LA FORMAZIONE:
«QUANDO ERO PICCOLA
DIPINGEVO RAGAZZE IN BIKINI»

Nata il 3 agosto del 1953 a Città del Capo, Marlene ha trascorso i suoi primi anni in campagna, nel piccolo borgo di Kuils River, tra le vigne del padre e le galline, gli agnelli e i gatti della fattoria.

Viveva in una famiglia allargata con due fratelli, le nonne, i cugini e una servitù nera che era distante per legge - non poteva sedere allo stesso tavolo dei bianchi, per esempio - ma vicina per le cure reciproche. Niente televisione fino all’inizio degli anni Ottanta - in Sudafrica le trasmissioni iniziarono nel 1976, nessun museo nelle vicinanze, poca informazione stampata e una censura pesante, al punto che nella programmazione dei cinema venivano controllati persino i cartoni animati o i film d’avventura. Il problema era soprattutto il mantenimento dell’apartheid da parte del regime. Uno dei due fratelli dell’artista, del resto, ha subito un processo ancora nel 1988 per avere parlato pubblicamente, da sacerdote, contro la discriminazione. Naturalmente anche la piccola Marlene è cresciuta con la consapevolezza di quanto grave fosse il tema e quanto grande il suo privilegio di ragazzina bianca.

 

Ha trascorso gli ultimi tre anni di liceo in una scuola molto rigida a Stellenbosch, collegata alla scuola femminile Bloemhof, dove si sentì molto infelice e senza privacy. Marlene veniva punita regolarmente per comportamento poco femminile; lì ha imparato ad adorare Janis Joplin, ad ascoltare la musica di Woodstock e a disegnare nello stile psichedelico che l’atmosfera di quegli anni suggeriva ai ragazzi più recettivi. Nel 1972 iniziò l’università a Città del Capo, un mondo nuovo in cui si parlava inglese e si pensava internazionale: «La ragazza che pensava che su di un’isola deserta le sarebbe stato necessario solo il mascara(5) è cambiata e fiorita... Ha iniziato a conoscere la poesia di Allen Ginsberg e Michael Oblowitz. Alla Film Society ha iniziato a vedere I film di Ingmar Bergman, Alain Resnais, Jean Luc Godard. Allo Space Theatre ha visto le pieces di Jean Genet, Tennessee Williams e Athol Fugard. È aumentata la sua attitudine a leggere e scrivere, in modo discontinuo ma con grande profondità intellettuale».
La formazione è continuata con le fotografie dei minatori di David Goldblatt, dei mostri di Diane Arbus, dei personaggi urbani di Lee Friedlander; e ancora con la poesia di Dylan Thomas, con le performance sociali di Joseph Beuys, con le cronache dell’Arte concettuale dematerializzata di Lucy Lippard, con la filosofia di Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir, in un turbine di nuove domande etiche sul significato della libertà personale, della responsabilità civile, dell’uguaglianza sociale e dell’amore.

Alla fine di questo ricco pasto esistenziale non meno che intellettuale, nel 1976 Marlene decise di spostarsi in Olanda, ad Haarlem, dove aveva vinto una borsa di studio che le offriva due anni gratis agli Ateliers ’63. Dovette fare lavori domestici per mantenersi, ma avere uno studio per sé ed essere lontana da casa si rivelò fondamentale. Non scelse l’Olanda per la vicinanza della lingua con l’afrikaans, che parlava in famiglia, o per seguire la storia della pittura olandese. Marlene cercava un modo per avvicinarsi all’arte occidentale e soprattutto americana. I suoi maestri furono Ger van Elk, Carel Visser e soprattutto Jan Dibbets che ebbe un ruolo determinante nella storia degli Ateliers. Fu attraverso di lui che questi si dimostrarono un buon posto per cogliere le poetiche concettuali su cui Marlene voleva essere aggiornata. In seguito vi avrebbe insegnato lei stessa per anni. Per un anno studiò anche psicologia all’Università di Amsterdam, dove decise di abitare. All’inizio del percorso in Olanda, le sue opere abbandonarono quasi del tutto la figurazione dipinta per abbracciare la pratica del collage, così come si è consolidata nell’arte del Novecento dal dadaismo politico tedesco ai “combine paintings” di Rauschenberg alla Pop Art, fino al Concettuale di John Baldessari. Non le era ancora chiaro, però, se desiderava dedicarsi del tutto all’immagine mediatica: in Don’t Talk to Strangers (1977) sovrappose tra loro decine di porzioni di lettere manoscritte che le erano state inviate, dove incipit quali «Mia cara Marlene» toglievano freddezza all’insieme.
Il collage fu una fase di passaggio importante, congruente con il suo spirito di raccoglitrice di ritagli e capace di impostare temi e metodi destinati a dar corpo alla sua produzione matura: del resto, Marlene Dumas ha dichiarato più volte che per lei e per il suo lavoro non c’è una linea retta di evoluzione, ma un tempo circolare dove tutto ritorna o permane. Così un’opera come Love Hasn’t Got Anything to Do with It (1977) introduce un linguaggio in cui il gesto spontaneo si blocca e incontra la riflessione. Al contempo si introducono i temi dell’amore drammatico, dello straniero, del rapporto tra immagini e parole, quest’ultimo assai rilevante per capire quanto i titoli dei suoi lavori vadano concepiti come poesie contratte: non spiegano l’opera, anche perché vengono fuori dopo che questa è compiuta, ma le aggiungono contenuti. Non a caso Marlene iniziò presto anche a scrivere, in forma di appunti, saggi e poesie. Il suo libro Sweet Nothings: Notes and Texts 1982-2014 è forse il modo migliore per capirne i processi mentali eclettici, sofisticati eppure venati da ironia e leggerezza, mai vincolati a una qualsiasi forma di ortodossia(6) .

Dal 1984 tornò a dipingere corpi e non smise più: il suo talento era difficile da sopprimere. Così racconta: «Alla scuola d’arte, mi ricordo che il mio professore mi disse “sei una pittrice nata”. Replicai che consideravo la pittura fuori moda. Tutti gli artisti brillanti stavano facendo altri tipi di lavoro, quindi volevo fare qualcos’altro, ma mi rispose “mia povera ragazza, cos’altro potresti fare?”»(7). Infatti allestì un’importante mostra personale ad Amsterdam con nove ritratti di enormi dimensioni, dipinti con caratteristiche stilistiche varie. Accadde nel 1985 da Paul Andriesse, un gallerista di grande gusto che l’ha seguita per decenni. Conobbe il cugino di Andriesse, Jan, artista anch’egli, un artista nato in Indonesia che sentiva di condividere con lei il destino di chi ha lasciato il paese d’origine. In seguito è diventato il padre di sua figlia Helena ed è stato al suo fianco fino a quando è mancato, nel 2021.

Marlene è arrivata in America con una mostra alla Tilton Gallery nel 1994. Critici autorevoli come Jerry Saltz del “New York Magazine” e Peter Schjeldahl del “New Yorker” ne sottovalutarono la portata innovativa, posizioni poi ripetute, per esempio, da una firma come Roberta Smith sul “New York Time” ancora nel 2008(8). La pittura di Dumas venne ritenuta eccessivamente drammatica, con interpretazioni tanto varie che l’artista stessa si è definita con il gioco di parole «Miss Interpreted»(9). Alla fine, comunque, anche l’America sembra averla compresa. La grande personale Measuring Your Own Grave (2008), che ha itinerato negli USA, nel 2008 al MOCA di Los Angeles, nel 2008-2009 al MoMA di New York e nel 2009 alla The Menil Collection a Houston, ha suscitato un vivo interesse e la revisione in positivo di molti giudizi dubbiosi(10).
5 Intervista con Barbara Bloom in: I. Bonacossa, D. van den Boogerd, B. Bloom, M. Casadio, Marlene Dumas, Londra-New York 2009, 18. 
6 M. Dumas, Sweet Nothings: Notes and Texts 1982-2014, Londra 2015. 
7 Intervista con Barbara Bloom, cit., pp. 7-29, p. 8. 
8 R. Smith, The Body Politic: Gorgeous and Grotesque, in “The New York Times”, 11 dicembre 2008; cfr. anche P. Schjeldahl, Unpretty Pictures, “The New Yorker”, 22 dicembre 2008.; Martin, «anaba: Jerry Saltz on Marlene Dumas at MoMA», anaba (blog), 18 gennaio 2009, consultato 27 gennaio 2022, http://anaba.blogspot.com/2009/01/jerrysaltz- on-marlene-dumas-at-moma.html. 
9 M. Dumas, J. van Leeuwen, Miss Interpreted, catalogo della mostra (Eindhoven, Stedelijk Van Abbemuseum, 1992), Eindhoven 1992. Esiste anche un documentario video dallo stesso titolo, Miss Interpreted (Marlene Dumas), regia di R. Evenhuis e J. Verhey, 1997. 
10 Cfr. in particolare la reazione questa volta entusiasta di Peter Schjeldahl, Unpretty Pictures. A Marlene Dumas Dumas Retrospective, in “The NewYorker”, 14 dicembre 2008.

MARLENE DUMAS
MARLENE DUMAS
Angela Vettese
Marlene Dumas (Città del Capo 1953) è tra le più influenti artiste contemporanee.Nata in Sudafrica, si è formata e poi definitivamente trasferita in Olanda. Si esprime con la pittura e il disegno, con molta parsimonia di segni e colore. Sembra muoversi nell’ambito dell’espressionismo, anche se in modo decisamente personale. I temi toccati dalla sua arte spaziano dalla sessualità alla violenza, dal razzismo all’Africa, esprimono il desiderio e la sofferenza, in una dimensione ambigua e provocatoria. L’ambito dei suoi soggetti è circoscritto alla figura umana, trattata in termini essenziali, spesso nuda e violentata, con linee pulite e sobrie che raggiungono però effetti emotivi fortemente coinvolgenti.