Marlene Dumas non reclama di dipingere il vero. Dipinge il “figurare” come uno dei modi per pensare, senza proporci alcuna verità. Non cessa di interessarsi alla legittimità dei suoi mezzi espressivi. Il quesito di fondo appare questo: quanta fiducia è ancora lecito avere nelle figure? Forse siamo davvero vicini a una nuova lotta pro o contro il mondo iconico, a quella “iconoclash” che Bruno Latour va teorizzando da anni in relazione alle nuove valenze politiche e antropologiche della comunicazione(45).
Accomunata sovente a pittori dell’angoscia esistenziale, a volte con “discomfort” come nel caso di Francis Bacon(46), diversamente da questi Marlene Dumas non porta alla luce uno spaesamento etico personale. La ragione per cui lei stessa si è posta volentieri in parallelo con Edvard Munch(47) è che, dell’artista norvegese, troppo spesso ridotto al solo episodio dell’Urlo, riconosce un’attenzione simile alla sua per i fenomeni collettivi che consentono e condizionano lo stare al mondo.
Il valore intrinseco della vita emerge soprattutto quando l’artista dipinge bambini, vivi o morti, piccolissimi o già capaci di guardarci. In Die Baba (1985) la protagonista ci chiede un’attenzione impegnata e non un atteggiamento intenerito. La piccola Helena (1992) guarda, chiede ciò che le spetta per essere stata messa al mondo e forse giudica. I bambini sono speranza, come in Cupid e in Reinhardt’s Daughter (1994): la fonte era una fotografia della figlia dell’artista, rovesciata; in un quadro appare bianca come un cherubino che scende dale nuvole, nell’altro è dipinta sulle varianti del blu e dei marroni che conducono al nero, in omaggio al pittore Ad Reinhardt(48). Il massimo della brutalità è stato forse dipinto da Marlene Dumas nel negativo etico di queste immagini, le bambine impiccate della coppia Imaginary 1 e Imaginary 2 (2002). Nessuno dovrebbe finire senza sguardo e con la bocca aperta, quasi un’estasi scurita da un ultimo fiato, come la diafana Lucy (2004), e i portatori di questa urgenza sono soprattutto i bambini con la loro insistenza su diritti prioritari e primordiali. Per questo Likeness I e 2 (2002); Pinault Collection. i valori di eguaglianza, giustizia e libertà sono stati rappresentati con i ritratti di altrettante ragazzine in Liberty (1992), Justice (1992) e Equality (1993).
La serie The First People (I-IV) (1990) mostra quattro neonati in posizione frontale e di dimensione enorme: sono alti come un adulto e larghi come una porta, e l’importanza della scala, nella pittura di Marlene Dumas, non può essere sottovalutata. All’altezza del nostro sguardo stanno i loro ventri ingrossati, quali espressioni della necessità primaria di cibo. La pittura a olio su tela avanza verso lo spettatore in modo inequivocabile, con l’assertività di chi è appena venuto al mondo. I fondi monocromi su cui si stagliano i corpi conferiscono a questi ultimi un’ulteriore impatto visivo, rendendoci impossibile non essere impressionati da una pelle animata da pennellate circolari, dai colori disposti in modo da fare avanzare la figura in direzione dello spettatore. È a questi corpi piccolissimi ed enormi che siamo chiamati a rispondere. Il bambino è una metafora sia della vita, sia del suo senso, nel momento in cui letteralmente prendono corpo.
La storia la scrive il corpo mentre lotta, ama, si vende, muore, ma innanzitutto e soprattutto quando nasce per vivere in senso pieno. Un uomo nasce da un neonato così come la pittura nasce dalla vita.