METODO:
«LA PITTURA È UNA
FACCENDA INCASINATA»

Riabbracciare la pittura dopo una formazione protesa al Concettuale ha implicato un processo di aggiornamento e ripensamento di questo linguaggio, che Dumas ha riformulato a suo modo convinta che «La pittura non può morire.

Appartiene al reame dei non-morti. È troppo vecchia, primitiva e piacevole. Ed è protetta dal conte Dracula»(11). Marlene non copia dal vero ma lavora a partire dai suoi ritagli: immagini di fotoreporter, foto private, polaroid, riproduzioni d’arte, cartoline. La base fotografica si nota osservando le impostazioni prospettiche delle sue opere, spesso con aberrazioni marginali o pose che rimandano all’istantanea.


Dipinge sguardi frontali che ingrandiscono il formato fototessera, di gruppi di persone messe in posa come nelle foto di classe, punti di vista zenitali come in Waiting (for meaning) (1988), dove una schiena di donna nell’acqua, vista dall’alto, pare attendere un risveglio e si pone come metafora della pittura stessa: c’è l’immagine ma non è ancora comparsa la sua ragione di esistere, il suo pieno significato. All’origine stanno sempre fotografie sfocate o fotocopie. Il risultato sono immagini di amanti ammazzati in cui l’ossessione amorosa diventa macchie blu e verdi come se il sangue violento fosse virato di colore. Il processo del dipingere è spesso così: c’è una figurazione da portare assolutamente alla luce, ma solo dopo appare il perché di quell’urgenza. Un esempio ottimale di mescolanza tra caso, movimento del corpo, velocità e concentrazione nel lavoro è The Origin of Painting (The Double Room) (2018).

Per un’artista che viene comunque da un background iconoclasta, questa iconofilia ha il sapore di una rivolta: la figura viene esaltata, tradotta in termini sacrali anche quando il soggetto è scabroso, accentuando tutti gli aspetti che procurano allo spettatore una risposta emotiva.
C’è in tutto questo un talento innato e una sapienza probabilmente intuitiva nella psicologia della percezione, ma anche la conoscenza del dibattito prettamente pittorico sul modernismo alla Greenberg e un nuovo tipo di realismo. Per questo è importante leggere le opere di Marlene Dumas con uno sguardo rivolto al modo di dipingere, oltre che ai suoi soggetti: «Gli aspetti pittorici e formali sono cruciali. Il modo in cui il dipinto si muove tra illusionismo e piattezza determina il tono e la dinamica dell’impatto visivo»(12).
L’artista collega continuamente la tipologia dell’immagine fotografica alle soluzioni che la storia dell’arte ha dimostrato più efficaci: in questo andirivieni diacronico domina perfettamente quello che David Freedberg ha definito «il potere delle immagini »(13). La sua ansia di rinnovamento si è congiunta, infatti, a una conoscenza appassionata dell’arte antica occidentale: ancora oggi visita spesso i musei nelle città dove espone. Le opere del passato sono continuamente citate, anche se in modo non letterale e con significati a latere che riguardano il senso odierno del creare figure.

L’enorme quadro intitolato Snow White and the Broken Arm (1988) mostra una donna chiarissima, distesa, osservata da sette teste mostruose, dalla cui mano pende un fiotto di fotografie polaroid: un oggetto che Dumas si è comperata da ragazzina e che è parte del suo bagaglio tecnico. Un riferimento dell’opera è Biancaneve mentre attende esanime il suo principe, osservata dai nani (operatori dell’arte?) a cui nasconde le fotografie, proteggendo le proprie armi del mestiere, ma la citazione si sovrappone alla famosa fotografia in cui Michael Jackson sta disteso in una camera iperbarica. Un altro riferimento potrebbe essere il titolo di un ready made a forma di spalaneve del padre della non-pittura, Marcel Duchamp, in quanto intitolato In Advance of the Broken Arm (1915); il più importante però è il Cristo morto di Hans Holbein, che ricompare in modo ancora più letterale in Likeness 1 e 2 (2002): qui le proporzioni sono le stesse, quelle di un supporto che diventa sarcofago.
Il piccolo, ma seminale quadro The Image as Burden (1992-1993) mostra un uomo nudo che trascina una donna vestita di bianco; ha come prima fonte un fotogramma di Greta Garbo in Camille (1936)(14), ma rievoca le posizioni classiche della Pietà o del Trasporto di Cristo, su cui si basano tanti dipinti del passato e le quali, poi, hanno fatto da base per molta fotografia di reportage. Il quadro, che non a caso ha dato il titolo a una delle retrospettive più importanti dell’artista, letto attraverso il titolo è anche una riflessione su quanto sia difficile portare letteralmente avanti il corpo dell’immagine, appesantito dalla storia ma ancora pieno di luce.
 
Il Marat di Jacques-Louis David è il modello evidente di Against Hystory (2001). La Dead Marilyn (2008) reca il ricordo Jean-Auguste Dominique Ingres, con le sue odalische abbandonate al sopore o al piacere che hanno ispirato anche dipinti come Angelique (2004) o Jen (2005). Così, ancora, donne ritratte da Marlene Dumas in pianto sovrappongono la tradizione delle pie donne nel Compianto sul Cristo morto con le fotografie di scena di attrici come Romy Schneider, Ingrid Bergman, Margaux Hemingway. 

In un processo circolare, intravediamo le influenze di artisti che hanno lavorato a partire dalla fotografia come Manet, Gauguin e Degas. Del resto le opere di Marlene Dumas, messe accanto a quadri impressionisti alla Gare d’Orsay di Parigi (2021), hanno mostrato di sapervi dialogare senza imbarazzo e anzi in piena continuità: basta uscire dallo stereotipo dell’impressionismo come corrente dell’“en plein air”, tutto spontaneità, come se non sapessimo quanta meditazione sulle fonti si cela dietro a un Déjeuner sur l’herbe di Edouard Manet, ma anche del meno meditativo Claude Monet. 

In qualche caso l’iconografia dell’arte antica, per esempio quella del Cristo, si incontra con citazioni dal cinema contemporanee, come la lettura che ne ha dato Pier Paolo Pasolini nel suo Vangelo secondo Matteo (1964); allora l’artista stratifica ancora più tipologie di fonti, abbracciandole in modo consapevole e non umorale: sa bene che Pasolini scelse Matteo perché «Giovanni troppo mistico, Marco troppo volgare e Luca troppo sentimentale»(15), e infatti ecco che ci si presenta il Pasolini’s Jesus (2012). Non si possono capire alcune strutture nell’opera di Dumas se non si parte dal cinema e in particolare dalla pratica del montaggio e dal suo modo di trattare la temporalità(16), nonché da fotogrammi ripresi i modo quasi letterale da film quali Mamma Roma (Pier Paolo Pasolini, 1962), Ultimo tango a Parigi (Bernardo Bertolucci, 1973), L’impero dei sensi (Nagisa Ṍshima, 1976).

In tutto questo, la mancanza di censure con cui approccia i suoi soggetti, la sfida etica a cui sottopone lo spettatore, la sua capacità di provocare il nostro modo di vedere non sarebbero pensabili se alle spalle, dagli anni Cinquanta, non ci fossero stati dei salti linguistici importanti come quelli dell’happening, della performance e della Body Art, nel pieno di una rivoluzione dei costumi che si è riversata anche nell’arte con la presenza piena e nuda della corporeità. Le fonti di Marlene Dumas includono anche tutte le maniere, anche tridimensionali e connotate dalla temporalità, cioè spesso effimere e fondate su di un triplo rapporto tra corpo, spazio e movimento, in cui si è espressa l’arte dal dopoguerra: una vi certa arte performativa, che ha denudato i corpi, li ha mostrati in movimenti minimi o in azioni sessuali, ha cambiato il modo in cui costruiamo le nostre icone interiori.

Così come la costruisce Marlene Dumas, una figurazione contiene dunque molte cose: ciò che Walter Benjamin ha definito inconscio ottico, cioè qualcosa che a occhio nudo non si riesce a vedere ma che il mezzo meccanico rileva(17); ciò che Rosalind Krauss, stravolgendo la stessa definizione, ha allargato a significare anche ciò che non vede la mentalità razionale(18); ciò che Georges Didi-Huberman definirebbe un’operazione «anacronista», un cortocircuito di temporalità in cui l’immagine che nasce ha più memoria ma anche più futuro di quanto sospetteremmo(19)

In termini pittorici, Marlene Dumas ha reso molto personale la maniera in cui tratta la superficie, che si tratti di carta o di tela. Come ha dichiarato, «dipingere non è in primo luogo [fare] un’immagine, ma è una performance»(20). Chi l’ha vista al lavoro anche solo in un documentario, sa che utilizza volentieri la fluidità dell’acquarello o dell’inchiostro, facendola in parte circolare liberamente sul foglio o sulla tela; di questa specie di lavaggio l’artista raccoglie i risultati casuali che talvolta corregge con pennello o stracci o altri strumenti atipici. 

È impressionante come da quelle che, all’inizio, si potrebbero definire macchie, poi emergano occhi con degli sguardi languidi o puntuti, bocche volitive o ritratte, anatomie riconoscibili. C’è una magia in questa trasformazione di un gioco di liquidi in qualcosa che ci riguarda. Anche nei colori a olio immette una grande quantità di essenza di trementina o di solventi che la rendano liquida e opaca. Talvolta cancella parte della materia pittorica in modo da renderla più evocativa, come se volesse lasciare delle ombre sulla superficie; raramente interviene con pennellate materiche e per questo i suoi quadri sono di solito piatti come stampe.


Nei movimenti che conducono alla figura c’è qualcosa che ricorda le “chance operations” con cui John Cage realizzava le sue opere visive oltre che musicali. Ma c’è anche un movimento circolare che sa di accoglienza, come fare carezze a un bambino o amalgamare un impasto o anche danzare. Raramente guida la mano un moto di rabbia. E così «l’evidente investimento dell’artista nei suoi soggetti si combina con la fluidità gestuale dei tratti disegnati e dipinti, guidando l’impatto vi scerale - così come cerebrale ed emozionale - dell’opera»(21)
Questa pittura, così implicata con la manualità e i suoi piaceri e compiuta in uno stato di “flow” tutto soggettivo, appare come una controparte rispetto ai mezzi odierni di produzione industriale. Nel corso di due secoli, le macchine sono diventate sofisticati aiuti alla nostra capacità di fare ma, nell’ultimo cinquantennio, si sono spesso dimostrate agenti sostitutivi della nostra capacità di pensare. In più, il lavoro è andato assumendo attorno a esse uno specifico carattere collettivo, diverso dal lavoro comune in agricoltura o nell’artigianato, che si è declinato in molti modi: dalla massa di operai in fabbrica alla squadra creativa flessibile e altamente qualificata dei nostri giorni. In ciascuno di questi due poli è emersa la necessità di mettere da parte la relazione uno a uno, per favorire un triangolo che passa appunto dal macchinario. Una pittura molto personale, addirittura fisica, fa da contraltare al sistema corrente del lavoro senza peraltro chiudersi in un distacco solipsistico: Marlene Dumas non privilegia l’espressione del sé, nemmeno quando dipinge a partire da fotografie personali. 
L’artista guarda il mondo e ce lo fa vedere, ma con una logica opposta e critica rispetto alla necessità di produrre che è propria di un’agenzia fotografica o di un canale televisivo. In questo senso è anche un’interprete non letterale, ma sagace, dell’universo tecnico in cui ci troviamo a vivere e di cui ci offre una comprensione controintuitiva. Marshall McLuhan riteneva che le sole persone capaci di comprendere pienamente l’impatto dei sistemi di utilizzo delle nuove macchine fossero gli artisti, con la loro disposizione a «pensare con le orecchie, con le dita delle mani e dei piedi »(22), veri interpreti della tecnologia anche quando sembrano non utilizzarla affatto. 

La maniera in cui Marlene Dumas approccia la pittura, dunque, abbraccia il modo in cui tutti costruiamo il museo immaginario che crea il nostro catalogo di visioni mentali; lo fa sovrapponendo l’arte antica alla fotografia mediatica al linguaggio delle avanguardie, senza mai sottovalutare la storia e i suoi processi collettivi. La sua voce non è quella di un io romantico ottocentesco né di un ego novecentesco, psicologicamente tormentato: è il mondo a essere tormentato, e lei cerca di tradurlo in figurazioni.
11 Marlene Dumas: Negotiating Small Truths, JackS. Blanton Museum of Art, University of Texas, Austin1999.
12 Intervista con ArtKrush, 2008, in D. van den Boogerd,B. Bloom, M. Casadio, I. Bonacossa, op. cit., pp.157-158, p. 158.
13 Cfr. D. Freedberg, Il potere delle immagini. Il mondodelle figure, reazioni ed emozioni del pubblico, Torino 2009.
14 Caoimhín Mac Giolla Léith, A Wall to object to,“Frieze”, n. 167 (novembre-dicembre 2014), pp. 125-131.
15 Intervista con Marlene Dumas a cura di A.Klimciuk, in Marlene Dumas, catalogo della mostra (Milano, Fondazione Stelline, 13 marzo-17 giugno 2012),a cura di G. Verzotti, Milano 2012, p. 90.
16 Sul modo in cui viene trattata la sovrapposizionedi immagini fotografiche o fotogrammi e il suo rimandoimplicito al movimento in pittura, mi sembraconsentaneo al lavoro di Dumas il background delBauhaus e in particolare Lazlo Moholy-Nagy, PitturaFotografia Film, a cura di A. Somaini, trad. it., Torino2010.
17 Cfr. W. Benjamin, Piccola storia della fotografia, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica,Torino 1991.
18 R. Krauss, L’inconscio ottico, Milano 2008.
19 G. Didi-Huberman, Storia dell’arte e anacronismo delle immagini, Torino 2007.
20 Marlene Dumas in V. Mackenny, Anxious Surfaces,in “Art South Africa”, Vol. 06, Issue 03, 2008 (CapeTown: Brendon Bell-Roberts) p. 50.
21 Cfr. L. G. Mark, The Binding Factor: The MaternalGaze of Marlene Dumas, in Marlene Dumas: MeasuringYour Own Grave, catalogo della mostra (Los Angeles,MoCA, 14 dicembre 2008-16 febbraio 2009), a cura di C. Butler, J. Hyun e E. Hamilton, Los Angeles-NewYork 2008, p. 214.
22 P. W. J. T. Mitchell, Scienza delle immagini. Iconologia, cultura visuale ed estetica dei media, Milano2018, p. 119.

MARLENE DUMAS
MARLENE DUMAS
Angela Vettese
Marlene Dumas (Città del Capo 1953) è tra le più influenti artiste contemporanee.Nata in Sudafrica, si è formata e poi definitivamente trasferita in Olanda. Si esprime con la pittura e il disegno, con molta parsimonia di segni e colore. Sembra muoversi nell’ambito dell’espressionismo, anche se in modo decisamente personale. I temi toccati dalla sua arte spaziano dalla sessualità alla violenza, dal razzismo all’Africa, esprimono il desiderio e la sofferenza, in una dimensione ambigua e provocatoria. L’ambito dei suoi soggetti è circoscritto alla figura umana, trattata in termini essenziali, spesso nuda e violentata, con linee pulite e sobrie che raggiungono però effetti emotivi fortemente coinvolgenti.