DUE DONNE ECCEZIONALI
E TRE DONNE MALTRATTATE

Mentre scrivo, la mostra di Vienna sulle donne di Tiziano (e dintorni) elenca con disinvoltura i suoi ideali positivi: bellezza, amore, poesia(1).

Intanto mi viene confermato che la versione di Milano, dal titolo più stringato, farà a meno di questi concetti e queste parole(2) - troppo scontate, o semplicemente inattuali, stonate per donne che hanno ormai altri pensieri.

Eppure, insieme alle dolcezze umanistiche che ingombrano un secolo intero, perdendo un po’ alla volta di spessore, circolano fin dal principio immagini di minoranza con proposte alternative: immagini rare, non replicabili, senza un contesto definito e dunque oggetto di continua incomprensione, nonostante si tratti di pittori e casi celeberrimi. Sono la Vecchia di Giorgione e la Giovane donna di Tiziano, quest’ultima condannata da una storiografia negligente a portarsi appresso l’identità immaginaria di una qualsiasi “schiavona”.


Ritratto di giovane donna (1510-1511); Londra, National Gallery.

La nutrice - dopo aver esaurito il compito specifico per ragioni d’età, sua o dei nutriti/delle nutrite - resta di norma in casa come governante o ancella personale, soprattutto di ex-fanciulle, diventando una figura fondamentale nella famiglia aristocratica d’antico regime e nelle sue (auto) rappresentazioni. In termini figurativi, la nutrice è caratterizzata dagli inconfondibili attributi della cuffia in testa e del panno sulla spalla, sempre bianchi, destinati a ovvie e praticissime funzioni igieniche: la cuffia, professionale o improvvisata, serve a trattenere i capelli; il panno - un grande fazzoletto o un piccolo asciugamani, spesso portato sulle spalle a mo’ di scialle o mantellina - serve a nettare la nutrice e il nutrito/la nutrita dai residui di latte.


Giorgione, La vecchia (1500-1502); Venezia, Gallerie dell’Accademia.

Le immagini offrono esempi pressoché infiniti di giovani balie da latte e di anziane balie asciutte rimaste in casa come fedeli e fidate dame di compagnia: da tenere a mente almeno quella attempata di Carpaccio, “genius loci” della sorveglianza, nella stanza di sant’Orsola a colloquio col padre intruso e stordito; e magari la giovane a sinistra sul soppalco della Natività di Cristo di Tintoretto nella Scuola grande di San Rocco, dotata di cuffia, mantellina e braccialetto di benaugurante corallo, pronta a offrire il seno scoperto e inoltre fornita di scodella e cucchiaio, che è figura della nutrizione materiale nell’attesa che il Bambino svelato fra le spighe diventi cibo spirituale.
Fin qui siamo però dentro storie e leggende della devozione cristiana(3). Nella ricerca di personaggi vivi e vivaci della realtà contemporanea, incontreremo facilmente la celeberrima nutrice che accompagna Giustiniana Giustiniani in Barbaro sulla balconata dipinta da Paolo Veronese nella villa di Maser; e quanto la signora è giovane e bella, bianca e rossa, tutta curve ed eleganze, tanto la nutrice - ancorché di segnalata fedeltà come spiega il cagnolino e di provata bontà come spiega lo sguardo - è vecchia, brutta, rugosa, scura e angolosa, scollacciata a mostrare ancora in parte i seni avvizziti, sgradevoli da vedere, sgradevole lei: riscattata e riequilibrata, tuttavia, dalla bellezza dell’antica “figlia”, dalle ricchezze e delizie del contesto nobiliare.
Per chi abbia qualche nozione di storia del costume e qualche inclinazione a un semplice procedimento di riscontri iconografici, il testo figurativo dice assai chiaramente che la celebre Vecchia è una nutrice, caratterizzata dagli attributi ben dettagliati della cuffia a sacchetto sulla testa e dell’asciugamani a frange sulla spalla. Dunque, non sono poi così assurdi gli antichi documenti che la chiamano «madre» (del pittore stesso, o di qualcun altro): l’inventario Vendramin del 1567-1569; l’inventario Orsetti del 1664, compilato da Pietro Vecchia, uno che se ne intendeva; e ancora la lista di dipinti sul mercato veneziano inviata nel 1681 dall’ambasciatore toscano al granduca Cosimo III(4).
All’origine della Vecchia giorgionesca c’è dunque un ritratto (basterebbe il parapetto): un ritratto socialmente del tutto accettabile, perché la nutrice, bagnata come asciutta, era parte integrante - riconosciuta, stimata e gradita - della famiglia d’antico regime; ma culturalmente (figurativamente) del tutto inaccettabile, perché il pittore ha estremizzato i termini della rappresentazione fino a tralasciare i caratteri di decoro e dignità che forse avrebbero fatto passare - cinquant’anni prima di Veronese - l’inedita esposizione in isolamento ritrattistico di una donna tutt’altro che nobile, di un’abituale comprimaria chiamata troppo presto a un ruolo da protagonista. Sulle corde di un’intenzionalità malinconica, come evidentemente dettavano (ora sono cancellati) i marcati segni di vecchiaia nel viso e la mano portata al seno in un gesto che ancora riafferma la fedeltà al ruolo e, discretamente indicando, quel ruolo se lo auto-certifica e se lo auto-conferma proprio quando finisce.
Poi venne il cartiglio «CoL TeMPo», con la sua discutibile grafia, con la sua impensabile posizione tra mano e petto/braccio invece che dentro la mano come dovrebbe. Aggiunto da Giorgione un giorno, un mese, un anno dopo la finitura del ritratto? Aggiunto da qualcun altro uno, dieci, cinquant’anni più tardi? La risposta (presumibilmente solo tecnica, dunque insoddisfacente) mi interessa pochissimo.
E neppure me la prenderò più di tanto con il restauro recente, anche se ha spianato le rughe, lavato i denti, asciugato la bavetta all’angolo della bocca, pulito i panni, spento lo sguardo, eliminato l’espressione.
Mi interessa piuttosto capire - e magari far capire - che con quel semplice trucco, ancorché maldestramente praticato, l’eccessiva realtà della Vecchia si stemperò in tipicità, l’insopportabile ritratto si tramutò in allegoria.
La ritrattistica veneziana di primo Cinquecento, dopo essersi faticosamente staccata dalla tradizionale rappresentazione di profilo, fatica ancora a lungo a staccarsi dal parapetto: intendo con ciò proprio quell’ostacolo artificiale di finto marmo o legno frapposto tra noi e il rappresentato per ritagliarlo nella sua dimensione reale o astratta, per determinare, isolandola, la sua identità e personalità, per evitare, quasi, che si stabilisca un’eccessiva intimità, un troppo marcato coinvolgimento, se non del pittore, certamente dello spettatore.


Vittore Carpaccio, Gli ambasciatori inglesi alla corte di Bretagna (1497-1498), particolare; Venezia, Gallerie dell’Accademia.
Nella sua stanza da letto, Orsola, figlia cristiana del re di Bretagna, detta al padre preoccupato le condizioni per accettare il matrimonio col figlio pagano del re d’Inghilterra: la conversione dello sposo e il pellegrinaggio a Roma. Testimoni della scena: la vecchia nutrice seduta sui gradini, la Madonna e il Bambino nel quadretto appeso alla parete.

Jacopo Tintoretto, Natività di Cristo (1578-1581), particolare; Venezia, Scuola grande di San Rocco.

Paolo Veronese, La giovane signora e la vecchia nutrice (1561); Maser (Treviso), villa Barbaro.

Lo spettatore moderno, quasi sempre privo di qualsiasi informazione su quelle identità e personalità, vorrebbe saperne di più, vorrebbe un tantino di quell’intimità allora riservata e oggi negata, e fatica a sua volta a instaurare un rapporto: tanto più che i protagonisti di questi ritratti sono personaggi socialmente o culturalmente selezionati, separati se non inavvicinabili, tutti proiettati su di sé per orgoglio, introversione o narcisismo. Dietro il parapetto, insomma: quello dipinto come quello dello “status”, della forma, del “bon ton”.

In questa situazione, era molto difficile uscire dai canoni tradizionali della ritrattistica femminile, invariabilmente fissati da un punto di vista maschile. I ritratti delle donne sono commissionati, progettati e pagati dai loro padri e dai loro mariti. Le donne compaiono in immagine solo in quanto spose promesse, spose realizzate (mogli/madri), spose abbandonate (vedove). La loro dimensione è quella della solitudine controllata e dell’attesa paziente. 
Gli eventi: matrimoni, nascite, lutti. Gli spazi e gli ideali consentiti: il benessere e l’organizzazione della casa, il mantenimento e il consolidamento delle devozioni prescritte, insomma i valori economici, morali, religiosi dell’istituto famigliare.
Quel che per noi è specificamente interessante è che il punto di vista maschile in questione è anche il punto di vista del committente del ritratto, l’unico specchio in cui lo spettatore moderno può cogliere almeno un riflesso, ancorché selezionato e condizionato, della semi-invisibile vita delle donne nella società d’antico regime.
A prima vista la gentildonna londinese di Tiziano non sembrerebbe distaccarsi dalle regole. Giovane ma non troppo, priva di ogni idealizzazione nel volto e nella figura, appare sorridente e amabile, ma non particolarmente bella, grassottella (con tanto di doppio mento) e simpatica, ma non particolarmente attraente. L’abito di lana color cremisi, stretto in vita da una fascia qualsiasi di grigio scuro con semplici motivi decorativi in grigio chiaro, è più che dignitoso ma decisamente domestico; l’ornamento dei capelli è un tantino più elegante e ricco, in seta verde con fili d’oro.
Intorno al collo ha due giri di una sottile catenina d’oro, che, come tutti i gioielli e gli accessori che stringono e legano (anelli collane bracciali cinture), è segnale di un vincolo d’amore(5). All’anulare della mano sinistra porta infatti gli anelli gemini, quello con pietra rossa sopra quello con pietra verde-azzurra, momentaneamente sistemati alla falange media, altrimenti non li vedremmo; e invece dobbiamo vederli, perché stanno a sottolineare la fedeltà assoluta al vincolo(6). Lo sguardo contento è frontalmente rivolto allo spettatore che guarda. È lo sguardo incrociato e scambiato tra gli sposi.


Giorgione, La vecchia (1500-1502), particolare; Venezia, Gallerie dell’Accademia. Il cartiglio avvia la riflessione su ritratto, allegoria e sguardo dello spettatore consapevole: «Tutto è ridotto all’essenziale, senza ornamenti esterni, tanto da indurre a concentrarsi sull’interiorità. L’abito da nutrice, al servizio di una casa, diviene l’habitus di chi ha sperimentato le trasformazioni del tempo nel tempo». (Lauber 2017).

Questo sguardo - così insolitamente naturale e lungo, così diretto, non certo impudico ma un tantino impudente - trasforma in maniera radicale la costruzione e la percezione del ritratto di donna, tradizionalmente discreta e schiva, condannata a una serie infinita di sguardi laterali e sfuggenti. La presentazione del corpo, ovviamente frontale e naturale come esige lo sguardo, tende per di più alla figura intera, intenzionalmente liberata dall’artificioso taglio della lastra marmorea; e dal momento che la figura è robusta, e certo l’abito non la snellisce, il risultato è quello di una presenza forte, imponente, assertiva(7).
Per essere tanto caratterizzata, e però non bella, sarà sicuramente molto somigliante al vero; l’idealizzazione e l’abbellimento (per quel che si poteva: il doppio mento c’è ancora) sono delegati al profilo rilevato nella maniera della scultura veneziana contemporanea, ma all’antica, sul finto marmo che non è più limite, non più ostacolo alla comunicazione, ma luogo e pretesto per sfoggiare rudimenti di cultura e fornire informazioni sull’attualità.
L’originale spunto di paragone permette al ritratto di moltiplicare la personalità, in un gioco serissimo sulle infinite possibilità della pittura.
Ovviamente la donna non è una “schiavona”, una dalmata, come voleva una tradizione non verificabile alla fonte ma comunque assai antica, che intendeva evidentemente attribuirle - in base all’aspetto ordinario, all’abito informale e all’atteggiamento prepotente - origini provinciali, maniere discutibili, o addirittura condizione subalterna; ma di certo non è una nobile veneziana, che mai si sarebbe presentata al pittore e allo spettatore vestita da casa.
Non ci saranno più ritratti come questi, con l’impressionante visibilità che a molti dovette sembrare eccessiva, con due protagoniste, la vecchia madre e la giovane sposa, sommerse nella solitudine di un’impossibile indipendenza. Il percorso verso il ritratto moderno - verso il carattere raccolto dalla capacità d’introspezione del pittore ed esibito alla curiosità dello spettatore - era breve ma davvero accidentato: la realtà, progressivamente bandita dalle immagini, era soppiantata dalle storie e dalle allegorie.


Ritratto di giovane donna (1510-1511), particolare; Londra, National Gallery.

Una donna ingiustamente accusata di adulterio dal marito è scagionata dal figlio infante che miracolosamente prende la parola. Un’altra donna, in analoghe circostanze, è accoltellata dal marito geloso; le variabili fonti antoniane riferiscono che la vittima sarà poi risanata dalle ferite, o addirittura resuscitata da morte. Un giovane durante un litigio sferra un calcio alla madre, e poi, sopraffatto dal peso della colpa inaudita, non trova di meglio, per sfogare il rimorso, che amputarsi il piede incriminato: sarà anche lui risanato riappacificato alla genitrice e recuperato al consorzio civile. Sono i tre affreschi eseguiti da Tiziano nel 1511 all’interno del ciclo della Scuola del Santo a Padova, su un’unità tematica precostituita, l’esercizio delle virtù taumaturgiche di sant’Antonio a vantaggio della città prediletta. Nel Miracolo del neonato la donna è costretta a provare la sua innocenza, ma non v’è alcun cenno di riprovazione per i sospetti e le accuse del marito, che anzi viene premiato pubblicamente e ufficialmente - siamo in un tribunale, come si deduce dalla presenza della statua imperiale(8) - con una certezza rinnovata e santificata. Ancor più clamoroso il caso del Marito geloso: nello sfondo l’energumeno pentito è perdonato dal santo, ma della disgraziata e della sua guarigione o resurrezione non v’è traccia. Rispetto a queste mogli vittime, esce con una certa dignità dal Miracolo del piede risanato la figura della madre fisicamente e moralmente oltraggiata, e tuttavia pronta a chiedere al santo l’immediato risanamento del figlio impulsivo e autolesionista. L’interpretazione di Tiziano - o a lui richiesta - appare inevitabilmente in linea con la profonda misoginia delle leggende agiografiche e del costume famigliare del tempo: chiede affetto e rispetto per la madre, sospetto e correzione per le mogli. Eppure, la spia di una possibile riserva, di un barlume di consapevolezza, è proprio in quel marito furibondo, consegnato alla celebrità in un’istantanea di inedita violenza, sudato e scapigliato, e armato di un grosso coltello quando nella leggenda s’accontentava di pugni e calci(9).I tre episodi antoniani sono esempi appropriati di un’agiografia mirata alla ricomposizione degli affetti sul piano della corrente e retriva morale famigliare, ma segnano intanto un evidente sviluppo dell’attenzione al racconto, dalla solennità giudiziale e dallo schieramento ancora un po’ statico dei personaggi che circondano il bimbetto parlante a quello più agitato e scomposto intorno al ragazzo masochista, fino al sorprendente dinamismo del brutale assassinio. Come già dicevo, è arrivata la storia con tutte le sue storie.


Ritratto di giovane donna (1510-1511), particolare; Londra, National Gallery.

Delitto del marito geloso (1511); Padova, Scuola del Santo.


Miracolo del piede risanato (1511); Padova, Scuola del Santo.

1 Tizians Frauenbild. Schönheit - Liebe - Poesie, catalogo della mostra (Vienna, Kunsthistorisches Museum, 5 ottobre 2021-16 gennaio 2022), idea e concezione di S. Ferino-Pagden, a cura di S. Ferino-Pagden, F. Del Torre Scheuch e W. Deiters, Milano 2021. Le singole citazioni nelle note successive si riferiscono all’edizione in lingua inglese, Titian’s Vision of Women. Beauty - Love - Poetry.
2 Tiziano e l’ immagine della donna nel Cinquecento veneziano, catalogo della mostra (Milano, Palazzo reale, 23 febbraio-5 giugno 2022), a cura di S. Ferino-Pagden, Milano 2022.
3 Per altri esempi: A. Gentili, Giorgione e la vecchia nutrice, in L’attenzione e la critica. Scritti di storia dell’arte in memoria di Terisio Pignatti, a cura di M. A. Chiari Moretto Wiel e A. Gentili, Padova 2008, pp. 97-100.
4 G. Nepi Scirè, Vecchia, in Giorgione. Le maraviglie dell’arte, catalogo della mostra (Venezia, Gallerie dell’Accademia, 1° novembre 2003-22 febbraio 2004), a cura di G. Nepi Scirè e S. Rossi, Venezia 2003, pp. 162-167 (162), scheda n. 9.
5 M. A. Altieri, Li Nuptiali [inizi XVI secolo], a cura di E. Narducci, Roma 1873, p. 67: «Per la collana, balteo, over vogli il monile, se ne testifica sì come se vede esser già per quell’acto superata et victa, denotandose sottoposta allo arbitrio et volere del marito, et da quello debbiase per quanto viva dominare».
6 P. Rainer, Gimmel Rings, in Titian’s Vision of Women. Beauty - Love - Poetry, cit., pp. 179-181.
7 R. Goffen, Titian’s Women, New Haven & Londra 1997, pp. 51-52.
8 E. Panofsky, Tiziano. Problemi di iconografia, Venezia 1992, p. 51.
9 R. Goffen, op. cit., pp. 13-25.

TIZIANO. LE DONNE
TIZIANO. LE DONNE
Augusto Gentili
Nella pittura veneta del Cinquecento l’immagine femminile è particolarmente presente, e con caratteri che la differenziano dal resto della produzione artistica europea del tempo.   Il nostro dossier indaga – oltre al contesto sociale della città – le implicazioni simboliche connessa alla figura femminilenella pittura di Tiziano, soprattutto – capace di interpretare una sorta di nuovo canone di bellezza –, ma anche in Giorgione e negli altri protagonisti della cultura del periodo. L’indagine è sulla rappresentazione del femminile come indizio di una mentalità, nel secoloin cui le prime artiste iniziano ad affacciarsi sulla scena pubblica con qualche successo.