New York (1951-1956), Chicago (1956-2009): due città scandagliate da Vivian Maier in lungo e in largo, esplorate con la capacità analitica dello scienziato, con l’approccio stratificato dell’antropologo e con l’abilità riflessiva dello storico. Legge giornali, riviste, visita mostre, musei, va al cinema e a teatro. Tutte attività essenziali per allenare e nutrire il suo sguardo pronto, in ogni angolo delle strade, a ritagliare spaccati di realtà fatti di atti, pause, pose, cenni.
Dal formato dei suoi negativi e dalle date riportate sui coperchi delle relative scatole si ricava che dai primi anni Cinquanta la fotografa inizia a utilizzare una Rolleiflex, affidabile, precisa. Una macchina che dovendo essere tenuta appesa al collo, al centro del corpo, tra il cuore e la vita, le permette di scattare senza farsi notare. Inquadra ciò che intende fotografare guardando il mirino dall’alto. Una macchina perfetta per chi, come lei, solitaria, refrattaria a raccontare il suo passato, vuole rimanere “invisibile”, indisturbata nel forziere dei suoi più intimi segreti, ma non indifferente alla trama della geografia umana.
Sì, perché tra le possibili letture del suo lavoro c’è la non remota possibilità che le innumerevoli persone da lei immortalate possano essere state utili a ricomporre la sua identità. Persone di tutte le estrazioni sociali con cui Maier, attraverso il suo mezzo, stabilisce un contatto, un incontro quando più distante quando più ravvicinato per registrare attimi di verità.
Intuitiva, sicura di sé, dimostra nelle sue immagini un grande senso dell’inquadratura, della luce, dell’ambiente, un senso della tragedia ma anche dell’umorismo, un senso di comprensione e di gioco. Caratteristiche che hanno pari importanza nel suo linguaggio fotografico permeato anche dalla cultura visiva legata al cinema (tra i suoi interessi, come accennato sopra). Viceversa, si serve pure delle immagini fotografiche per creare brevi sequenze in movimento. Esperienze che le offrono la possibilità di ampliare e di affinare la sua visione e che diventano complementari per approfondire il raggio di azione della sua poetica. Dettagli, volti, gesti, figure di profilo, di spalle, frammenti residuali di vita sociale - solitamente scartati, non visti o magari ritenuti secondari - acquistano al cospetto dell’artista americana la medesima dignità di ciò che è in evidenza, in prima linea. Tutti elementi che tocchiamo con mano attraversando le Sale Chiablese dei Musei reali di Torino che ospitano fino al 26 giugno Vivian Maier. Inedita (www.vivianmaier.it), a cura di Anne Morin, esposizione che raccoglie duecentosettanta fotografie in bianco e nero, vintage, a colori, oltre a video Super 8 e a oggetti personali quali macchine fotografiche Rolleiflex e Leica. Un percorso davvero affascinante che indaga la ricchezza creativa della «flâneuse, cosciente di passare quasi inosservata», come leggiamo nel catalogo della mostra, e che riguarda un emblematico nucleo del suo corpus fotografico dagli inizi degli anni Cinquanta fino al termine degli Ottanta. Un patrimonio, in parte ancora non visto, come la sezione dedicata all’Italia che Maier visita nel 1959 in occasione di un viaggio durato sei mesi durante il quale fa tappa in Asia, Africa ed Europa. Del nostro paese troviamo testimonianze di Torino e Genova.
Il capoluogo piemontese, tra l’altro, pare l’avesse particolarmente ispirata dal momento che in una sola giornata arriva a usare tre rullini. E poi la sezione degli autoritratti (ne ha fatti circa cinquemila) dove compare la sua silhouette, una sorta di «disegno dell’ombra», oppure la moltiplicazione di sé attraverso una serie di specchi che contribuiscono a renderla ancora più misteriosa, inafferrabile, indecifrabile. E ancora, le strade, i marciapiedi, la folla, individui anonimi ma anche celebrità, i quartieri poveri o quelli ricchi. L’infanzia, mondo che conosce molto bene e che osserva dall’interno, utilizzando un repertorio linguistico che appartiene agli stessi bambini. I gesti, in particolare delle mani, che raccontano più di quanto ci si possa immaginare, le posture, gli sguardi, portatori di un pensiero, di un’intenzione o di un’emozione. Il cinetismo con una forte contaminazione tra il linguaggio fotografico e quello del cinema e, infine, il colore nel quale le tonalità sembrano vibrare sonoramente, specie nelle strade di Chicago, al ritmo del blues.