PIACERE LUDICO

La maggior parte dei giochi, con le stesse regole, è sopravvissuta rispetto ai grandi imperi e ai cambiamenti nel tempo, e continua a essere utilizzata dalle attuali generazioni.

Molti giochi sono emigrati in terre diverse da quelle di origine, sono evoluti e si sono radicati con rapidità, conquistando il gusto di popoli e culture differenti. Hanno esercitato la loro attrazione ovunque, grazie a qualcosa che appartiene alla sfera dell’universale. L’attività ludica è più antica della cultura. Nel suo formarsi, già dall’origine, la Natura ha dato alla luce il gioco. Nel corso di milioni di anni, ogni sua creatura è nata e verrà al mondo non solo per giocare ma per mettersi in gioco.

Gli animali hanno giocato fin da cuccioli senza che la civiltà umana insegnasse loro a farlo. Ora come qualche migliaia di anni fa innumerevoli giochi continuano a far agire la permanenza dell’insignificante, e in questa azione che perdura si manifesta qualcosa che appartiene a una dimensione misteriosa: ogni gioco significa qualche cosa che non riusciamo a comprendere completamente. Quando mi riferisco a qualcosa del gioco che risulta misterioso penso per esempio a molte domande che rimangono aperte: perché e a che fine si gioca? Perché nel gioco si cercano il rischio, l’incertezza dell’esito, la tensione? Perché urla di gioia un bambino mentre gode giocando? Perché le gare eccitano folle di spettatori fino al delirio? Perché un giocatore si perde completamente nella passione e nell’azione ludiche? Che senso ha proiettare aspettative e desideri di vittoria diventando tifosi per una squadra o per un giocatore? Che ruolo ha l’irrazionale nelle proiezioni ludiche? L’esistenza del gioco conferma il carattere sopralogico della nostra situazione nel cosmo? Probabilmente il gioco ha mantenuto per secoli una funzione sacrale, indispensabile alla salute della collettività, dove ogni individuo esprime la sua interpretazione della vita e del mondo, così che la vita sociale si rivesta di forme soprabiologiche. È un’azione che si compie anche in virtù di una visione cosmica e di uno sviluppo sociale, utile per andare oltre l’esistenza seria dei bisogni e delle cose gravi. Nel gioco si è conservata l’azione sacra che ha percorso ogni tempo senza perdere nulla della sua sacralità. La maniera in cui ogni persona gioca lascia intravedere qualcosa del suo carattere e di come si comporta rispetto alle difficoltà nella vita di tutti i giorni.

Il modo in cui un giocatore si comporta quando sta perdendo o ha perso una partita mostra per intero anche ciò che di solito rimane sopito. Platone ha detto che si può scoprire di più il carattere e la personalità di un individuo in un’ora di gioco che in un anno di conversazione.


Ragazze che giocano (IV secolo d.C.), particolare; Piazza Armerina, villa romana del Casale.


Pieter Bruegel il Vecchio, Giochi di bambini (1560), particolare; Vienna, Kunsthistorisches Museum.

In passato, i bambini trascorrevano la maggior parte del loro tempo a giocare perlopiù in strada e in cortile. E i giochi venivano trasmessi da bambino a bambino, di generazione in generazione, forse con l’aggiunta di lievi varianti o personalizzazioni locali. Erano però sempre forme di imitazione tramandate e insegnate dagli adulti. E alcuni giochi erano/sono imitazioni di lavori e occupazioni dei “grandi”, in attesa di vivere il futuro da adulti.

Pieter Bruegel il Vecchio, nell’opera Giochi di bambini (1560), descrive pittoricamente circa ottanta giochi dell’infanzia. Meditando sull’inutilità della maggior parte delle azioni umane svolte in maniera meccanica e senza alcuna soddisfazione, dipinge i volti dei fanciulli con le fisionomie che sembrano prive di qualsiasi allegria nell’atto ludico, già con i segni della noia prolungata sui volti, dove i giochi sono solo un’imitazione della vita dei grandi. Nel lato sinistro del quadro, dalla finestra del piano superiore di una casa, un bambino indossa una grottesca maschera per spaventare i passanti. Per i mortali, la questione del tempo può diventare soprattutto una questione di come trascorrere le ore, di come riempirle, o nella peggiore delle possibilità di come far passare il tempo per non annoiarsi. Il gioco è per alcuni una conseguenza della noia. Ma più volte è stato affermato da autorevoli studiosi che i giochi provengono da una vicina distanza, da poche ore fa fino a tempi lontanissimi, con una origine rituale o iniziatica. Mi riferisco a giochi come “Strega comanda colore” o “Uno, due, tre stella” o molti altri. Ora non siamo in grado di riconoscere quali giochi avessero una provenienza religiosa e quali invece una funzione defaticante o di svago.

Nell’antica Roma i bambini si dilettavano con i loro amici a giocare a nascondino, a moscacieca, con gli aquiloni, con giocattoli quali il rocchetto (una sorta di yo-yo), la trottola, i birilli o la palla. Bambini che giocano a trigon sono documentati nell’affresco proveniente dalla Tomba dei dipinti nella necropoli di Pozzo Pantaleo, a Roma. Partecipavano almeno tre giocatori: collocati in una posizione fissa, si passavano la palla evitando di farla cadere. Le palle di solito erano di cuoio e riempite di piume. Un altro gioco famoso era quello delle “nuces castellatae”, dove si utilizzavano soltanto quattro noci, un gioco di lancio nel quale si doveva piazzare un’altra noce sulle tre disposte a terra. La quarta doveva essere lanciata sopra il castello senza far cadere tutto; chi riusciva vinceva il bottino. 


Di questo gioco abbiamo due raffigurazioni artistiche rappresentate su sarcofagi. Una del III secolo d.C. è conservata presso il British Museum di Londra, l’altra di qualità migliore è conservata presso la galleria Chiaramonti dei Musei vaticani. Il rilievo raffigura un gruppo di fanciulli impegnati in una partita, c’è chi incita il ragazzo che prende la mira, chi lo osserva e chi gli suggerisce la migliore strategia; sul fondo altri bambini discutono e si sfiora la rissa con uno che prende l’altro per i capelli. Un altro gioco popolarissimo e spesso raffigurato su affreschi o sarcofagi era il piano inclinato, probabilmente detto “clivus”. Nel sarcofago di Artemidora, conservato nei magazzini delle Terme di Diocleziano, gli amorini si servono invece di speciali rotelle, che fanno rotolare sul piano inclinato, partendo dall’alto e cercando di colpire quelle via via cadute a terra. Ovidio descrive almeno sette modi di giocare alle noci.


Pieter Bruegel il Vecchio, Giochi di bambini (1560); Vienna, Kunsthistorisches Museum.


Il gioco del nascondino (II secolo d.C.); Napoli, Museo archeologico nazionale. L’arte del nascondimento e del celarsi alla vista di altri Grecia del II secolo si dedicava tempo al gioco chiamato “apodidraskinda” (dal greco dialettale che univa tre azioni “fuggire-scapparenascondersi”). Nell’affresco realizzato a Ercolano ha radici profonde, origina da un remoto passato. Per sopravvivere nella natura popolata da predatori e per sfuggire alle insidie portate da gruppi tribali ostili gli esseri umani e gli animali hanno dovuto affinare tecniche mimetiche e abilità nell’arte della fuga e del sapersi nascondere. Nella cultura occidentale, una narrazione del retore Polluce ci informa che nella Magna nel I secolo d.C., i tre amorini (o la personificazione tripartita di Eros fanciullo) si esercitano nell’arte di nascondersi e di nascondere se stessi o una parte della loro componente amorosa.


Bambini che giocano a trigon (II secolo d.C.); particolare dell’affresco proveniente dalla Tomba dei dipinti nella necropoli di Pozzo Pantaleo (Roma).

Bambini che giocano con le noci (secondo quarto II secolo d.C.); Parigi, Musée du Louvre.


Gioco delle noci (III secolo d. C.), dettaglio di sarcofago; Città del Vaticano, Musei vaticani, Galleria Chiaramonti.

Anche l’attività ludica con le bocce ha un retaggio antichissimo. Sfere in pietra datate al 7000 a.C. sono state rinvenute nella città neolitica di Çatal Hüyük in Turchia: si ritiene che fossero impiegate per un gioco, perché mostrano segni di rotolamento su un terreno accidentato, o addirittura per un utilizzo a scopo religioso. Pitture murali e geroglifici dell’antico Egitto attestano che gli egizi erano soliti giocare con sassi arrotondati. Omero narra nell’Iliade che Achille e i suoi compagni, nelle ore di ozio davanti alle mura di Troia, facevano rotolare piccole sfere di pietra. Ippocrate (460-377 a.C.) nei suoi trattati medici consigliava il gioco delle bocce per scopi salutistici. Già nel III secolo a.C. i romani giocavano al “lancio delle pietre”, una prova di abilità in cui bisognava avvicinare le sfere lapidee a un punto fisso. Durante gli scavi a Pompei furono ritrovati un pallino e otto bocce, in un locale chiamato poi bocciodromo. Nei secoli successivi il gioco ebbe sempre più fortuna tanto che nel XIX secolo venne codificato in maniera più precisa con la redazione di regole e trasformato in uno sport. Un’origine antica appartiene anche al gioco con le sfere eteree, ovvero con le bolle di sapone(17). Pare un’attività apparentemente banale e priva di pedagogia, dove non servono particolari abilità. È un gioco in cui prevale un piacere contemplativo, un buon viatico per meditare sul senso della bellezza caduca: guardare le sfere dalla superficie iridescente, nelle loro trasparenze e rispecchiamenti del paesaggio circostante, e poi seguire i loro spostamenti nell’aria fino a che scompaiono nel cielo o diventano tutt’uno con l’aria mentre esplodono o incontrano altri oggetti. A questa visione parrebbero appartenere l’opera di Jean-Baptiste Siméon Chardin, Bolle di sapone (1734 ca.), ora al Metropolitan Museum di New York, e il Ragazzo che soffia bolle di sapone (1867) di Édouard Manet, conservato al Calouste Gulbenkian Museum di Lisbona. Il gioco induce anche a prendere consapevolezza della precarietà, per poi lasciarsi condurre dalla levità consapevole, per lasciare spazio alla spensieratezza. Alcuni bambini trasformano anche questa attività ludica in gara con i compagni di gioco, dove i parametri sono la grandezza delle bolle, l’altezza che raggiungono verso il cielo e soprattutto la durata della loro breve vita.

Un’altra attività di svago, raffigurata dal Medioevo in codici miniati e dipinti, è la scena in cui giovani si divertono a lanciarsi palle di neve, come nell’affresco di Venceslao Boemo, realizzato attorno al 1400 nel castello del Buonconsiglio (Trento), e come nel libro di Albucasis, Observations sur la nature et les propriétés de divers produits alimentaires et hygiéniques, sur des phénomènes météorologiques (XV secolo). Un’altra attività ludica è spinta dal desiderio di diventare personaggi illusori e comportarsi di conseguenza: attraverso il travestimento, un individuo abbandona temporaneamente la sua personalità e gioca a credere, a farsi credere o a far credere di essere qualcun altro. Nelle società tribali le persone si travestono nelle figure degli spiriti o degli animali guida, ovvero estendono la loro percezione attraverso altre presenze sovrannaturali o altre forme viventi. Ogni bambino si traveste da adulto o da animale o da un personaggio dei cartoni animati e dei fumetti e li imita.



Ragazza che gioca con la palla (III secolo a.C.), statuetta in terracotta proveniente dalla Magna Grecia; New York, Metropolitan Museum of Art.


Jean-Baptiste Siméon Chardin, Bolle di sapone (1734 circa); New York, Metropolitan Museum of Art.

Édouard Manet, Ragazzo che soffia bolle di sapone (1867); Lisbona, Calouste Gulbenkian Museum.


Jean Baptiste Siméon Chardin, La lavandaia (1733); Stoccolma, Nationalmuseum.


Venceslao Boemo, Giovani che si lanciano palle di neve (1400 circa); Trento, castello del Buonconsiglio.

Gli adulti utilizzano costumi e maschere e iniziano a immedesimarsi, come nel periodo del carnevale, nelle processioni religiose, nelle rappresentazioni teatrali. Il piacere consiste nell’essere altro da sé o nel liberare la vera personalità del soggetto che si sente protetto sotto la maschera e il costume. Si cerca di innescare la sospensione del reale e l’estensione dello spazio e del tempo. Questo gioco immaginativo è stato raffigurato da Jean de Grise o da un miniatore anonimo nel manoscritto Bodley 264 (XIV secolo), ora alla Bodleian Library di Oxford, dove tre persone hanno celato i loro volti sotto maschere di animali e danzano in fila tenendo per mano due giovani donne. In questa tipologia soggetta alla mimicry possiamo annoverare anche i dipinti di Pietro Longhi dove compaiono persone che indossano bautte (maschere ridotte all’essenziale, eleganti, quasi segni dell’astrazione) e abiti del carnevale veneziano nel Settecento. Per la forza e pathos che ha saputo riversare Stanley Kubrick sul senso misterico della maschera ricordo le scene del ballo iniziatico in Eyes Wide Shut (1999), dove il regista è riuscito a rendere vivo il brivido, la sensualità e la sospensione legati a un rito che sta a metà tra le feste erotiche dell’epoca pagana e l’azione celata della cospirazione. Per concludere, inoltre, ricordo anche il gioco in cui pulsa un sacro enigma, simile a quello che ebbe grande importanza per lo sviluppo della filosofia e dell’intelletto. Il gioco più assoluto è saper andare al di là della vittoria o della sconfitta per godere la prefigurazione e poi l’inizio di una sempre nuova e coinvolgente partita. 


I più ispirati hanno rivolto lo sguardo in direzione dell’universo, guardandolo come si assiste a un avvincente confronto ludico: immaginate che questo campo pluridimensionale cambi le regole durante ogni gara per rendere il gioco più interessante. È necessario prima imparare bene le regole. Ma il salto successivo è riuscire a giocare senza giocare (un’applicazione ludica del pensare senza pensare), per superare più limiti possibili traendone sincero piacere.


Festa in maschera dal Roman d’Alexandre (XIV secolo); Oxford, Bodleian Library.


Maschera tragica e comica del teatro latino (I secolo a.C.); Roma, Musei Capitolini.

Lorenzo Lippi, Allegoria della simulazione (1650 circa); Angers, Musée des beaux-arts.


Pietro Longhi, Il rinoceronte (1751); Venezia, Ca’ Rezzonico.

Pietro Longhi, Il ridotto (1750 circa); Cellatica (Brescia), Fondazione Paolo e Carolina Zani, Casa Museo.


Tom Cruise in una scena del film Eyes Wide Shut del 1999 di Stanley Kubrick. Tratto dal romanzo Doppio Sogno di Arthur Schnitzler, Eyes Wide Shut incarna una sottile allegoria della società contemporanea e si inoltra nei dedali della mente, nel mascheramento dell’occulto, nella complessità del desiderio, nel turbamento. Il titolo del film è un ossimoro efficace per concentrare l’attenzione, con gli occhi chiusi spalancati, per riuscire a vedere e sentire qualcosa di evidente e che non si riesce a mettere a fuoco a causa di nozioni preconcette o tabù. Mettersi e togliersi la maschera è un esercizio utile per riuscire a vedere a occhi chiusi l’ambivalenza della realtà, che potremmo anche vedere come una rappresentazione della nostra stessa ambiguità.

ARTE E GIOCO
ARTE E GIOCO
Mauro Zanchi
Il gioco appartiene a tutte le culture e a tutte le epoche. Può rivestirsi di significati religiosi o magici, rappresentare una sublimazione di attività come la lotta o la guerra, per alcuni studiosi è alla base dello sviluppo della letteratura, del teatro, delle forme d’arte in genere. E l’arte ha rappresentato il gioco, a volte si è fatta essa stessa gioco. Questo dossier ripercorre le diverse forme che il gioco ha preso nelle arti. Dalle antiche scacchiere egizie alle carte da gioco medievali, fino ai bari di Caravaggio e ai giocatori di Cézanne, dalle bambole di epoca romana ai giochi infantili di Bruegel. E passa in rassegna le interpretazioni teoriche e sociali che hanno accompagnato nei millenni queste rappresentazioni.