SOGGIORNO
A FIRENZE

A Firenze Annigoni assimila l’essenza del Rinascimento, la raccoglie come eredità e come sfida per il futuro.

N

ell’Accademia i suoi insegnanti riconoscono in lui già un maestro. Carena, Graziosi, Celestini si rendono conto che nel ragazzo si trovano talenti rarissimi, in particolare nel disegno e nell’incisione; egli inizia quel duro lavoro che lo occuperà per tutta la vita, un lavoro non solo tecnico ma interiore, dove ogni segno non solo deve essere perfetto ma deve cercare di esprimere interamente il suo mondo poetico. Accanto allo studio accademico Pietro scopre gli amici più importanti e la donna che gli darà due figli: Anna Maggini. Il loro primo incontro avvenne presso lo studio del comune amico, Mario Parri, nel 1928. Anna era una studentessa del conservatorio Cherubini, aveva un carattere forte e una grande sensibilità. Il loro amore fu da subito profondo ma non privo di contrasti. Per Annigoni non sarà mai semplice conciliare una normale vita familiare con la vita d’artista, in giro per il mondo a fare ritratti e affreschi; Pietro e Anna si sposeranno nel 1937, nel 1939 nascerà il figlio Benedetto e nel 1948 la figlia Maria Ricciarda. Nel 1954 il matrimonio finirà con una dolorosa separazione consensuale, ma, come si vedrà, Anna resta comunque una figura di riferimento per Annigoni.


Nella Firenze degli anni Venti e Trenta accadono forti trasformazioni culturali e politiche; Annigoni stringe importanti rapporti con artisti e intellettuali come Renzo Simi, di cui scriverà: «Egli era già un uomo fatto, e io ancora ragazzo, quando lo conobbi alla Scuola Libera del nudo […]. Mi fu subito prodigo di consigli preziosi e di quella ammirazione cordiale e severa che fa tanto bene a chi aspiri a un intento creativo. E se ora mi volto indietro a abbracciare col ricordo una lunga serie di anni, i più belli nella vita di ogni uomo, la sua cara immagine paterna si riaffaccia via via […]. Lunghissime ore di lavoro e violente reazioni, rumorose brigate e cene, dolci impagabili smarrimenti, entusiasmi traboccanti, beffe atroci e il torbido malessere di sbornie memorabili; e, ancora, ore di lavoro accanito e commoventi gloriosi spettacoli della terra e del cielo in lunghi viaggi a piedi per le strade e i monti di mezza Italia e altrove […] sento sempre viva la presenza incitante e ammonitrice del Simi»(9)). 

La morte del mendicante (1931); Firenze, collezione Fondazione CR Firenze.


La partenza (1935); Firenze, collezione Fondazione CR Firenze.

Oltre a Simi Annigoni conosce lo storico Carlo Francovich, lo studioso d’arte Nicolò Rasmo; persino uno scrittore come Giovanni Papini si farà fare il ritratto dal giovane maestro, anche se cercò in ogni modo di far calare il prezzo rispetto a quello pattuito, lamentando l’aumento del costo della vita, tanto che alla fine Annigoni gli risposte sarcastico che, visto il caro vita, poteva pagargli il prezzo che voleva. Papini capì l’antifona e sborsò il compenso stabilito ma, sentendosi colto nel vivo e umiliato, tolse al maestro il saluto (cfr. Beppe Pigolotti, L’Annigoni sconosciuto, Firenze, 1980, p. 14). L’importanza delle amicizie lui stesso la sottolineerà con queste parole: «Destino fortunato fu quello di incontrare di volta in volta, forse nei momenti cruciali, cari amici, che con entusiasmo, comprensione e fiducia nelle mie potenzialità mi hanno aiutato a rimanere in piedi da solo contro la corrente della moda»(10). In questo senso i ritratti a matita degli anni Venti e Trenta dei suoi amici rappresentano un omaggio all’amicizia e al suo valore profondamente umano, valore che solo l’arte figurativa poteva, per Annigoni, celebrare.


La straordinaria capacità tecnica di Annigoni era nota fin dall’inizio e a Firenze ben presto iniziarono a girare le voci di questo prodigio del disegno… e iniziarono pure le invidie. Annigoni lo presentiva, infatti negli anni dell’Accademia iniziò a firmare le sue opere non solo col nome ma aggiungendo il crittogramma: «C †††», dove la C sta per “Canonicus” e le tre croci simboleggiano il calvario, «il calvario del fare e del vivere intensamente la cultura»(11). Simi puntualizzava: «Io domando quale dei nostri pittori viventi riveli una personalità della statura dell’Annigoni; un contenuto così ricco, vario, drammatico; una fantasia così prodigiosamente agile e intensa; una umanità così viva e profonda; uno stile così inconfondibile, che qualunque sia il genere, la tecnica, l’importanza di una sua opera, anche in pochi segni veloci, egli afferma se stesso, si fa riconoscere a prima vista»(12).

Il viaggio (1934).


Nudo disteso (1943). Nelle opere giovanili Annigoni sperimenta molto: riprende e riadatta la tecnica della tempera grassa che gli permette una maggiore precisione nel rapporto tra disegno e colore. Gli anni Trenta e Quaranta sono ricchi di paesaggi, ritratti e di composizioni in cui si ravvisano suggestioni metafisiche e surrealiste. I diseredati e i mendicanti sono tra i suoi soggetti preferiti.

Lo notò Ugo Ojetti, recensendo la prima mostra personale di Annigoni nel 1932, sul “Corriere della sera” del 23 dicembre: «Vi sono i disegni dei ritratti, precisi e concisi, così che il volto più grande non supera i cinque o sei centimetri: teste o mezze figure, uomini e donne, vecchi e giovani, bottegai, borghesi, artisti, artigiani, compagni di scuola […] appaiono come sono, vive e basta […]. Il fatto è che a tanta verità l’Annigoni arriva con una sicurezza che non è bravura, ma un attento, lento e quasi flemmatico osservare: lentezza e attenzione, che sono fuori della moda corrente, la quale vorrebbe spregiare la realtà […] coi ritratti dell’Annigoni s’è al polo opposto: cioè un meticoloso e sodo operare, con umiltà e probità»(13). Lentezza, meticolosità, umiltà, qualità che i grandi artisti di ogni epoca hanno sempre manifestato; ma era l’amore per il vero a guidare Annigoni in ogni sua opera, in ogni suo tratto; l’amore per ogni essere vivente, per ogni volto, albero, montagna, ben consapevole che “quella” ruga, “quella” luce atmosferica non sarebbero più apparse nella storia dell’universo e a lui toccava il compito di rivelarne il segreto. Dopo la sua prima personale a palazzo Spini Feroni a Firenze Annigoni vince il premio Trentacoste e nel 1936 espone anche a Milano. Iniziano i primi successi; gli intenditori riconoscono il suo talento unico. Ma ciò non lo fa riposare sugli allori; si mette in viaggio, da solo o con amici, e disegna paesaggi e volti. Inizia la sua dedizione verso gli ultimi, i derelitti della società, i mendicanti. A queste figure dedicherà alcuni dei suoi capolavori, come il Cinciarda. Annigoni inizierà la sua attività a Firenze in uno studio a piazza Santa Croce (che lascerà nel 1953 per lo studio di borgo degli Albizi). Così l’artista lo descrive:

«Questo vecchio studio era particolarmente bello, con una grande loggia con vista sui tetti della città; è stato mio per dodici anni, quando poi la padrona di casa decise di vendere la proprietà. Offrì a me di comprarlo, ma non potevo permettermelo, così iniziai a guardare in giro per un altro posto. Mi ci vollero due anni per trovare un nuovo posto, e in quel periodo riuscii a spaventare con successo tutti i potenziali acquirenti dello studio avendo dipinto a trompe l’oeil delle crepe aggiunte alle poche crepe reali sulle pareti e sul soffitto. Una volta un architetto, portato da un potenziale acquirente, guardò una delle false crepe che si estendeva dal soffitto alla finestra e osservò: “Questo è grave. Potrebbe essere molto pericoloso”. La farsa si concluse poco dopo aver trovato un nuovo studio, quando il padrone di casa portò un altro acquirente. Prima che l’acquirente uscisse dimostrai a entrambi che le crepe potevano essere facilmente lavate e tolte. Il tutto venne preso come un grande scherzo e, senza dubbio perché riuscì a vendere ad un buon prezzo, il proprietario non mi ha mai rimproverato»(14). Annigoni amante degli scherzi, delle serate in osteria a bere con gli amici, dei bicchieri frantumati con una mano, degli abbracci così forti da romperti una costola… questo era il suo lato “caravaggesco” che lo rese noto in tutta Firenze per il suo carattere particolare; ma la vitalità estrema che Annigoni manifestava pubblicamente serviva probabilmente a bilanciare la sua interiorità fin troppo sensibile e filosofica; egli cercò sempre di compensare l’aspetto tragico e malinconico della vita con quello della farsa e dello scherzo.

Ormai a Firenze era nota la sua capacità figurativa e nel 1937 inizia il suo primo importante ciclo di affreschi nel convento di San Marco. Si tratta di uno dei capolavori assoluti di Annigoni, sia per la straordinaria capacità di eseguire a regola d’arte un affresco di quelle proporzioni, sia per la resa poetica del soggetto: la deposizione di Cristo dalla croce e quattro santi ai lati (con scene tratte dalla Genesi per le due lunette). Annigoni su questa impresa giovanile scrisse: «Iniziai l’affresco a San Marco con la Discesa dalla Croce […]. Per la prima parte del lavoro decisi di avere un corpo realmente morto per la figura di Cristo, così consultai il professore di anatomia di un ospedale ed ebbi il permesso di scegliere dalla cella frigorifera. Ce n’erano quattro o cinque lì, tutti degli scheletri, praticamente. Presi l’unico che poteva servire al mio scopo e ho cercato di appenderlo su una scala, ma era troppo rigido […]. Alla fine, ho dovuto usare un modello vivente»(15). Ecco ancora la grande ricerca del “vero” che i massimi artisti della storia hanno sempre ricercato, come Leonardo quando sezionava i cadaveri, fino ad arrivare a Géricault che riempì di brandelli in decomposizione il proprio studio per dipingere la Zattera della Medusa… Tra l’altro, in quel primo lavoro importante, tra gli aiutanti di Annigoni vi era Franco Zeffirelli, futuro regista, che così ricorda l’esperienza: «Ebbi il grande piacere di impastargli i colori […]. All’epoca studiavo all’Accademia la tecnica dell’affresco, ma vederla eseguita da un autentico Maestro stupì me e i miei amici […]. La sua opera prosegue la grande tradizione italiana»(16). Vedere Annigoni alle prese con l’affresco del Cristo deposto dalla croce di certo aprì a Zeffirelli la consapevolezza di una missione: proseguire la grande tradizione figurativa italiana nel cinema.


I primi anni fiorentini diedero all’anima di Annigoni la sua forma definitiva, il suo aspetto maturo: «Non voglio dare l’impressione che in quei tempi ero una specie di selvaggio, un bohémien playboy […]. Così, selvaggio e bohémien lo ero, ma mai un playboy o un hippie. Anche durante il mio periodo più selvaggio, non ho mai permesso che i piaceri invadessero la mia giornata di lavoro»(17). La sua vita è stata un irripetibile equilibrio tra l’essere selvaggio, vagabondo, e l’essere un grandissimo lavoratore dell’arte pittorica. Firenze è ormai la sua casa, ma adesso che ha messo radici iniziano i viaggi in tutto il mondo.


Discesa dalla croce, Caino e Abele, San Tommaso d’Aquino e Savonarola (1937-1941); Firenze, convento di San Marco.


Studio del Cristo per l’affresco del convento di San Marco a Firenze (1937). L’arte dell’affresco, da sempre banco di prova per gli artisti alla ricerca della perfezione formale ed espressiva al limite delle proprie capacità, rappresenta uno dei capisaldi dell’attività di Annigoni, che già in età giovanile sperimentava ritratti su piccole superfici, come gli embrici normalmente utilizzati per i tetti, per poi passare ad ampie superfici murali, a iniziare, nel periodo 1937-1941, dal convento di San Marco a Firenze a cui seguirono in anni successivi i grandi cicli di Ponte Buggianese (Pistoia), Montecassino e Padova.

ANNIGONI
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Valentino Bellucci