme a una scopa e a una paletta per la spazzatura, in alluminio verniciato di blu, nella stessa meravigliosa tonalità che una volta gli egizi adoperavano per dipingere i volti degli dèi.
Diceva che tutto quello che il mondo buttava via, in fondo si poteva riciclare in altri modi, perché se l’uomo aveva disegnato una curva questa nasceva in quanto fatta dall’uomo, quindi se l’uomo poi la metteva al contrario o in un altro contesto, questa curva aveva la stessa valenza, ma con un altro significato. Diceva: «Quando uso una forma per cappelli, o un asse da gabinetto, una volta che sto lavorando alla loro traduzione in un’opera, mi imbarazzerebbe pensare a quello che erano».
Raccoglieva questi pezzi e li ricoverava dentro casa. Una casa grandissima, che aveva acquistato nel 1958 in 29 Spring Street, a Little Italy, New York, diciassette stanze e quattro bagni. Una volta, e non doveva essere un caso, era stata un sanatorio. Fu la sua casa definitiva, dove visse e lavorò fino all’ultimo giorno, il 17 aprile 1988.


The Golden Pearl (1962).

Sembra generata da questo prendersi cura, attitudine femminile, l’arte di Louise Nevelson, nata Leah Berliawsky il 23 settembre 1899 a Pereyaslav, novanta chilometri a sud-est di Kiev, nell’Ucraina della Russia zarista, ed emigrata con la famiglia nel 1905 a Rockland, sulla costa atlantica degli Stati Uniti. Sono rimaste certe sue riflessioni in una conversazione registrata nel 1972 dal gallerista Arne Glimcher: «Ritengo che le mie opere siano decisamente femminili. C’è qualcosa nella mentalità femminile che può salire al cielo. La mente femminile è positiva, e diversa da quella dell’uomo. Un uomo non potrebbe mettersi a giocare con questi residui, e maneggiare gli strumenti che uso io per creare. I miei collage sono come dei lavori d’ago. Il mio lavoro è delicato, anche se può sembrare vigoroso. In esso c’è tutta la mia vita, e tutta la mia vita è femminile».
Aveva nove anni quando la bibliotecaria della scuola le chiese che cosa avrebbe voluto fare da grande. Guardando la grande statua in gesso di Giovanna d’Arco al centro della biblioteca, disse d’impulso: «Sarò un’artista», e subito aggiunse: «No, sarò una scultrice. Non voglio farmi aiutare dal colore».
Si sposò giovanissima con Charles Nevelson, che aveva fondato con i fratelli la compagnia marittima Nevelson Brothers Company. Nacque il figlio Mike. «La famiglia di mio marito era terribilmente raffinata. Nel loro circolo si poteva conoscere Beethoven ma guai a essere Beethoven. Non era consentito essere un creatore, ci si doveva limitare a fare da pubblico. Io ero una creatrice, e dovevo fare». Andò a scuola di canto, di pittura e di “modern dance”: «La danza mi ha fatto capire che l’aria è un solido che si può attraversare, non un vuoto in cui esistere». Le limitazioni della famiglia la soffocavano, e dopo qualche anno pose fine al matrimonio: «Volevo essere padrona del mio tempo, e così mi feci il più grande dono che potessi farmi, la mia stessa vita». Una volta, a chi le chiedeva chi avrebbe voluto essere in una sua possibile reincarnazione, rispose ridendo: «Louise Nevelson».
Viaggiò in Europa, dove conobbe i collage cubisti di Picasso e gli assemblage dadaisti di Kurt Schwitters. Tornata a New York diventò assistente di Diego Rivera per il murale alla New Workers’ School. Cominciò a creare in terracotta e gesso, legno e pietra, sculture semi-astratte con forme umane e animali. Disegnava tutti i giorni. Dipingeva. Partecipava a qualche mostra. Arrivò l’aprile del 1943: delusa dall’ennesima mostra andata male, e non avendo più spazio per tenere le opere, le distrusse tutte, regalò al figlio gli strumenti di lavoro, e ricominciò daccapo.

Ripartì dal legno, che suo nonno lavorava in Ucraina e suo padre a Rockland. Scelse legni che avevano resistito a intemperie, fermentazioni, combustioni. Gambe di sedie ben tornite e ora fratturate, la base di un piccolo tavolo a forma di lira, un pezzo di cornice centinata, un pezzo di ringhiera, le doghe di una botte, la testiera di un letto, la porta di una stalla con le cerniere di ferro battuto a mano e arrugginito, gli scarti dei falegnami, le griglie, le sfere, i perni filettati. Passò dall’assemblaggio di pezzi di legno nello spazio libero del collage a un sistema modulare che accumulava e impilava scatole di medie dimensioni – ciascuna contenente a sua volta assemblaggi più piccoli – per creare le opere monumentali che l’avrebbero resa famosa.
Nella prima sala della mostra veneziana si incontrano due rilievi a muro della serie Nightscapes, paesaggi notturni visti a volo d’uccello, nati da una composizione di vecchi cassetti per caratteri tipografici ora diventati griglia- contenitore per mondi in miniatura. Si riconoscono, in questi rilievi, le forme rettilinee delle città e la loro simultaneità brulicante, e anche le partiture musicali, le serie infinite dei numeri, i misteriosi alfabeti. Nelle sale successive, alle città dipinte di nero si aggiungono quelle in bianco, e in oro. Vivono tutte nel gioco delle ombre create dall’alternarsi dei pieni e dei vuoti.
Città che si possono leggere in verticale, e allora sembra di riconoscere lo skyline di New York con i suoi grattacieli, o una qualche capitale della vecchia Europa, sovrastata dalle guglie delle cattedrali gotiche. Città che si mostrano anche in orizzontale, viste dal cielo, attraversate da boulevard e percorse da vicoli stretti, dove gli esseri umani sono scomparsi, ma restano nelle case ombre strane e bellissime, che ne evocano la memoria e al tempo stesso la presenza. Come in Zaira, una delle città invisibili raccontate da Italo Calvino: «Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, nei scorrimani delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole».


Dawn's Presence -Three (1975).

Louise Nevelson. Persistence

a cura di Julia Bryan-Wilson
Venezia, Procuratie vecchie
fino all’11 settembre
orario 10-19, chiuso il lunedì
www.louisenevelsonvenice.com

ART E DOSSIER N. 400
ART E DOSSIER N. 400
LUGLIO-AGOSTO 2022
In questo numero: FINESTRE SULL’ARTE - La Galleria rinasce con il suo duca di Federico D. Giannini; CORTOON - La corte notte degli Oscar di Luca Antoccia; BLOW UP - Brescia Photo Festival di Giovanna Ferri; DENTRO L’OPERA - Il dipinto come manufatto di Cristina Baldacci; XXI SECOLO - Małgorzata Mirga-Tas nel padiglione della Polonia alla Biennale di Venezia Incantesimi e sortilegi di Elena Agudio; GRANDI MOSTRE. 1 - Louise Nevelson a Venezia. Dare ordine alle cose perse di Lauretta Colonnelli; 2 - O’Keeffe fotografa a Denver. L’altro occhio di Georgia di Francesca Orsi; OUTSIDERS - Joseph Cornell: quanti ricordi entrano in una scatola? di Alfredo Accatino; GRANDI MOSTRE. 3 - Mondrian all’Aja. Parola d’ordine: sperimentare di Paola Testoni de Beaufort; 4 - Canova romantico a Treviso. Ambasciatore del gusto nuovo di Fabrizio Malachin; STUDI E RISCOPERTE. 1 - Canova e il patrimonio culturale. Un negoziatore pragmatico di Valerio Borgonuovo; LA PAGINA NERA - Ma quanto si è spenta la “città irredenta”? di Fabio Isman; MUSEI DA CONOSCERE - Museo Fortuny a Venezia. La casa delle meraviglie di Maurizia Tazartes; GRANDI MOSTRE. 5 - I Farnese a Parma. Tesori di famiglia di Marta Santacatterina; STUDI E RISCOPERTE. 2 - L’invenzione del bello ideale. Zeusi e le modelle di Crotone di Mauro Zanchi; ASTE E MERCATO a cura di Daniele Liberanome; IN TENDENZA - Jan Steen: la febbre del gioco di Daniele Liberanome; IL GUSTO DELL’ARTE - Ritratto di un salume in un interno di Ludovica Sebregondi; CATALOGHI E LIBRI a cura di Gloria Fossi; 100 MOSTRE a cura di Ilaria Rossi;86