LA LEPRE, IL CAVALLO, IL COYOTE.‌
IL MONDO NATURALE TRA ARTE E POLITICA

Nel corso di molte “azioni”, dal Capo a Eurasia a Titus / Iphigenie, datata 1969 e dominata dalla figura del cavallo bianco che si staglia contro l’oscurità dello sfondo tra rumori, parole e suoni di piatti metallici, Beuys compare in scena assieme a animali vivi o morti.

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er l’importanza simbolica che il mondo naturale assume nell’attività dell’artista, questi, come già osservato, ci appare erede della grande tradizione espressionista tedesca: troviamo i puledri blu di Marc alle sue origini. Ma Beuys è anche tra i fondatori del partito dei Verdi in Germania, e il tema dell’animale riflette in lui inquietudini politiche e geopolitiche di ampia portata, che rimandano, in via indiretta, al problema dell’identità tedesca postbellica e al ruolo culturale dell’Europa nei decenni della Guerra fredda e della politica dei blocchi. Vediamo di approfondire attraverso una lettura d’opera mirata.


Nel maggio 1974, alla Galleria René Block di New York, va in scena un singolare rituale di riconoscimento tra uomo e animale. Acclamato in America come l’anti Warhol, celebre per le installazioni con feltro e grasso animale, Beuys soggiorna per quattro giorni e quattro notti nella galleria, temporaneamente chiusa al pubblico, in compagnia di un coyote. L’America mi piace e io piaccio all’Americaquesto il titolo della performance di cui stiamo parlando, è ben documentata in ogni suo momento. All’atterraggio, Beuys, che resta muto per tutta la durata dell’“azione”, viene prelevato in aeroporto da un’ambulanza. La performance si apre dunque sotto il segno della malattia, psichica, se non fisiologica, della degenza e della cura. Nella galleria, attrezzata a mo’ di cuccia per coyote con giacigli di paglia, l’artista trova il coyote ad attenderlo. Beuys è ammantato da una grande coperta di feltro, quasi un antico robone o una veste pastorale; e l’insolito indumento allude allo status “spirituale” dell’artista, che qui opera nelle vesti di guaritore. Porta con sé anche un bastone, insegna del viandante, del pellegrino.


Il coyote è un canide indigeno del Nord America, parente stretto del lupo, anche se più piccolo di questo. È parte della mitologia dei nativi americani, che vedono lupo, il coyote non caccia in branco, né in genere aggredisce l’uomo, anche se oggi, per l’estendersi delle “zone di confine” tra città e prateria, i coyote sono diventati più audaci, soprattutto contro i bambini o le persone di piccola taglia. Al tempo in cui Beuys tiene la perfomance, non si erano ancora registrati casi di aggressione grave o mortale da parte dei coyote a danno degli umani. Tuttavia la condivisione di un habitat innaturale e ristretto poteva sicuramente indurre l’animale a comportamenti non amichevoli. 

Al momento di condividere il locale della galleria d’arte con il coyote, dunque, Beuys non sapeva quale ne sarebbe stata la reazione. La coperta entro cui si avvolge non ha solo senso simbolico: offre anche protezione contro possibili assalti. Nella documentazione fotografica della performance vediamo infatti il coyote mordere e lacerare la coperta, quantomeno in un primo in lui un ingegnoso imbroglione; è parte della mitologia anche delle popolazioni precolombiane del Centro e Sud America, che riconoscono invece nel coyote una potente divinità guerriera. A differenza del momento (ricordiamo che, nel corso della performance, la galleria è chiusa ai visitatori. Una sorta di reticolato separa Beuys e il coyote pur lasciando vedere ciò che va accadendo al di là di esso).


Titus / Iphigenie (1969), fotografia della performance.

L’America mi piace e io piaccio all’America (I Like America and America Likes Me) (1974), fotografia della performance.


Eurasia (1966), fotografia della performance.


Titus / Iphigenie (1969), fotografia della performance.

Nelle locandine che annunciano L’America mi piace e io piaccio all’America, recanti un ritratto di Beuys in negativo fotografico, lo scatto è di Ute Klophaus, l’artista si mostra come uno spettro, un “revenant”: uno sciamano, come lui stesso ama proporsi, un inviato dal regno dei morti. Questo suo ruolo si chiarisce nel corso del tempo speso in galleria, trascorso in penitenziale silenzio. Il coyote concede una crescente familiarità all’artista, che a tutta prima deve essergli sembrato un minaccioso intruso. Lo avvicina, lo fiuta, accetta di dormire vicino a lui. Considerata sotto profili drammaturgici, la performance segna quindi la nascita di un’amicizia tra uomo e animale, o meglio il rinnovarsi di una fraternità che era andata perduta.


Le implicazioni simboliche della performance diventano a questo punto più trasparenti. Sacro ai nativi, come già accennato, il coyote ne commemora e insieme ne denuncia la scomparsa.

Al pari del bisonte, il coyote abita da tempo immemorabile le grandi praterie americane. Per questo è a lui che Beuys chiede accoglienza. La crudeltà con cui, tra Sette e Ottocento, coloni e militari hanno cacciato i nativi dalle loro terre, uccidendoli o spingendoli all’autodistruzione, chiudendoli in riserve, è per l’artista il non detto della storia americana moderna, del progetto di illimitata prosperità consumeristica che sospinge in avanti la «società opulenta».


Che l’animale sia in scena è una circostanza decisiva: perché proprio la sua presenza avvia processi di rammemorazione e impone circospezione e modestia all’uomo, presentato non come signore della Terra e suo despota, ma come ospite, al pari di ogni altra creatura. Nell’accettare l’ostilità del coyote, Beuys si adopera così per riconquistarne la fiducia.

Faremmo un errore, nell’occasione, a lasciarci fuorviare dal mutismo di Beuys, che non rilascia affermazioni altisonanti, e preferisce che il senso ultimo della perfomance resti implicito. Faremmo un errore anche a lasciarci fuorviare dal titolo, in apparenza così amabile. L’America mi piace e io piaccio all’America è una performance aspra e a tratti polemica, persino spinosa, dalle pieghe molteplici, estetiche e ideologiche. Non tratta prioritariamente di eventi remoti, ma della storia più recente. 


L’America mi piace e io piaccio all’America (I Like America and America Likes Me) (1974), fotografia della performance.

E istituisce una contesa. Stabiliamo il punto: un artista tedesco, nel 1974, viene a ricordare agli americani di origine europea la loro ferocia genocidaria. Per effetto della performance, gli Stati Uniti si trovano strettamente congiunti al loro nemico storico, la Germania, contro cui sono scesi in guerra nella prima e soprattutto nella seconda guerra mondiale. Entrambe le nazioni, ammonisce Beuys, l’amico del coyote, hanno costruito la propria politica di potenza sulla strage e l’olocausto, sia pure in tempi diversi e con esiti diversi. Il rovesciamento di prospettiva, la chiamata di correità, se così si può dire, è evidente e tutt’altro che ovvia.


Di solito riteniamo che L’America mi piace e io piaccio all’America si svolga per intero in galleria. Non è così. La performance ha inizio all’aeroporto, quando Beuys è issato sull’ambulanza. La circostanza ha un senso politico-ideologico assai concreto. L’artista rifiuta di riconoscere gli Stati Uniti, e dunque di attraversarne il confine aereo o terrestre in via formale, cioè presentando il proprio passaporto a un qualsiasi funzionario di dogana. Rifiuta a causa della guerra in Vietnam, che avrà termine solo nell’aprile del 1975. 

Questo atteggiamento antagonistico di Beuys è ribadito in chiusura di performance, quando l’artista chiede di essere ricondotto in aeroporto interamente avvolto nella sua coperta. In altre occasioni, come ricordato, ha rinviato, e rinvierà, a propositi di “Terza via” echeggianti punti di vista della cosiddetta “rivoluzione conservatrice” affermatisi in Germania tra le due guerre. Adesso, nell’uscire dalla Galleria René Block, lo psicoterapeuta sociale Beuys, il taumaturgo Beuys, latore di profezie ecologiche e sociali radicali, perdipiù avverso ai fondamenti utilitaristici della democrazia liberale, si congeda da New York senza rivolgere la parola a chicchessia né vedere alcunché. Ai suoi occhi una franca e cordiale adesione alla vita che si svolge per le strade della capitale economica dell’impero appare prematura se non impossibile.


Il patto di rinnovata amicizia tra uomo e animale, lo si è appena visto, è indice o pegno di una “conversione”: l’uomo può stringerlo, per Beuys, solo al termine di una trasformazione intima e radicale, estinguendo in se stesso un’oscura pulsione al dominio. Sinora ho descritto L’America mi piace e io piaccio all’America prestando particolare attenzione a determinati aspetti geopolitici. Adesso però possiamo virare in direzione di un diverso punto di vista interpretativo, ludico, immaginativo o fantastico; e interrogarci sull’animale come tale. Sulla sua scritturazione, per così dire. Perché portarlo in scena? Questa scelta non è scontata né banale. Come si motiva?


Joseph Beuys saluta con un bacio Harald Naegeli, arrestato mentre attraversa il confine con la Svizzera nell’aprile del 1984.

Beuys non è il primo artista della generazione Fluxus o Antiform a introdurre animali in galleria. A cavallo tra anni Cinquanta e Sessanta, pensiamo a Rauschenberg o a Piero Manzoni, a Richard Serra o a Pino Pascali, incontriamo già assemblaggi o installazioni che giocano con la forma dell’organismo vivente o portano in scena animali vivi e morti. In Monogram, per esempio, realizzato tra 1955 e 1959, Rauschenberg esibisce una capra d’Angora in tassidermia. In un Achrome di poco successivo, invece, Manzoni avvolge una sfera di una candida e ricciuta pelliccia di coniglio. Crea così un ibrido che sta a metà tra vita e morte; biologia e scultura. Nel 1966, a Roma, alla Galleria La Salita, lo scultore americano Richard Serra espone animali vivi e animali impagliati in occasione della sua prima mostra personale. Criceti, galline, colombe e un maialino ruspante in carne e ossa. Il contrasto tra gli animali vivi e gli animali impagliati sembra qui commentare in modo sarcastico, nelle intenzioni di Serra, il modo in cui le opere d’arte, che escono per così dire vive dalle mani dell’artista, “si imbalsamano” poi quando esposte in galleria o in casa del collezionista, è curioso osservare come, proprio a questo proposito, Pascali, autore di sculture che hanno forma di giraffa o di rinoceronte “decapitati”, lamenti negli stessi anni la sorte delle opere d’arte mercificate. Queste, osserva, diventano una sorta di “trofei”. Che dire poi dei Cavalli di Kounellis, esposti a Roma, all’Attico, nel 1969? Un’affermazione a dir poco euforica sullo stato di salute, vigoroso e scalpitante, dell’arte contemporanea.

Ma torniamo alla performance newyorkese di Beuys e al coyote in via di ammansimento. Torniamo soprattutto al ruolo performativo che l’artista assegna all’animale, sia in L’America mi piace e io piaccio all’America, lo abbiamo appena visto, sia in performance cronologicamente anteriori. Uno sguardo comparativo, rivolto all’intera attività di Beuys, può aiutarci a comprendere meglio come l’animale sia per lui un messaggero, un alter ego “cosmico” dell’artista, mansueto e fermo. L’animale, suggerisce Beuys, insegna a disfarsi di atteggiamenti obliqui e innecessari, ingenerati nell’uomo perlopiù dalla paura.


Come spiegare i quadri a una lepre morta è il titolo di un’“azione” tra le più note di Beuys, tenutasi nel 1965 alla Galerie Schmela di Düsseldorf. È anche l’azione che per la prima volta impone il nome di Beuys all’attenzione internazionale.


All’interno della galleria, anche stavolta chiusa al pubblico, visibile solo tramite un’apertura a parete e una telecamera a circuito chiuso, Beuys appare con il volto coperto da una maschera d’oro e una lepre morta in braccio. Indossa gli abiti che porterà sempre in seguito, e che lo caratterizzano quasi vestisse un’uniforme. Il giubbotto da pescatore, che rimanda alle figure del “pescatore di anime” per antonomasia, Cristo; i jeans, insegna del mutamento dei costumi; gli scarponi da viandante, che calzano i piedi di chi va ed è in cerca. La lepre, suggerisce qui Beuys, è simbolo dell’“abitare” o del “dimorare”. È un animale che scava buche e cerca protezione nell’oscurità della terra, cui appartiene. Tenerla in braccio, adesso che è trapassata, è un atto di pietà. Al tempo stesso implica il riconoscimento del limite che è proprio di ciascun mortale, e non della lepre sola. Al di sopra degli uomini e degli animali, per Beuys, è un’unica legge. La maschera d’oro indossata dall’artista sospende la quotidianità e proietta l’azione su piani sovratemporali.


“Spiegare i quadri a una lepre morta” è un proposito audace e paradossale.

Di più. Parrebbe del tutto insensato dal punto di vista del senso comune. Ma se consideriamo come l’animale sia per Beuys una figura della legalità “cosmica” e dell’obbedienza a essa, ecco che la performance acquista senso. “Spiegare” non equivale qui a sprecare parole, né a esibirsi in una sfrontata eloquenza. Al contrario. L’atto dello “spiegare” si compie qui in silenzio: non una sola parola, da parte di Beuys, nel corso dell’intera performance. Un simile “spiegare” invita a deporre i costumi di inganno e manipolazione solitamente associati all’uso delle parole, in politica o nella pubblicità commerciale, per esempio. Invita cioè a responsabilità e veridicità. Tutto questo, è evidente, riguarda gli uomini e le loro relazioni reciproche: non la lepre, che non parla la nostra lingua né potrebbe trarre vantaggio dall’evoluzione interiore dei parlanti. Tuttavia proprio un semplice, sacrificale animale del bosco è chiamato a essere giudice e garante. Intesa come lingua, l’arte non è “stile”, per Beuys, non è sfoggio di abilità, non perfezione tecnica né virtuosismo individuale. Tantomeno è “produzione” di oggetti-merce o manufatti di lusso. Fiorisce invece sul presupposto di una compenetrazione con la totalità del vivente, quasi a rinnovare l’antico mito orfico del poeta che raccoglie attorno a sé gli animali selvaggi e comunica con essi; e chiama in causa qualcosa come la compassione. La lepre ha perdipiù grandi orecchie: questo suo adattamento bioevolutivo la caratterizza nel senso dell’allarme. Si allarma chi, come un erbivoro di taglia minuta, è costantemente vulnerabile. Ma le grandi orecchie caratterizzano la lepre anche nel senso della prontezza ad ascoltare. La performance di Beuys è di fatto un elogio dell’ascolto: né della parola loquace, malgrado il titolo rinvii all’atto dello “spiegare”; né del silenzio tout court, tema, questo, su cui Beuys polemizza volentieri con Duchamp, reo ai suoi occhi di un’indifferenza pressoché solipsistica.


Una vasta schiera di artisti, tra primo e secondo Novecento, è insorta contro il primato dell’“occhio”; e si è adoperata a concepire immagini, per citare Kandinskij, «rivolte all’orecchio più che alla vista». Beuys è parte della schiera. L’invito a una riflessiva compostezza, formulato una prima volta in Come spiegare i quadri a una lepre morta e rinnovato in L’America mi piace e io piaccio all’America, si rivolge al pubblico della performance, cioè al pubblico dell’arte. Le opere d’arte, postula Beuys, comunicano il loro senso più riposto a chi le avvicini in atteggiamento ricettivo, individualmente, a chi sia capace di silenzio e ascolto; non a chi vi cerchi sollecitazioni grossolane.

BEUYS
BEUYS
Michele Dantini
A cento anni dalla nascita molte iniziative riportano all’attenzione del pubblico uno degli artisti più influenti del secolo scorso, il tedesco Joseph Beuys (Krefeld 1921 - Düsseldorf 1986). Difficile da inquadrare non solo in un movimento, ma anche in una categoria artistica, è scultore, pittore, performer soprattutto, anche perché l’intera sua vita può essere considerata una performance. Aderisce alla filosofia steineriana, al movimento Fluxus, insegna scultura, crea installazioni, diventa un attivista fra i primi a occuparsi del rapporto fra uomo e natura. Ma assume col tempo sempre più un ruolo “sciamanico”, legato a un’esperienza personale: ha un incidente aereo durante la Seconda guerra mondiale (in cui combatte in veste di pilota); viene raccolto da una comunità di tartari (secondo il suo racconto) in Crimea, e curato con rimedi tradizionali, grasso animale e coperte di feltro. Questi due elementi rimarranno per sempre costitutivi delle sue azioni creative, in cui lui stesso è presenza iconica fondamentale.