Studi e riscoperte. 1
La riproduzione delle opere d'arte

LA COPIA, IL FALSO
E IL FINTO

Esigenze di tutela, o di sostituzione di opere perdute - e la necessità quindi di operare una scelta efficace dal punto di vista visivo e ambientale - hanno posto il dilemma tra copia realizzata da un copista o utilizzo dei mezzi fotomeccanici o digitali di riproduzione. Che a sua volta induce a chiedersi se sia meglio il falso o il finto.

Rodolfo Papa

Negli ultimi anni, in sostituzione di capolavori artistici rubati o musealizzati, vengono esposte copie realizzate con scanner e plotter, con estrema disinvoltura, come se queste costose e raffinate “fotocopie” potessero sostituire l’opera d’arte, e vengono ormai largamente preferite alle copie realizzate da artisti, forse per la paura di produrre dei “falsi”, o forse per la strana idea che la “pittura” sia ormai morta, e quindi neanche più in grado di riprodurre se stessa. La questione è complessa, e pone in gioco le nozioni di originale e copia, di vero e falso. Per esempio, nel 2007, nel contesto di un grande restauro del complesso monastico benedettino dell’isola di San Giorgio a Venezia, è stato collocato nel grande spazio palladiano del refettorio un “facsimile” della grande tela delle Nozze di Cana – circa 10 metri di lunghezza per 6,7 di altezza – che Paolo Veronese fu incaricato di realizzare nel giugno del 1562 e che Napoleone trafugò nel 1797, portandola al museo del Louvre, a Parigi, dove è tuttora conservata: in pratica si è collocata un’immensa “fotocopia a colori” su stoffa al posto dell’originale.

Ancora più controversa è la vicenda dell’oratorio di San Lorenzo a Palermo dal quale, nella notte tra il 18 e il 19 ottobre del 1969, fu trafugato il dipinto di Caravaggio, La Natività con san Francesco e san Lorenzo. Per risarcire almeno in parte la grave perdita, un pittore del quartiere della Kalsa ne fece una copia - di non grandissima qualità - ridotta di un terzo nelle dimensioni, in osservanza delle regole contro i falsi emanate per la tutela del patrimonio artistico. Ultimamente, si è deciso di sostituire questa copia, “minore” in ogni senso, ancora con una “fotocopia a colori” su stoffa che ha usato come modello l’unica foto a colori esistente dell’opera trafugata, riproducendone anche i graffi, fraintesi come segni pittorici.

Una problematica analoga fu risolta in modo del tutto diverso quando la Deposizione di Caravaggio, appena tornata a Roma dopo le spoliazioni napoleoniche, fu collocata per sicurezza in una collezione pontificia. Al suo posto, nella chiesa di Santa Maria della Vallicella, fu collocata un’ottima copia di mano del pittore austriaco Michael Koch (1760-1825), che ancora riesce a farci gustare il progetto iconografico della chiesa nella sua pienezza(1).


L’OPERA D’ARTE HA UNO SPESSORE CHE NON PUÒ ESSERE RIDOTTO ALLA SUA “IMMAGINE”

Antero Kahila, copia (2008) della prima versione del Matteo e l'angelo di Caravaggio.

Caravaggio, Deposizione (1602-1604), Città del Vaticano, Pinacoteca vaticana.


La copia del dipinto effettuata da Michael Koch (inizi del XIX secolo) e collocata sull'altare che ospitava l'originale nella cappella Vittrici in Santa Maria della Vallicella a Roma.

Anche ai nostri giorni ci sono artisti che producono copie molto interessanti, come il finlandese Antero Kahila(2) che, dopo anni di ricerca e studio, ha elaborato una copia della perduta tela della prima versione di Matteo e l’angelo di Caravaggio, dimostrando che con le tecniche pittoriche si possono realizzare opere di qualità, che risarciscono gli originali, in modo non raggiungibile da nessuna copia tecnologicamente riprodotta, per quanto raffinata, perché solo un artista può comprendere un’opera d’arte tanto da riprodurla, e non solo in relazione al banale, ma emblematico, fraintendimento tra graffio della fotografia e segno pittorico.

Questi esempi impongono una riflessione su quale sia il confine tra copia e falso, e soprattutto se tutte le copie debbano essere considerate dei falsi. Infatti, se ogni riproduzione a mano delle medesime dimensioni dell’originale viene considerata un falso, intrinsecamente illegale e punibile, allora l’unica scelta possibile consiste in riproduzioni fatte da macchine, che però sono oggetti ontologicamente diversi: al posto di un manufatto si pone un prodotto tecnologico, al posto di un’opera d’arte un oggetto “di plastica”. Per non rischiare di produrre un “falso”, si preferisce produrre un “finto”, con tutto quello che questo filosoficamente e culturalmente comporta.

Si pone il problema della tutela dell’unicità dell’opera persino in una nuova forma di espressione, che pure utilizza mezzi costitutivamente aperti alla replicazione, quale la NFT, acronimo di Non-Fungible Token, che potremmo definire un’evoluzione della Crypto Art che si avvale dei mezzi della Digital Art, attivando una “blockchain”, ovvero una catena di blocchi che impediscono la modificazione e/o l’eliminazione della singola opera, rendendola unica, ma certo non possono impedire che se ne tragga ispirazione o la si riproduca, identica, ex novo.

In questa grande confusione, ciò che risulta più difficile da definire è il punto di partenza, ovvero il cosiddetto “originale”, soprattutto dopo alcune riflessioni filosofiche intercorse nello scorso secolo.



Paolo Veronese, Nozze di Cana (1562), opera portata al Louvre dalle truppe napoleoniche nel 1797, e dal 2007 sostituita, nella chiesa veneziana di San Giorgio, con una copia fotografica su tessuto.

La copia è il primo e il più vicino effetto della storia degli effetti che ogni capolavoro causa


Walter Benjamin in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936) afferma che «la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte emancipa per la prima volta nella storia del mondo quest’ultima dalla sua esistenza parassitaria nell’ambito del rituale. L’opera d’arte riprodotta diventa in misura sempre maggiore la riproduzione di un’opera d’arte predisposta alla riproducibilità». Considerando che «di una pellicola fotografica per esempio è possibile tutta una serie di stampe», conclude che «la questione della stampa autentica non ha senso»(3). Da questo presupposto prende le mosse successivamente il pensiero di Nelson Goodman(4), che con la sua nozione di copia non artefatta ma tecnologica, viene spesso invocato come soluzione. Richard Wollheim(5) ha giustamente sottolineato che la storia di produzione è essenziale all’identità dell’opera, sia copia sia originale, e che occorre stimare anche il ruolo del fruitore.

L’opera d’arte ha uno spessore tecnico, artigianale, culturale, esistenziale, politico, che non può essere ridotto alla sua “immagine” nel senso più superficiale del termine. Tale spessore costituisce l’insopprimibile individualità dell’originale, che in quanto immagine si presta a essere fotografato, fotocopiato, variamente riprodotto, ma in quanto opera d’arte si presta anche a essere il principio di altre opere, a essa più o meno vicine, che ne comprendono e rilanciano tutte le dimensioni visibili e non visibili. La copia non è in sé un falso, se viene palesata in quanto tale: il falso presuppone un intento doloso, il nascondimento della firma, l’equivoco dell’autore. Mentre la copia è il primo e il più vicino effetto della storia degli effetti che ogni capolavoro causa.

Quando l’opera è indisponibile nella sua collocazione originale, è legittimo che una copia fedele ne reinterpreti la presenza, e questo può essere effettuato solo mediante una copia che sia anch’essa un’opera d’arte.

ART E DOSSIER N. 395
ART E DOSSIER N. 395
FEBBRAIO 2022
In questo numero: INCROCI AL CINEMA: Beuys e Richter; Un museo per Fellini. PITTURE PALEOLITICHE: La grotta degli spiriti. IN MOSTRA: A Milano: Steinberg; Gnoli; Divisionismo. Haring a Pisa, Ghirri a Polignano a mare. DILEMMI RIPRODUTTIVI: Copia: umana o fotografica?Direttore: Claudio Pescio