Letture iconologiche
Il Campo di grano con corvi di Van Gogh

NIENTE DI SINISTRO
IN QUEL CIELO TEMPESTOSO

In seguito alle ricostruzioni, più o meno fantasiose, degli ultimi giorni di vita di Van Gogh, sono state numerose le interpretazioni psicoanalitiche e pseudoreligiose di quello che un tempo, ma ora non più, è stato ritenuto il suo ultimo dipinto.
Recentemente si sono affermate letture critiche più equilibrate che restituiscono al quadro un posto più coerente nel corpus di opere del pittore olandese.

Alessio Costarelli

L’ultimo periodo della vita di Vincent van Gogh (1853-1890), i tre mesi trascorsi nella cittadina di Auvers-sur-Oise, una trentina di chilometri a nord-ovest di Parigi, segna una svolta evolutiva nella carriera del pittore: i quadri prodotti in quella manciata di settimane rappresentano un momento di pura sperimentazione formale nel quale, nuovamente lucido e oramai padrone dei propri mezzi espressivi, l’artista olandese tenta di approdare a nuovi lidi, di sviluppare inedite soluzioni. 


Van Gogh era giunto in paese il 21 maggio 1890, dopo aver trascorso tre giorni a Parigi presso il fratello Theo e la cognata Johanna. Il richiamo che Auvers suscitava in lui era principalmente medico, dovuto alla speranza di poter essere curato dal dottor Paul Gachet, illustre clinico; tuttavia, la consapevolezza che negli ultimi trent’anni quel piccolo borgo ameno aveva accolto alcuni tra i principali rinnovatori della scena pittorica francese di metà secolo (Corot, Daubigny, Daumier, Pissarro, Cézanne) rappresentava una significativa suggestione e un ulteriore stimolo al lavoro. 


In poco più di due mesi trascorsi ad Auvers, Van Gogh realizzò circa settanta dipinti: dipingeva con vigore e trasporto, talora meditando per settimane un soggetto, talaltra lasciandosene trasportare nell’immediato. Poneva mano a due, anche a tre quadri contemporaneamente, che una volta cominciati venivano completati in non più di due giorni. Il suo stile, personale ed espressivo, cominciò a evolversi in direzione di una maggiore sintesi formale e cromatica, sperimentando nuovi formati, inquadrature e accordi tonali. Di tutto questo fervente lavoro, il Campo di grano con corvi è senza dubbio una delle opere più rappresentative, nonché delle più celebri, sebbene nel corso del Novecento abbia suscitato ben maggiore interesse sul piano simbolico-iconografico rispetto a quello stilistico-formale, che meglio le competerebbe(1)


La sua fama si lega alle controverse vicende sul presunto suicidio dell’artista, tale da far lungamente considerare questa tela l’ultima del suo catalogo, pertanto dipinta il 27 luglio 1890. Invero, la critica specialistica si è oramai da tempo riorientata su di una datazione anticipata all’inizio del mese di luglio, ma il persistere nella convinzione di un suo gesto estremo continua tuttora a condizionarne l’analisi: in buona sostanza, si fatica a rinunciare all’idea, errata, che questo quadro rappresenti prima di tutto un documento psicanalitico e non che possa essere approcciato, semplicemente, quale fase significativa di un determinato percorso stilistico. Perché Vincent van Gogh - è meglio chiarirlo, a scanso di equivoci - non si è sparato(2), né in mezzo a un campo di grano né altrove, sicché questo dipinto non può essere uno strumento atto a indagare la natura di una personalità nient’affatto disturbata, ma affetta al più da gravi crisi depressive e con una mente tendenzialmente ossessiva. 


La tradizione secondo cui il Campo di grano con corvi sarebbe stato l’ultimo dipinto cui il pittore lavorava subito prima di morire ha origini precoci e, per così dire, “ufficiali”: nel 1913, infatti, fu proprio la vedova di Theo, Johanna Bonger, a scrivere nelle proprie memorie che, dopo la sua ultima visita a Parigi, «Vincent era caduto preda di un’eccitazione spasmodica, come rivelano le sue ultime lettere e i suoi ultimi quadri in cui la catastrofe sembra incombere minacciosa, come i sinistri uccelli neri che sfrecciano nel cielo tempestoso sopra i campi di grano, nell’ultima sua opera»(3). A questa si aggiungeva la testimonianza dei Ravoux, gli albergatori presso cui Van Gogh alloggiava, i quali riferirono alle autorità di aver prestato pochi giorni prima al pittore una pistola, richiesta loro per poter scacciare i corvi che lo molestavano; nonché l’ovvia, fortissima suggestione culturale del corvo quale animale presago di morte. Si tratta, dunque, di una tradizione apocrifa, ma tanto evocativa da trasformarsi presto, agli occhi di tutti, in storia documentata.



Vincent van Gogh, Campo di grano con corvi (1890), Amsterdam, Van Gogh Museum.


Vincent van Gogh, Campo di grano con allodola (1887), Amsterdam, Van Gogh Museum.

È così che il secolo dell’iconologia e della psicanalisi trovò in Van Gogh e nel Campo di grano con corvi la sua palestra prediletta, per non dire, in qualche caso, il suo “parco giochi”. Già nel dicembre 1890, osservando il quadro, il giornalista e scrittore olandese Johan de Meester aveva affermato: «Non v’è alcun dubbio che Van Gogh intendesse creare un simbolo: questa tela è denominata La desolazione dei campi». Meyer Schapiro (Vincent van Gogh, 1950) scrisse di quel cielo tempestoso come di «un’immagine dell’assoluto corrispondente, si direbbe, all’isterico desiderio di venir sommerso e perduto nell’immensità»; un desiderio di cui appena cinque anni più tardi Kirk Douglas, nel film Brama di vivere, diede, come che sia, un’indimenticabile interpretazione. Fu però Heinz R. Graetz (The Symbolic Language of Vincent van Gogh, 1963) il primo a inaugurare il filone mistico nella lettura iconologica della tela, scorgendovi l’immagine allucinata, prodotta da una mente folle e tormentata, di un’anima che ascende al cie- lo come candida nuvola in una visione di resurrezione. La profonda religiosità di Van Gogh, per il quale è innegabile una certa tendenza - già evidenziata da Jean Leymarie - all’autoidentificazione con la figura di Gesù, finì dunque per dare adito ai più spregiudicati voli della fantasia, che raggiunsero il loro apice nelle letture di Albert J. Lubin (Stranger on the Earth, 1972), che nella forma dei sentieri credette di riconoscere una visione di sotto in su di Cristo crocifisso, e Yvonne Korshak (Realism and Transcendent Imaginery, 1985), la quale interpretò l’immagine come una trasfigurazione naturalistica di una scena del Giudizio universale, con nuvole sospinte dal soffio delle trombe angeliche che incombono sopra la pareidolia di un grande uccello caduto morto in mezzo al campo, così proteggendolo dalle intemperie attraverso il proprio sacrificio. 


Mentre mito e follia si alimentavano vicendevolmente in un intreccio inestricabile di ricerca erudita, letteratura e cinematografia, dagli anni Ottanta a oggi un più serio novero di studiosi (Hulsker, Pickvance, Pollock, Zemel) si è sforzato di rileggere l’opera in chiave positiva restituendole una parvenza di oggettività e ripulendola dalle molte posticce stratificazioni interpretative: il risultato è che oggi la critica può nuovamente avvicinare la tela per quello che è, evidenziando l’intento dell’artista di restituire la visione di un paesaggio soggettivo senza dover incorrere in una quanto mai fantozziana estasi mistica. 


Nel suo originale formato, peculiare del periodo di Auvers e derivato dalle splendide visioni paesaggistiche di Charles-François Daubigny, l’opera ci parla del tentativo di Van Gogh di superare, senza negarlo, il tradizionale naturalismo ottocentesco attraverso un uso del colore tipicamente postimpressionista eppure assai personale e una costruzione prospettica che, non più empirica né matematica né illusionistica, proporrei di chiamare “emotiva”, per taluni forse disturbante, comunque sempre potentemente soggettiva. 


Riunendo in un’unica immagine la drammaticità dei Ruisdael, la brillantezza di Constable, l’atmosfericità della Scuola di Barbizon, la ruvida onestà di Courbet e la libertà di Monet, Van Gogh guarda anche a se stesso e confeziona un’opera non gradevole, ma sincera, che contribuisce in modo determinante a fondare la straordinaria rivoluzione della pittura del Novecento.


Charles-François Daubigny, Il grano giovane (senza data), Amsterdam, Rijksmuseum.

ART E DOSSIER N. 397
ART E DOSSIER N. 397
APRILE 2022
In questo numero: ARTE CONTEMPORANEA - Danh Vo, Isamu Noguchi, Park Seo-Bo; CAMERA CON VISTA - Sorrentiniano non è un aggettivo; STORIE A STRISCE - Diabolik, il re del terrore; BLOW UP - Maier; GRANDI MOSTRE. 1 - La 59* Biennale di Venezia. Oltre i confini dell’umano di Ilaria Ferraris con un’intervista; GRANDI MOSTRE. 2 - Marlene Dumas a Venezia.La fine è aperta; GRANDI MOSTRE. 3 - Architette da inizio Novecento a oggi a Roma.La curva invade gli edifici; XXI SECOLO - Intervista a Mark Steinmetz. Nel tempo, sospeso, qualcosa accade; GRANDI MOSTRE. 4 - Alexander Calder a Rotterdam.Sfidare la legge di gravità; PAGINA NERA - Della villa (un impero) resta solo un mistero; LETTURE ICONOLOGICHE - Il campo di grano con corvi di Van Gogh.Niente di sinistro in quel cielo tempestoso; GRANDI MOSTRE. 5 - Dai romantici a Segantini a Padova. Le scelte poetiche; STUDI E RISCOPERTE. 1 - Le figure di spalle.Verità nascoste; STUDI E RISCOPERTE. 2 - Il vuoto evocativo in Botticelli e Malevič. Il pieno nel vuoto; L’OGGETTO MISTERIOSO - Da Tonga a Stonehenge (passando per Malta); IN TENDENZA - Dumas, una mattatrice doc.