Arte e cinema
Richter, Beuys e Von Donnersmarck

L’ARTE?
UN CAMMINO SCIAMANICO

Opera senza autore, l’ultimo film di Florian Henckel von Donnersmarck, intreccia la biografia di Gerhard Richter con la «biografia spirituale della germania nazista», come ha dichiarato lo stesso regista. Ma c’è di più. Tra le sue fonti di ispirazione anche Joseph Beuys.

Luca Antoccia

Werk ohne Autor (Opera senza autore), oltre a essere un film sociopolitico sulla Germania nazista e sull’ombra proiettata dal nazismo sulla ex Rdt, è un particolare “biopic” sotto mentite spoglie sulla vita dell’artista tedesco Gerhard Richter (e su altri, come si vedrà). Ma per il regista Florian Henckel von Donnersmarck (Le vite degli altri, Oscar 2007) è qualcosa d’altro e di più: «La storia del pittore di invenzione Kurt Barnert è un po’ la biografia spirituale della Germania, arricchita da altri artisti. La parte biografica è solo il punto di partenza per una storia di finzione»(*).

È proprio quel che non dev’essere piaciuto a Richter se si è rifiutato di vederlo. Eppure Donnersmarck non ha tutti i torti, almeno nelle intenzioni; peccato che un eccesso di ambizioni e compiacimenti freni i risultati. Senza averne la forza visionaria che richiederebbe, egli propone un’idea dell’arte catartica, autorivelatoria, un cammino verso la verità pressoché sciamanico. E allora per questo ci voleva Joseph Beuys. Ma andiamo con ordine.


Il personaggio ispirato a Beuys, nel film, riveste un ruolo sciamanico nell’evoluzione della personalità artistica Del protagonista

Il film si apre nel 1937 a Dresda. Il futuro pittore è un bambino di cinque anni, Kurt, accompagnato dalla zia Elisabeth a vedere una mostra d’arte, indicata dai nazisti come «degenerata» e dalla quale lei, invece, è attratta. Nella sequenza in cui Elisabeth chiede agli autisti del pullman fermi al capolinea di suonare all’unisono i clacson c’è tutta la sua idea panica dell’arte. Quell’esperienza sarà per lei, purtroppo, l’anticamera di una diagnosi di schizofrenia e di una fine terribile nel gorgo dell’eugenetica nazista. Anche Kurt, poi artista nella Dresda del realismo socialista, ridotto a pittore di regime, non avrà inizialmente una sorte gloriosa. Finché, poco prima della costruzione del Muro, scappa a Ovest. A Düsseldorf si lancia nell’arte meno realista possibile e frequenta la Kunstakademie (insieme a Günther Uecker, Konrad Fischer, Blinky Palermo), dove insegna Beuys (nel film sotto il falso nome di Antonius van Verten, ma riconoscibilissimo da cappello e bastone). Da lui Kurt sente dire che ogni vera opera d’arte deve avere qualcosa delle origini dell’umanità o frasi come: «Se è una cosa che vale o no lo puoi sapere solo tu»; «Ciascun uomo può essere un artista: voi siete dei sacerdoti, dei rivoluzionari, dei salvatori, portate le vostre offerte sacrificali».

Van Verten/Beuys fa insomma a Kurt da guida spirituale, lo porta a riconoscere in sé il vuoto che sta invano tappezzando con opere ispirate ora a Dubuffet, ora a Giacometti e Tàpies. E gli insinua dubbi fecondi: «Tu cosa sei? Tu non sei questo». Dalla lunga crisi creativa Kurt/Richter arriva a realizzare una serie dei dipinti tratti da fotografie, anche personali, a cui però negherà sempre significati biografici. Il film invece ricama in particolare proprio su questo versante, sulle modalità della morte della zia, sulla sua futura moglie Ellie (conosciuta alla Kunstakademie di Düsseldorf) e soprattutto sul passato del suocero chirurgo ginecologo, nazista.


L’arte per Donnersmarck ha una missione di verità esistenziale


L’attore Oliver Masucci, che interpreta il personaggio ispirato a Joseph Beuys.


L’attore che interpreta il protagonista adulto, Tom Shilling.


Il protagonista, bambino, con la giovane zia (l’attrice Paula Beer) in una delle scene iniziali.

Per il regista, Kurt/Richter conosce la mostruosa verità che il film racconta sia pure attraverso il farsi delle sue opere, come se esse lo guidassero infallibilmente verso angoscianti verità familiari. Qui il principale punto di frattura tra regista e artista, che invece minimizza il ruolo della biografia nell’arte. L’arte per Donnersmarck ha una missione di verità esistenziale (tutto ciò che è vero è bello, diceva la giovane zia Elisabeth) capace di riscattare la brutalità della storia e della politica. Da qui nasce la sequenza migliore: il protagonista nel suo atelier sta proiettando delle foto con un episcopio su una tela bianca appoggiata al muro quando un colpo di vento fa aprire gli scuri della finestra. La luce, sfocando le immagini proiettate fino a farle quasi scomparire, evidenzia in lui un percorso creativo possibile. Ed è anche l’epifania quasi contemporanea del rivelarsi sulla tela del passato nazista del suocero e della nuova poetica di Kurt. L’artista come rabdomante, quasi sciamano.

Van Verten/Beuys, poco tempo prima, nel suo studio, aveva raccontato a Kurt il momento decisivo della sua iniziazione all’arte. Durante la seconda guerra mondiale, dopo l’abbattimento del suo aereo militare, lo vediamo in flashback mentre viene salvato da una tribù di tartari che gli offrono cure sciamaniche per guarirlo da una profonda ferita alla testa: nel feltro e nel grasso animale, utilizzati per la sua guarigione fisica e animica, troverà i primi materiali della sua arte. Anche se si tratta di un apologo, del suo personale mito di fondazione - lo stesso narrato anche dal vero Beuys -, questo racconto ha la funzione di riportare Kurt a se stesso e alle sue origini.

Von Donnersmarck firma qui un film strano e irrisolto, assai diverso da Le vite degli altri, più ambizioso e sbilanciato nelle sue tre ore e passa, incerto di continuo se voltare verso Hollywood o verso Heimat di Edgar Reitz (1984).

ART E DOSSIER N. 395
ART E DOSSIER N. 395
FEBBRAIO 2022
In questo numero: INCROCI AL CINEMA: Beuys e Richter; Un museo per Fellini. PITTURE PALEOLITICHE: La grotta degli spiriti. IN MOSTRA: A Milano: Steinberg; Gnoli; Divisionismo. Haring a Pisa, Ghirri a Polignano a mare. DILEMMI RIPRODUTTIVI: Copia: umana o fotografica?Direttore: Claudio Pescio